Articolo apparso sul blog Nowhereville.
The mind sees the world as a thing apart,
And the soul makes the world at one with itself.
(E. L. Masters, Spoon River Anthology, Ernest Hyde)
#1
Nell’avvicinarmi al tema delle sovrastrutture ho inizialmente provato un grande entusiasmo, perché mi è subito apparso come un oggetto poliedrico che, da qualsiasi parte decidi di guardarlo, ti affascina e ti invita all’approfondimento. L’ho prima osservato da lontano, cercando di leggere le didascalie sottostanti come si fa per le opere d’arte esposte nei musei. Poi però ho deciso di lasciarle perdere, cercando di trovare un rapporto diretto e personale con quello strano oggetto. Ne riuscivo a vedere chiaramente le varie facce e interpretazioni, e ciascuna mi sembrava in sé compiuta e perfetta. Senonché ogni volta mi ricordavo che quelle facce erano parte di uno stesso oggetto, e quando ritornavo indietro cercando di guardare l’oggetto per intero, me lo perdevo. Mi rispondevo che c’era un errore semantico di fondo, che in realtà la parola sovrastruttura è una grande metafora che abbraccia più aspetti, e come tale porta a confusione. Insomma, sovrastruttura è parola che spazia dalla psicologia alla politica all’ingegneria civile, ma solo per caso. Ma anche questa risposta non mi acquietava. Perché usare la stessa parola e la stessa metafora? Non è forse perché si spiegano bene dei meccanismi che, su scale e ambiti diversi, sono fondamentalmente gli stessi?
Così, a furia di osservarlo, il poliedro, sono stato sopraffatto dal suo fascino e, come spesso mi accade, la sua immagine si è allargata a dismisura fino ad inglobare tutto quello che mi circonda.
Le riflessioni che condivido oggi sono pertanto il frutto di questa ricerca che, ben lontano dall’essere finita, sento di dover continuare per lungo tempo. È importante però sedersi e guardare indietro al percorso fatto e, nella difficoltà, condividere i dubbi e le perplessità, i quali sono in fondo i veri protagonisti di questo scritto. Di questi, oltre che della lungaggine, chiedo venia in anticipo.
#2
Quando penso al concetto di sovrastruttura, immagino la realtà come una base sulla quale si impone un qualcosa d’altro. La sovrastruttura cioè come un qualcosa che si definisce “in funzione di” altro. Volgendo quindi lo sguardo verso il basso, vedo quella realtà materiale dall’aspetto indubitabile e certo, ma a guardarla i dubbi si moltiplicano. Che cosa possiamo intendere esattamente per realtà, e cosa vi si impone sopra se non “altra” realtà? Al tavolo che ho davanti si impone l’aria circostante, e la gravità che lo trattiene al pavimento, e i libri e tutte le cianfrusaglie che ci stanno sopra. Sono forse loro la sovrastruttura? Ovviamente no. E nemmeno l’aria lo è.
Guardando agli enti - animati e non - mi colpisce la loro unicità, mi colpisce il fatto che di loro si possa dire qualcosa che li identifica, o che li si possa contare. E mi tornano alla mente quesiti posti agli albori della filosofia - ma non ancora risolti - circa la materia degli oggetti e la loro essenza. Parlo di materia e di essenza perché sono stati questi i due cardini attorno ai quali si è imperniata tutta la filosofia occidentale, due cardini che hanno costituito la caratteristica preminente della nostra interpretazione del reale, caratterizzata appunto dalla duplicità. I diversi componenti di un corpo umano fanno un uomo, ma quali sono gli organi o gli arti che realmente lo definiscono? Cosa rende un certo ente identico a sé stesso? Perché una mela resta una mela indipendentemente dalla sua varietà?
Tutte queste domande, a tratti apparentemente banali, ci mostrano come un "qualcosa" determina l’identità di un ente, lo fa esistere, indipendentemente dalla materia che lo compone.
In un passo della Metafisica Aristotele afferma: «di ogni cosa si può parlare in quanto ha una forma e non per il suo aspetto materiale in quanto tale». (1) [dove per forma Aristotele indica l’essenza della cosa, non la sua realtà visibile]. C’è quindi qualcosa che ci sta davanti, una materia indistinta, che grazie a qualcosa di “altro” acquisisce senso e identità.
Il dibattito sulla natura di questa seconda realtà ha forse rappresentato, e rappresenta, il quesito centrale per gran parte dei pensatori. La sua origine, in Occidente, è ancora più antica di Platone, potendosi ravvisare già nell’impostazione della scuola di Mileto. Sempre nella Metafisica, infatti, Aristotele ci dice che con Talete nasce quella forma di indagine sui “principi primi”, ovvero entità immateriali capaci di fondare l’essere della materia. Poco cambia che per molti presocratici tale principio fosse un qualcosa di materiale, come l'acqua o il fuoco. Ciò che conta è l’impostazione metodologica con cui si è affrontata l’analisi della realtà.
A questa visione faceva da degno contraltare il pensiero di Eraclito, che invece descriveva le cose come una materia indistinta che cambiava continuamente senza possibilità di trovare una sua stabilità. A questo modello interpretativo, che ha agevolato la retorica relativista dei sofisti, Platone ha sferrato una dura critica, dicendo che se la realtà è un magma dal quale non si può distinguere alcun ente, allora la conoscenza stessa è impossibile.
Mi chiedo quindi: cosa conosciamo quando conosciamo la realtà? La materia o la sua essenza?
Faccio un breve salto in avanti. Esiste una patologia neurologica chiamata agnosia integrativa che consiste nell’incapacità di cogliere gli oggetti nella loro interezza, ma soltanto un dettaglio per volta; i pazienti riescono a descrivere i singoli pezzi ma non sanno riconoscere l’oggetto. È come se vedessero la realtà in maniera bruta, priva di quell’essenza che genera identità. Mi viene dunque un dubbio: e se quel qualcosa che fonda gli “enti” fosse una nostra percezione mentale?
Platone si era arrovellato senza tregua sulla natura di quelli che in seguito, in periodo di Scolastica medievale, verranno ribattezzati “Universali”. Ed è un Platone anziano quello che si interroga nel Parmenide (dando voce ad un Socrate ancora imberbe, forse a sottolineare come, dopo tutti quegli anni, sia ancora inesperto di fronte al mistero dell’esistenza) se queste Idee non siano poi delle visioni mentali, delle nostre rappresentazioni. È uno scenario solo accennato e forse solo in parte capito, di certo non compreso dalla folla di neo, medio e iperneoplatonici dei circa 2500 anni a venire, che hanno preferito piuttosto la visione classica di Platone, come possiamo leggerla ad esempio nel Cratilo: “gli esseri stessi hanno un’essenza stabile e non relativa a noi, né vengono trascinati in su e in giù secondo la nostra immagine, ma esistono in sé secondo la loro essenza, in conformità alla loro natura” (2).
Il mio percorso formativo mi porta a dare più credito alla interpretazione non classica delle Idee, ovvero come nostre rappresentazioni. Indubbiamente la realtà risponde a leggi fisiche che garantiscono il perpetuarsi di certi fenomeni e l’autorganizzazione del loro sviluppo (il DNA funge da metafora perfetta), ma anche ammesso tutto questo, rimane il problema della distinzione di un ente dalla realtà circostante, la separazione di quel continuum di realtà in enti discreti. E questa azione, che appare come una prerogativa essenziale per la nascita di un ente, a mio modo di vedere è svolta dalla nostra mente. Prima della astrazione concettuale, che è una prerogativa tutt’altro che umana (già gli animali hanno una coscienza rudimentale della differenza fra una pietra e una fetta di carne), l’esistenza non può dirsi “scomponibile”. Il grande Uno parmenideo.
Se guardiamo alla nostra percezione, ci rendiamo conto come la tendenza del nostro apparato percettivo è quella di isolare l’oggetto ed assegnarlo ad una ben precisa categoria. Dall’iniziale visione elaborata dai lobi occipitali, l’immagine passa al lobo infero-temporale per il suo riconoscimento, e infine ai lobi frontali per la sua precisa categorizzazione (vedi Fig. 3). Ma non è questo il momento di entrare nel dettaglio di un tema tanto affascinante quanto spinoso come quello della percezione. Ciò che ci basta considerare al momento è la naturale tendenza a categorizzare la realtà, trasformando la realtà continua in enti astratti discreti. (3)
Tendenza confermata anche da decenni di ricerche condotti da antropologi e psicologi evoluzionisti, secondo i quali gli uomini di tutte le culture sono portati naturalmente ad interpretare il mondo come popolato da essenze, vere detentrici della natura e dell’identità dei singoli enti (4) (5).
Sono stato indotto a pensare, quindi, che è questa stessa astrazione la sovrastruttura che andiamo cercando da un po’, ma anche allora non ero soddisfatto, perché in fondo questa astrazione è parte integrante dell’oggetto stesso, costituisce più la struttura che la sua sovrastruttura. La realtà è anfibia, fatta tanto di materia quanto di nostra percezione. E se questa impostazione può sembrare – come è sembrata a molti in passato – foriera di pericolosi relativismi, perché fonda la conoscenza sulla percezione soggettiva, credo sia un rischio minimo considerato che ogni percezione si rafforza dalla somiglianza con le percezioni affini dei nostri simili. La realtà preserva una sorta di stabilità oggettiva in quanto le diverse percezioni di un oggetto che ciascuno di noi può avere non differiscono così tanto da non poter combaciare con quelle degli altri. Così, convenzionalmente, l’Uomo è Uomo, la Mela è Mela, e via dicendo. Con l’introduzione del pensiero astratto, la specie umana ha ottenuto un dispositivo (possiamo dire) tecnico capace di manipolare in massimo grado la realtà. Infatti, l’astrazione della realtà in enti logico-matematici e linguistici, ci permette di poter lavorare su di essa, o per meglio dire sulla componente astratta di essa. Ogni nostro calcolo matematico è il calcolo fatto sull’idea che abbiamo di una certa entità, siano essi fotoni, cellule o pianeti.
È prima l’astrazione concettuale che la nostra mente compie sul dato empirico (polimorfo e, in senso sartriano, vuoto) definendolo, e solo dopo la condivisione (6) di quel concetto a confermare la realtà di quel dato, agendo entrambi sia come demiurgo del reale che come dio neoplatonico/cristiano nel discriminare la luce dalla tenebra, la verità dalla falsità, e il reale dal non reale.
#3
Avendo tentato di definire la realtà, vengo finalmente alla sovrastruttura, cercando di comprendere quale sia la natura di quest’ultima e in definitiva perché ha senso interrogarsi in merito ad essa. La sovrastruttura nasce nell’istante in cui il calcolo fatto sulle nostre astrazioni (in seguito variabili scientifiche) diventa non più il modello con cui descrivere la realtà, ma il modello a cui conformare la realtà. Oggi ogni ente, compreso l’Uomo, è scorporato in infinite variabili, ciascuna delle quali deve rientrare dentro precisi schemi e valori. Si tratta dell’astrazione elevata a sistema. Spezzandosi, inevitabilmente perde quel significato olistico che la nostra percezione gli dava. È dalla capacità di calcolo umana che si genera la sovrastruttura, e per questo solo l’ambito umano mi sembra il terreno dentro al quale può avere senso parlare di sovrastruttura. Ha senso parlarne nella misura in cui la si interpreta come metafora del dominio che l’umano sta progressivamente imponendo a sé stesso. Più in generale, la sovrastruttura può definirsi come un grado avanzato di organizzazione della materia che esubera artificialmente la normale tendenza ad organizzarsi dei sistemi.
Si potrebbe obiettare che qualsiasi sistema fatto di più sistemi rappresenta una sovrastruttura per ciascuno dei sotto-sistemi, come gli organi fatti di cellule, o l’uomo composto da organi. Ma se così fosse, non servirebbe parlare di sovrastruttura, o perlomeno questo termine avrebbe una connotazione meramente quantitativa, indicando solo una struttura più grande. Mentre invece il problema è qualitativo, non quantitativo.
Ancora, si potrebbe pensare a tutti i processi in cui forze esterne si imprimono su strutture in sé compiute (pensiamo al virus che infetta la cellula). Dovremmo quindi concludere che ogni forza che incide su un’altra è sovrastruttura per la forza ricevente; ma così facendo ci rendiamo conto che ogni ente è già al suo interno il frutto di un dominio di forze più grandi su forze più piccole, sovrastrutture che si applicano su “sottostrutture”. In breve non ci resterebbe più nulla fra le mani, in una fuga verso l’infinitesimale che mi ricorda il paradosso di Zenone: Achille non raggiungerà mai la tartaruga partita poco prima, perché prima dovrebbe arrivare a metà strada, ma prima a metà di metà, e via dicendo…
Ha senso quindi parlare di sovrastruttura non come “teoria del tutto” ma come fenomeno puramente umano, nel momento in cui prendiamo coscienza che qualcosa di più grande dell’umanità stessa sta guidando la sua progettualità. In questo senso la parola sovrastruttura si carica di profondi significati politici e sociali, ed è proprio la politica - in quanto “scienza” del vivere insieme - il suo habitat naturale. Ed è sempre la politica che rende urgente la necessità di parlare di un tema sempre più attuale come quello delle sovrastrutture.
Oggi infatti ci troviamo soggetti ad uno stato di disciplinato dominio dell’umano. Non più idee umane che ispirano le leggi per auto-organizzarci, ma astrazioni delle idee in principi tecnico-scientifici che esuberano le umane competenze.
Siamo nei fatti dominati da una sovrastruttura che noi stessi abbiamo creato ma che non riusciamo a spegnere. Il mito del Golem ebraico, e le sue successive reincarnazioni (da Frankenstein a Terminator), è stato talvolta citato per definire il rischio della tecnologia per l’umanità. Ma questo rischio è a mio modo di vedere molto meno epico e brutale, non prevedendo l’eliminazione fisica degli uomini, quanto la loro lenta ma inesorabile “de-umanizzazione”.
Ma qui si apre una voragine che, al momento, va oltre le mie capacità di analisi e ben oltre la pazienza dei lettori.
Alla prossima!
(1) Metafisica, VII 1035a.
(2) Cratilo, 386,e.
(3) In questo senso risulta illuminante un passaggio di Severino: «Se si fosse convinti che, prendendo in mano un oggetto, ci si dovrebbe tirare dietro tutto l’universo, non si stenderebbe nemmeno la mano per prenderlo» (Il destino della tecnica, Milano 1998, p. 258).
(4) Sousa P., Atran S., Medin D., 2002: Essentialism and folkbiology: Evidence from Brazil, in «Journal of Cognition and Culture», 2. 3: 195-223.
(5) Gelman S. A., 2003: The Essential Child. Origins of Essentialism in Everyday Thought, Oxford University Press, Oxford.
(6) Quando Platone tenta di spiegare come le Idee danno forma alla realtà, ci dice che ogni singolo oggetto prende la sua essenza "partecipando" all'Idea. Curiosamente, il termine da lui impiegato per partecipazione, μέθεξις, in origine indicava la partecipazione condivisa di un gruppo di persone ad un evento, come ad esempio uno spettacolo teatrale.
Aggiunto il 22/04/2018 14:22 da Riccardo Ricceri
Argomento: Filosofia delle idee
Autore: Ricceri Riccardo
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