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Riduzionismo materialistico e alienazione

Un effetto collaterale molto dannoso del riduzionismo materialistico sta nel suo stabilire un rapporto di causa - effetto tra i fenomeni biochimici (nel ruolo di causa) e quelli mentali (nel ruolo di effetto). In verità, ogni fenomeno biochimico è allo stesso tempo mentale: le persone non sentono amore perché il loro corpo secerne una certa sostanza, bensì il sentimento è la secrezione di quella sostanza e inoltre, attenzione: la secrezione di quella sostanza è il sentimento d’amore. Siamo dunque noi che sdoppiamo una cosa che doppia non è, adottando una visione del mondo dualistica, il che non sarebbe così grave (chiunque abbia ricevuto un’istruzione occidentale non può evitare di adottarla) se non commettessimo, poi, un tragico errore, esattamente opposto a quello di Platone e dei successivi pensatori che, nell’antichità e nel medioevo, hanno diffuso questo aspetto del platonismo nell’immaginario collettivo, i quali credevano che le idee fossero antecedenti e superiori alla realtà materiale. A causa di una malintesa attitudine “scientifica”, noi occidentali crediamo invece che sia la realtà materiale a essere antecedente e superiore a quella mentale.

Si potrebbe difendere il riduzionismo biochimico sostenendo che fenomeni biochimici come quelli tipici della vita delle piante o degli organismi monocellulari non possano essere mentali; ma questa opinione contrasta con la semplice constatazione che il DNA, senza il quale tali fenomeni non sono neppure concepibili, è un codice. Ora, come chiunque li abbia studiati sa bene, tutti i codici si fondano sull’associazione tra elementi materiali ed elementi mentali, ossia sullo stare per (un determinato gesto della mano “sta per” un saluto, etc.). Dunque, ovunque agisce il DNA, agisce una mente. 

Il riduzionismo biochimico è, apparentemente, dualistico, perché ragiona sdoppiando la realtà in “materiale” e “mentale”; ma, nella sostanza pratica, esso si rivela invece monistico, nel senso che assume come unica autentica realtà quella biochimica e assegna ai fenomeni mentali uno status derivativo, secondario. Quando si affrontano problemi di grande impatto sociale come quello, ad esempio, della depressione moderna, bisogna dunque evitare assolutamente di cadere nel riduzionismo materialistico nella sua versione biochimica: altrimenti, si finisce per non comprendere come la natura della depressione sia mentale (consistendo in un’errata percezione di sé, di quel che si vuole, del mondo umano, di quel che gli altri sono e di quel che essi vogliono, della società e della realtà in generale) e naturalmente - perché essere dualisti non è poi così grave, come detto - allo stesso tempo biochimica; se non si comprende questo, non la si può affrontare efficacemente, attraverso un percorso di dialogo con gli altri, di riflessione sul reale e di comprensione del reale stesso. Anzi: il riduzionismo biochimico, ampiamente diffuso nell’odierno immaginario collettivo occidentale, genera depressione in chi - consapevolmente o inconsapevolmente - lo adotta, perché svuota di significato autentico alcuni fenomeni essenziali per la qualità dell’esistenza, quali i sentimenti, i pensieri, gli ideali, i valori, le passioni.

Ancora, si potrebbe controbattere: se il monismo non va bene, perché si considera errato - anche se giustificabile - il suo opposto, ossia il dualismo? Semplice: perché il riduzionismo di tipo monistico presuppone la scissione dualistica ma non la rispetta. In altre parole: una cosa è vedere il mondo come un tutto unitario; altra cosa è scinderlo in due per poi affermare, nella teoria o con i fatti, che una delle due parti è superiore all’altra.

L’alienazione, nelle sue varie forme, rappresenta una delle caratteristiche principali della nostra attuale società non solidale. Ho affermato che la depressione moderna è un fenomeno mentale, ma non ho parlato della sua origine, che è invece sociale e risiede proprio nell’alienazione. Combattere il riduzionismo materialistico è dunque assolutamente fondamentale per la costruzione di una comunità solidale.

Tra le varie forme di alienazione che ci affliggono, vi sono: l’alienazione professionale, per cui alieniamo il nostro tempo cedendolo completamente alle responsabilità sociali (lavoro) e domestico-economiche (altro lavoro), rinunciando a coltivare gli affetti, lo spirito e la cittadinanza, per poi accorgerci del nostro gravissimo errore solo quando - all’arrivo della pensione - è spesso ormai troppo tardi per ritrovare noi stessi; l’alienazione economica, che ci vede avvinghiarci al possesso di beni materiali in nome della proprietà e rinunciare al loro uso fondato sulla condivisione, perché la nostra accettazione acritica della nozione di proprietà ha come conseguenza l’impossessamento della maggior parte di essi da parte di grandi proprietari che ce ne sottraggono l’opportunità di uso; l’alienazione tecnica, per la quale ci innamoriamo delle tecniche in sé e ci dimentichiamo del loro essere dei mezzi e non dei fini, trovando piacere nel praticare bene una tecnica o nell’osservare altri praticarle bene - due esperienze in sé affatto negative, se non ci portassero, in quanto eccessivamente esaltate dalla nostra cultura (o meglio, ideologia) tecno-consumistica, a ignorare il risultato o la finalità della pratica (l’odierna insistenza fanatica nel “mettere l’accento sul processo anziché sul prodotto” è solo uno di numerosi esempi possibili, un altro essendo l’attenzione ossessiva di molti intellettuali verso la forma di un’opera d’arte - che sia un film, un dipinto, un concerto - unita alla loro orgogliosa disattenzione verso le finalità proprie di queste attività: se eseguo una canzone davanti a un pubblico, desidero che la sua attenzione sia concentrata sulla canzone stessa e non sulla qualità della mia esecuzione, essendo quest’ultima un mezzo fondamentale per il mio fine, ma non il mio fine; se creo un film o dipingo un quadro, desidero che il pubblico venga con me nel luogo che ho creato - per poi essere felice o meno dell’esperienza, naturalmente - e non che passi il suo tempo principalmente ad analizzare la tecnica da me impiegata per crearlo, come tipico ad esempio dei critici cinematografici strutturalisti); l’alienazione sociale, per la quale abdichiamo alla nostra empatia naturale soccombendo al diktat ideologico della competizione, finendo per considerare i nostri concittadini come potenziali nemici, per respingere qualsiasi concezione sociale ispirata al valore fondamentale della collaborazione in quanto “utopistica”, per interiorizzare a tal punto l’attitudine competitiva da vivere in costante lotta persino con noi stessi, di noi stessi nemici e non più amici; l’alienazione culturale, per la quale rinunciamo a tentare di comprendere e deleghiamo a pochi prestigiosi intenditori la formazione della nostra immagine del mondo (salvo poi, in un velleitario tentativo di riscattarci, ergerci a esperti in cose che non conosciamo affatto, negando valore all’autorità e all’autorevolezza in nome dell’uguaglianza e del relativismo soggettivista); l’alienazione esistenziale, per la quale noi esseri umani occidentali non riusciamo più a vederci come parte di una realtà più grande, che sia la natura o la comunità di nascita o la famiglia o qualsiasi altra forma, concreta o ideale, di comunità; non ci vediamo più così perché non vogliamo sentirci limitati, vincolati dal più grande di noi; ci trasformiamo dunque, come Alexis de Tocqueville, nel suo La democrazia in America del 1835, aveva previsto con stupefacente anticipo, in atomi sociali, esistenzialmente e socialmente impotenti.   




Aggiunto il 19/02/2020 14:47 da Alberto Cassone

Argomento: Filosofia morale

Autore: Alberto Cassone



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