TRA FISICA E METAFISICA DANTE CONQUISTA LA LUNA
Il 2° canto del paradiso e le leggi della fisica ieri e oggi
di Antonio Marino e Benito Marino
La Luna ha sempre affascinato l’uomo ed è stata fonte d’ispirazione poetica in ogni periodo storico. Le sue particolarità non sono spiegabili neppure oggi: è l’unico satellite della Terra, non ha una superficie uniforme, mostra alla Terra sempre la stessa faccia. È Francesco d’ Assisi a parlarne per primo: “Laudato si', mi' Signore, per sora luna e le stelle, in celu l'ài formate clarite et pretiose et belle.” Viene esaltata la sua lucentezza, espressa anche dal significato del suo nome latino (luna = luminosa), rischiarante la notte delle tenebre, insomma una stella. L’intero canto 2° del paradiso può essere considerato un vero e proprio trattatello sulla Luna-stella.
1. 1. Il clima scientifico-culturale all’epoca di Dante
Focalizzando la nostra attenzione sul 2° canto del Paradiso, chiediamoci, per prima, qual era il clima scientifico nell’età di Dante. La matematica era quella di Leonardo Fibonacci, detto il Pisano, che muore 25 anni prima della nascita di Dante e che possiamo considerare contemporaneo. Un grande divulgatore di Fibonacci era Paolo Dagomari, contemporaneo di Dante, detto Paolo dell’Abbaco, che scrive il Trattato dell’abbaco, un insieme di riassunti del testo di Fibonacci, Liber abaci, entrambi ricchi di problemi piuttosto pratici e quindi di larga diffusione. In fisica astronomica, diffuso anche a livello popolare, è sicuramente l’Almagesto di Tolomeo che, riprendendo Aristotele, sistema dal punto di vista matematico la visione geocentrica del mondo. Una versione in latino la fece anche Federico II nel XII sec. Tutta la struttura del Paradiso riproduce fedelmente la concezione del cosmo dell’Almagesto. A tal proposito la prima terzina del Canto I è tutta un programma: “La gloria di colui che tutto move/per l’universo penetra, e risplende/in una parte più e meno altrove”. Dio è il perno su cui gira tutto l’Universo, ma muove i cieli restando immobile, perché si altererebbe. A tal proposito sicuramente Dante poté nutrire delle perplessità, ma le risolse brillantemente, integrandovi l’interpretazione di Tommaso D’Aquino. È un esempio dell’abilità di Dante di fondere scientificità e teologia. Aristotele parla di attrazione, tipo calamita, non di intervento diretto e questo metteva in luce anche il suo disinteresse per il mondo creato. La soluzione è faticosamente trovata nell’ultimo Canto XXXIII, w.145: “l’amor che muove il sole e le altre stelle” e chiude tutta la terza Cantica, che era cominciata con Dio, causa di tutto e finisce sempre con Dio soprattutto causa finale. La funzione meccanica è completamente trasformata, perché ora si tratta di Amore che attrae anche inconsapevolmente. Non si può dire più che ci troviamo difronte ad un disinteresse di Dio per il mondo. Questo amore lo si può interpretare come energia, alla moda del grande logico e fisico, Leibniz, per cui Dio si costituisce come fine in cui tutto converge. Notevole anche l’influsso neoplatonico, l’amore è emanato per sovrabbondanza, tutte le cose si distanziano da Dio, che è luce, e vanno verso le tenebre, ma tutte le cose ritornano in Dio. È un andare e venire continuo, spinto da un’energia inesauribile. È un ciclo di andata e ritorno in cui le cose si combinano, pur contrastanti fra loro, in perfetta armonia, perché Dio, come dirà Cusano, è coincidentia oppositorum. In questo ambiente culturale medievale così complesso non ultimo è il testo di Grossatesta il “De Luce”. che sarà oggetto di analisi più attenta nel paragrafo specificamente dedicato alla fisica di Dante.
2. 2. La struttura logica-medioevale del secondo canto
La prima terzina del canto 2° si avvia con un giusto ammonimento di Dante: “O voi che siete in piccioletta barca”, il poeta sa che cosa ci aspetta, per cui “tornate a riveder li vostri liti”; ci invita, dunque, a rispolverare le nostre conoscenze, perché “perdendo me, rimarreste smarriti”. Le conoscenze qui sono concentratissime a partire dal w.49 e ss., quando inizia una tipica “Quaestio” da esperti scolastici quali erano i due protagonisti. La tecnica usata è quella della logica proposizionale di Aristotele, rivista e corretta da un celebre logico bizantino, Psellus (1018-1078), il cui quadratus pselli fu diffusissimo nelle scuole medievali e rappresentava il fulcro di un manuale pratico e facile da memorizzare, per utilizzarlo nel classificare e combinare le varie proposizioni in un ragionamento detto sillogismo (dal greco συλλογισμός = discorso complesso). Un ragionamento formato da due affermazioni, premessa maggiore e premessa minore, dalle quali si deduce una terza affermazione, detta conclusione. Il perno su cui ruota il sillogismo è costituito dal termine medio che collega le premesse alla conclusione, avendo come infallibile regola che non deve mai trovarsi nella conclusione stessa.
Accanto ai sillogismi detti categorici, vi sono quelli detti ipotetici che si dividevano in tre gruppi: a) Condizionali (regolati dal se … allora), b) Congiuntivi (regolati dalla “e” congiunzione), c) Disgiuntivi (regolati dall’ “aut … aut” latino). Il giudizio ipotetico presenta due modelli detti, Tollens e Ponens, spesso combinati fra loro Tollendo-Ponens oppure Ponendo-Tollens, sono i modelli preferiti da Dante e Beatrice nella “Quaestio” del 2° canto sulle “macchie lunari”. Dante dice con un’ipotetica disgiuntiva: 1) Le macchie lunari dipendono o dalle colpe di Caino o dalla quantità di densità (più-meno) del suolo lunare. 2) Ma non possono dipendere dalle colpe di Caino, credenza fantastica non empiricamente fondata. 3) Allora togliendo la 1) viene posta la sola motivazione (averroistica) della densità. Beatrice adotta lo stesso schema del Tollendo-Ponens, ma lo integra col Sorite (dal greco σωρίτης= mucchio), un sillogismo imperfetto che accumula più proposizioni, di cui il predicato della prima va a formare il soggetto della seconda e il predicato di quest’ultima va a formare il soggetto di una terza proposizione e così via, finché si arriva alla conclusione il cui soggetto è costituito dal soggetto della prima proposizione col predicato dell’ultima proposizione. Beatrice allora ribatte: 1) La teoria averroistica da te sostenuta è assurda, perché se dipendesse dalla densità della Luna e delle stelle fisse, i due estremi degli otto cerchi mossi dal nono, il primo mobile, insomma tutti gli astri possiederebbero una sola virtù, per cui non ci sarebbe alcuna differenza fra loro. Inoltre o la luna sarebbe povera di materia o la densità si alternerebbe dentro la sua materia (più-meno). 2) Togliendo la prima (la scarsità della densità della materia), perché nelle ecclissi i raggi del sole dovrebbero attraversare la luna, ma non accade, si pone la seconda (alternanza di densità, più-meno). 3) Ma la seconda esige che la luce sia riflessa dalla superficie lunare a differenti profondità, come in uno specchio con il dorso di piombo che ricevendo la luce alla sua profondità, dopo che essa ha attraversato il vetro, la riflette appena incontra il suo dorso più denso del vetro. Così, essendo il raggio riflesso nella parte più indietro al vetro, causerebbe l’impressione delle macchie a chi guarda dalla Terra. Eppure anche la seconda è da togliere e lo si dimostra con un semplice esperimento: basti collocare tre specchi di fronte all’osservatore e mettere quello centrale più lontano rispetto agli altri due e rispetto all’osservatore. Situare poi una lucerna dietro le spalle dell’osservatore in modo che la luce si rifletta contemporaneamente da tutti e tre gli specchi. Analizzando, quindi, il riflesso dei raggi luminosi nei tre specchi, nonostante la distanza renda le immagini di grandezze diverse, vedremmo che la qualità della luce non cambia e risulta essere senza macchie. Siamo ora alla fine del Sorite e il soggetto della prima proposizione (le macchie della luna) diventa ora il soggetto del predicato della conclusione. 4) Dunque le macchie della Luna sono causate da influenze celesti. Le stelle fisse trasmettono le caratteristiche ricevute dal primo mobile ai sottostanti cieli, “di grado in grado che di su prendono e di sotto fanno.” (Pd II, w.122-123), fino a quello della Luna che, essendo l’ultimo riceve una luminosità molto ridotta rispetto agli altri, per cui è affetto dalle macchie lunari. Ora ci chiediamo, cosa può essere quella virtù o principio, quel “ciò che per l'universo si squaderna”? (Pd. XXXIII, v.87). Oggi la Fisica ha fatto molti progressi e, senza stravolgere l’interpretazione tradizionale, è lecito tentare il disvelamento di questa rappresentazione che, partendo da posizioni fisiche, è finita ineffabilmente in modo metafisico.
3. 3. L’indagine fisica nel secondo canto
Due i punti di vista ma complementari. Nella prima parte, il sommo poeta, giunto insieme a Beatrice nel cielo della Luna, identifica l’astro con la Luce stessa, mettendo in terzine le leggi fisiche del tempo sulla luce. Nella seconda parte, invece, tenta di spiegare l’origine (non chiara neppure oggi) delle macchie lunari, ricorrendo alle leggi sulla propagazione della luce di evidente influenza araba ed usando la struttura logico-medievale sopra descritta.
“Parev’a me che nube ne coprisse/lucida, spessa, solida e pulita,/quasi adamante che lo sol ferisse. Per entro sé l’etterna margarita/ne ricevette, com’acqua recepe/raggio di luce permanendo unita.”
È un corpo che non ha estensione: una nube indefinita ed inglobante. Diffonde la sua luce come un raggio di sole che penetra in uno specchio d’acqua rifrangendosi. La “non estensione” era alla base della teoria della luce nel “De Luce” del Grossatesta, d’influenza averroistica, in cui è descritta come “prima forma corporalis”; termine non riferito alla luce come corpo tridimensionale, ma ad un’entità adimensionale, dotata di “diffusio” che produce “extensio”. La “diffusio” rende la luce capace di trascinare con sé tutto ciò che è materia causandone l’estensione.
“S’io era corpo, e qui non si concepe/com’una dimensione altra patio,/ch’esser convien se corpo in corpo repe,/accender ne dovria più il disio/di veder quella essenza in che si vede/come nostra natura e Dio s’unio.”
È difficoltoso per il poeta effettuare l’allunaggio, mentre esprime ciò che è corpo e ciò che non lo è. Com’è possibile che un’entità inestesa come luce (Luna) possa inglobare in essa qualcosa di esteso? La luce è un’entità infinita capace di diffondersi in tutte le direzioni, generando lo spazio fisico (estensione). È la risposta di Grossatesta, rielaborata in modo originale e metafisico. Egli percepisce la coesistenza inestesoesteso come la coabitazione della natura divina, infinita, in un corpo umano.
Così
per la meccanica quantistica: la luce è un campo elettromagnetico che si
propaga nel vuoto (immateriale) costituito da particelle (fotoni) non massive e
quindi entità non dotate di estensività. La non massività delle particelle è conseguenza
del fatto che il campo elettromagnetico si propaga su distanze infinite. Questa
correlazione tra propagazione infinita e non estensività è espressa dal principio
d’indeterminazione di Heisenberg che è alla base della meccanica
quantistica:
dove m è la massa di una particella che quantizza un campo, d la distanza alla quale il campo si propaga e c è la velocità della luce. Se si fa tendere la distanza ne consegue che la massa del campo è nulla.
Nella seconda parte, Dante chiede a Beatrice l’origine delle macchie lunari, zone della superficie lunare di colore più chiaro, che si estendono per decine o migliaia di chilometri. Il poeta pensa che, l’alternanza di parti chiare e scure della luna, dipendano dal fatto che la luce del sole attraversa zone di diversa densità. Quindi le zone più dense intrappolano la luce del sole e non la fanno riflettere, apparendo così ai sensi più scure. Beatrice confuta l’ipotesi averroistica di Dante con un metodo ipotetico-deduttivo e due esperimenti mentali. Se la diversa densità causasse la diversa luminosità delle zone lunari, nelle eclissi di sole la Luna dovrebbe apparire di diverso spessore:
“esto pianeto, o, sì come comparte/lo grasso e ’l magro un corpo, così questo/ nel suo volume cangerebbe carte.”
Inoltre l’intensità della luce non può dipendere dalla densità del corpo che attraversa, in quanto la luminosità di ogni stella dipende dalla “virtus”. Ecco l’esperimento mentale dei tre specchi:
“Tre specchi prenderai; e i due rimovi/da te d’un modo, e l’altro, più rimosso/tr’ambo li primi li occhi tuoi ritrovi./Rivolto ad essi, fa che dopo il dosso/ti stea un lume che i tre specchi accenda/e torni a te da tutti ripercosso. Ben che nel quanto tanto non si stenda/la vista più lontana, lì vedrai/come convien ch’igualmente risplenda.”
La “virtus” delle stelle oggi sarebbe l’energia che viene generata dalle reazioni termonucleari in esse. In definitiva il cielo della Luna, dice Beatrice, essendo più basso rispetto ai cieli delle altre stelle ha zone più chiare e più scure per differenti virtù che riceve dalle influenze angeliche:
“Virtù diversa fa diversa lega/col prezïoso corpo ch’ella avviva,/nel qual, sì come vita in voi, si lega.”
Chiara spiegazione metafisica delle influenze celesti presa da Tommaso D’Acquino, coincidente con una recente spiegazione delle macchie lunari di Peter Schultz della Brown University (Providence, USA) e di Megan Syal, ricercatrice presso il Lawrence Livermore National Laboratory (USA).
Le macchie lunari sono violenti impatti cometari. Le comete, viste anticamente come movimenti celesti inspiegabili, hanno una chioma formata da una tenue atmosfera gassosa che colpendo il suolo lunare forma vortici luminosi. Tale ipotesi potrà confermarsi soltanto dall’attento esame delle rocce lunari biancastre portate sulla Terra.
La Luna, ancora oggi, è misteriosa, non conosciamo bene le sue caratteristiche, dunque non ci resta, per ora, che affermare ciò che disse William Shakespeare: “Folle è l’uomo che parla alla Luna. Stolto chi non le presta ascolto.”
Aggiunto il 22/12/2020 18:56 da Benito Marino
Argomento: Filosofia della scienza
Autore: Antonio Marino e Benito Marino
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