L’uomo, essere finito, per natura, imperfetto, saggia fin dagli albori quel senso d’incompletezza, di privazione, che tenta d’annegare imponendosi modelli di vita, ritenuti temporaneamente perfetti, ai quali tendere.
Le figure divine, animalesche o umanoidi, furon tanto esorcismi di paure recondite, fenomeni sconosciuti, quanto guide morali, modelli di convivenza sociale, intransigenti con chi osava dubitare.
Cercò di spiegarlo in tal senso il grande imperatore Adriano, a proposito di colui che ama il prossimo come fosse se stesso; tale approccio all’altro è troppo contrario alla natura umana per essere sinceramente seguito dalle persone volgari, le quali non ameranno mai altri che loro stessi. E non si addice al saggio, il quale non ama particolarmente neppure se stesso.
Ma così come il marinaio vien guidato dagli astri, quella tensione utile verso il sempre troppo lontano, guida le genti.
"È difficile mantenersi a lungo in uno stato di perfezione, e per legge naturale ciò che non può progredire, regredisce" affermava Patercolo.
È quindi lecito domandarsi:
Potrebbe esser l'imperfezione, frutto del peccato originale, la migliore tra le qualità umane? L'enorme diversificazione fra individui, questa varietà così ricca di sfumature, di colori, non è, dopotutto, la vera essenza della perfezione?
In un mondo perfetto, compatto, chiuso e limitato, l’assenza di condizioni disagevoli non innescherebbe la miccia del progresso, dell’overcome ambientale.
L'utile dell'imperfetto.
In diverse culture, tra cui quella zen, le imperfezioni e gli errori conferiscono individualità ed anima ad un artefatto.
E quando un artefatto possiede un’anima vestita di errori ed imperfezioni consapevolmente incisi, allora è chiaro che non si può parlare più di irriparabili distrazioni, ma di scelte autorali.
Persino il numero aureo, sinonimo di bellezza assoluta, non ha cifra finita: l'1,6180339887.. non si ferma all'ultimo decimale, ma ne aggiunge altri, inseguendosi asintoticamente per spiegare che, alla perfezione, ci si può andare vicinissimi, ma toccarla non equivarrebbe al porsi dei limiti?
Per Empedocle, non è possibile parlare di perfezione senza parlare d'incompletezza, perché essa possiede delle possibilità di sviluppo e completamento con nuove caratteristiche (“perfectio complementii”).
Tale idea si ricollega al concetto estetico del Vanini: un'opera d'arte è perfetta se c’è lavoro attivo nella sua contemplazione, ovvero, se chi l’ammira, completa l'opera d'arte con l’immaginazione.
Nel quinto libro della Metafisica, Aristotele afferma che è perfetto:
- ciò che è completo, ciò che contiene tutte le parti necessarie;
- ciò che è così buono che niente di simile potrebbe essere migliore;
- ciò che ha raggiunto il suo scopo.
Ciò che ha raggiunto il suo scopo.
L'essenza dell'uomo coincide con l'incapacità di porsi degli upper bound conoscitivi, l'imperfezione intrinseca nella sua condizione umana lo sprona a toccare nuove vette, ad imporsi una curva monotona di crescita individuale.
L'uomo diventa perfetto se coltiva la sua imperfezione.
Il paradosso della perfezione (l'imperfezione è perfetta) si applica non solo ai modi naturali dell’uomo, ma anche alle dinamiche meccaniche dell'ingegneria.
Il modello giapponese del superamento della frontiera, il metodo kaizen (da KAI, cambiamento, e ZEN, migliore) ne è una prova: quel lavorio continuo di brainstorming, basato sul principio secondo il quale ogni cosa merita di essere migliorata perché perfettamente imperfetta, ha consentito al Giappone di raggiungere l’exploit economico del dopoguerra.
La stessa irregolarità dei cristalli semiconduttori, nella produzione di diodi e transistor, è requisito necessario per un corretto funzionamento della trasmissione.
La mia ricerca, dunque, non volge tanto alla perfezione, quanto all'imperfezione.
La varietà diventa utile nel momento in cui il leader riesce a combinare con successo le imperfezioni dei propri collaboratori, trasformando irregolarità individuali in perfezione aggregata, capace di toccare qualsiasi dimensione del piano di applicazione.
L'imperfezione insegna alla perfezione che non vi è nulla di più perfetto dell'essere imperfettamente utili.
Compito dell'individuo dovrebbe esser, allora, quello di rifiutare intimamente la standardizzazione attitudinale, per dar modo ad irregolarità innate di sbocciare e rendersi imperfettamente utili nel servire perfettamente la comunità.
Aggiunto il 05/05/2020 02:37 da Tommaso Bosi
Argomento: Filosofia delle idee
Autore: Tommaso Bosi
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