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Obiezioni di Hobbes a Cartesio






Obiezioni di Hobbes a Cartesio





di Davide Orlandi






Prima di concentrarmi sul dibattito tra Hobbes e Cartesio, vorrei accennare brevemente alla fortuna delle Obiezioni e risposte, poiché nonostante la manifesta indissolubilità delle Meditazioni rispetto al testo qui preso in esame, alle due opere (concepite originariamente per formarne una sola) non è stato comunque risparmiato di subire una sorte analoga a quella del Discorso sul metodo: sia le Meditazioni che il Discorso vengono infatti molto spesso pubblicati e letti senza che ci si preoccupi di mantenerne l'integrità, separando l'una dalle critiche mossegli, e l'altra dai saggi scientifici che, nelle intenzioni di Cartesio, avrebbero dovuto accostarglisi.

Destino, questo, tanto deprecabile quanto non necessario, se solo ci si preoccupasse di tenere nella giusta considerazione la preghiera di non giudicare l'opera «prima di essersi dati la pena di leggere per bene anche queste Obiezioni e le risposte ad esse» che Cartesio, all'interno della Prefazione delle Meditazioni, rivolge ai propri lettori.

È dunque questa, che vuole che tale raccomandazione sia rimasta inascoltata, una triste circostanza.

La prima edizione dell'opera risale al 1641, già all'epoca contava sei serie di obiezioni e costituiva di fatto un'opera collettiva data l'impressionante mole delle Obiezioni e risposte (addirittura sei o sette volte più ampie delle Meditazioni stesse) e il prestigio degli obiettori: Caterus per le 1e, Mersenne per le 2e, Hobbes per le 3e, Arnauld per le 4e, Gassendi per le 5e e ancora una volta Mersenne per le 6e; nella seconda edizione del 1642 a queste si aggiunsero le 7e di Bourdin.

Questo mio articolo si focalizzerà però sulle 3e Obiezioni, quelle che Hobbes rivolge a Cartesio, e ritengo quindi che sia opportuno descrivere, almeno concisamente, gli eventi che favorirono la nascita del dialogo, anche piuttosto acceso, che coinvolse i due autori.

Fu a Parigi durante un soggiorno di otto mesi, durato fino alla primavera del 1637, che il celebre filosofo inglese Hobbes fece la conoscenza di Padre Marino Mersenne, il quale lo ammise nella cerchia di intellettuali che gli si raccoglievano attorno, e sembrerebbe ragionevole presupporre che furono queste le circostanze in cui al celebre filosofo inglese venne fatto il nome di Cartesio.

Fin dall'inizio della loro conoscenza i rapporti tra i due celebri filosofi sembrano mancare di qualsiasi parvenza di cordialità, anzi sembrano caratterizzarsi per particolare diffidenza ed acredine, tra reciproci sospetti di varia natura ed accuse ignominiose.

Più precisamente, fu tra la fine del 1640 e l'inizio dell'anno seguente, con Hobbes appena tornato in Francia a seguito dell'inizio della Rivoluzione inglese, che ebbe inizio questa inimicizia, sembrerebbe a causa di una lunga lettera (ad oggi andata perduta) di obiezioni alla Diottrica cartesiana, e alla teoria della luce lì formulata, che Hobbes avrebbe scritto su richiesta di Mersenne, e che Cartesio sembrerebbe aver accolto con un certo malcelato fastidio, e ad offendere Cartesio più di tutto sembra sia stata un'imprudente insinuazione riguardante una pretesa somiglianza tra la dottrina hobbesiana dello «spirito interno» e la propria dottrina della materia sottile.

Un'avversione talmente sentita quindi, quella di Cartesio nei confronti di Hobbes, da indurlo a pregare Mersenne per la cessazione di ogni rapporto con «l'Inglese» (Cartesio infatti si rifiutò anche solo di pronunciare il nome del filosofo), dal quale desidererebbe mantenere una prudente distanza, anche perché ne sospetta l'ateismo.

Richiesta questa che arrivò troppo tardi, infatti ad Hobbes le Meditazioni erano già state fatte leggere, e le sue obiezioni, pronte alla fine del gennaio del 1641, insieme alle inframezzate e quasi sempre brevi risposte che gli furono offerte, e che lo lasciarono spesso insoddisfatto, costituiscono un incontro, o più propriamente uno scontro, che nelle intenzioni di Cartesio, come ho cercato di argomentare, non avrebbe mai dovuto avere luogo.

Il testo di cui si compongono le 3e Obiezioni è piuttosto eterogeneo, ed oltre ad opporre il dogma dualistico cartesiano e il dogma monistico e materialistico di Hobbes (uno dei punti cruciali di tutto il dibattito che opporrà i due autori) e a concentrarsi sulla questione delle idee (e fra queste, in particolare, sull'idea di Dio), tratta molte altre questioni, poiché l'«Inglese» approfitta dell'occasione che gli si è presentata per enunciare alcune delle sue più famose teorie, ed anche quando queste non risultano pienamente pertinenti non rinuncia ad esporre le sue tesi sulla ragione come calcolo discorsivo, sull'imposizione dei nomi come convenzione arbitraria tra gli uomini, sulla negazione del libero arbitrio.

Passando ad analizzare più dettagliatamente questo loro confronto, possiamo notare come in seguito ad un iniziale assenso alla 1ª Meditazione, e alla critica della conoscenza sensibile ivi presentata, Hobbes non esiti a muovere contro Cartesio quella che potremmo definire come un'accusa di dogmatismo metafisico, criticando il passaggio, effettuato nella 2ª Meditazione, da «io sono una cosa pensante» a «io sono uno spirito, un'anima, un intelletto, una ragione» (passaggio peraltro al quale oppone, di fatto, un dogmatismo uguale e contrario).

Hobbes dichiara infatti che se dall'affermazione «io sono una cosa pensante» si fa derivare la conclusione «io sono un pensiero», lo stesso potrebbe valere allora anche per quest'altra deduzione: «io sono passeggiante, quindi sono una passeggiata».

È questo il punto sul quale Hobbes insiste, ed incalza Cartesio accusandolo di confondere la cosa e il suo atto, la cosa che pensa e il pensiero, e se questo errore è stato commesso, è chiara a questo punto, per Hobbes, la necessità di distinguere la cosa che pensa dalla mente.

Ciò posto, questa cosa che pensa potrebbe benissimo essere dunque per Hobbes qualcosa di corporeo, dato che costituisce il soggetto della mente: «(...) non possiamo pensare a nessun atto, senza riferirlo al suo soggetto, non possiamo pensare al pensiero senza una cosa che pensa, così come non possiamo pensare alla passeggiata senza una cosa che passeggi».

A sostegno di questa sua obiezione Hobbes utilizza l'esempio cartesiano della cera: così come questa assume diversi aspetti, ma rimane sempre res extensa, i soggetti degli atti sono intesi sotto una ragione corporea, ossia sotto una ragione materiale, poiché il pensiero non può essere separato da una materia che pensa.

Cartesio risponde a quest'accusa precisando la sua intenzione, quando ha detto di essere una mente, un intelletto o una ragione, di non intendere solo le proprie facoltà, ma piuttosto la cosa che ha queste facoltà, e ribadisce la sua convinzione che i termini abbiano due significati, mentre al contrario “passeggiata” indichi solo l’azione di passeggiare e non il soggetto che passeggia.

Si dice dunque convinto di non aver mai confuso il soggetto e i suoi atti.

Manifesta però a sua volta un certo disappunto nei confronti dell'obbiettore, poiché dichiara di essersi accorto chiaramente del fatto che mentre lui ha indicato il soggetto con termini semplici e astratti, l'altro si è servito di termini concreti e composti, come quelli di «soggetto», «materia» e «corpo».

Cartesio inoltre tiene a far osservare al suo interlocutore come non abbia escluso affatto fin dall’inizio che ciò che pensa possa essere qualcosa di corporeo, tant'è vero che ha scelto di lasciare questa questione da parte fino alla 6ª Meditazione.

Concede poi che sia giusto dire che gli atti vadano spiegati in relazione ad un soggetto, ma insiste che questo non voglia significare che il soggetto debba essere qualcosa di corporeo, poiché il soggetto va inteso come una sostanza, o come una materia in senso metafisico, ma non come un corpo.

Cartesio spiega quindi come, se si vuole spiegare la natura del soggetto, ci si debba riferire alla natura dei suoi atti, e come ci siano degli atti che diciamo corporei, che attribuiamo ad un corpo, ed atti invece di natura intellettuale, che attribuiamo giustamente ad una cosa che pensa, ossia ad una mente, ad uno spirito.

L'«Inglese» però insiste, sempre riferendosi alla 2ª Meditazione, e informa Cartesio di una sua impressione: non gli sembra infatti che sia stata adeguatamente spiegata la differenza tra immaginare ed intendere con l’intelletto.

Ad Hobbes pare inoltre probabile che il ragionamento non sia altro che un insieme di parole unite dal verbo essere, e se così fosse, osserva l'obbiettore, i nostri discorsi non direbbero nulla delle cose, perché si fermerebbero solo e soltanto alle parole con cui le indichiamo.

Dunque, seguendo questo ragionamento, il nostro ragionare non dipenderebbe da altro che dalle parole, le parole dalle immagini, le immagini dai movimenti del corpo.

A questa obiezione, Cartesio risponde precisando che una cosa è concepire con la mente, e un’altra è l’immaginare, che richiede una particolare tensione della mente per renderci presente una certa figura: pensare ad un pentagono e immaginarne la figura, comunque li si voglia chiamare, non sono due atti cognitivi eguali.

Inoltre, nel ragionamento noi non mettiamo insieme solo parole, ma piuttosto i significati che vengono indicati da quelle parole.

Prova di quest'affermazione potrebbe essere una conversazione tra un francese e un tedesco che adoperano sì parole diverse, ma possono intendersi sulle cose significate.

Hobbes passa poi alla 3ª Meditazione, osservando che quando si pensa a qualcosa ce la si rappresenta dotata di certi attributi, con un certo colore e una certa figura, e che quindi le nostre idee non siano che immagini delle cose, ed insiste che questo valga anche nel momento in cui ci si sofferma col pensiero su qualcosa di invisibile, come ad esempio gli angeli.

E la medesima cosa accade, osserva Hobbes, anche per quanto riguarda il venerabile nome di Dio.

Dio però, spiega Hobbes, non è concepibile attraverso un’immagine sensibile o un’idea, e precisamente per questa ragione la Scrittura ci vieta di farne una vuota icona.

Di Dio, come del resto dell'anima, gli uomini potranno perciò possedere una conoscenza puramente discorsiva, ottenuta tramite il ragionamento, che non potrà in alcun modo aggiungere nulla in termini di acquisizione di nuove idee a quanto già appreso, così di Dio si potrà dire, e sapere, soltanto che è una sostanza, ovvero che esiste.

Degli attributi della divinità legati alla nozione di infinito, invece, si potrà avere conoscenza puramente in termini negativi: l'infinità significherà quindi l'assenza di limiti in Dio, l'indipendenza significherà la sua non dipendenza da cause di nessun genere.

Secondo la precisa riflessione di Hobbes infatti gli uomini, pur non avendo alcuna idea di Dio, ne potrebbero dedurre l'esistenza concependolo come la causa eterna di ogni essere, e la loro condizione sarebbe simile a quella delle persone cieche fin dalla nascita, che sono in grado di avvertire il calore e quindi di dedurre da ciò la loro vicinanza ad una qualche fonte di calore, ma non possono comunque immaginarsela in alcun modo.

Tramite questa prudente analogia Hobbes si limita quindi all'interno delle 3e Obiezioni, poiché probabilmente le sapeva essere destinate alla stampa, a sostenere l'esistenza di Dio tramite una prova causale, quando invece in una missiva spedita a Mersenne nel novembre del 1640 aveva, piuttosto audacemente, sostenuto la materialità di Dio (tesi affermata obliquamente anche in tutte le sue opere, ma che Hobbes riterrà opportuno sostenere pubblicamente solo molti anni dopo).

A questo proposito Cartesio ribatte facendo notare come, dal suo punto di vista, sia facile muovere una simile obiezione, se si parte riducendo le idee a pure immagini di cose materiali, quando invece l’idea da lui intesa è sempre qualcosa che è concepito dalla mente, e non il frutto dell’immaginazione corporea.

In ultimo Hobbes si sofferma sul carattere innato dell’idea di Dio che, se così fosse, allora dovrebbe essere pensata anche da chi, pur senza avere alcun sogno, dorme profondamente.

Cartesio allora è costretto a precisare quale sia veramente il valore delle idee innate, e a ribadire come in realtà queste non siano sempre presenti alla nostra mente, ma come piuttosto siano gli uomini stessi ad essere capaci in qualche modo di produrle, facendole emergere dalle proprie menti.

È facile intuire come i molti temi che contrappongono Hobbes e Cartesio all'interno delle Obiezioni abbiano costretto la filosofia moderna a prendere una non facile decisione: per chi dei due propendere?

A posteriori possiamo sicuramente affermare che il ruolo di vittorioso campione di questo scontro spetti a Cartesio, poiché la scelta cartesiana di privilegiare l'io, il soggetto pensante, la res cogitans, per relegare invece la materia ad un ruolo epistemologicamente ed ontologicamente subordinato, influenzerà gran parte del pensiero successivo, nonostante sia abbastanza manifesta la difficoltà messa in luce da Hobbes, nell'affrontare la quale Cartesio non si trova pronto, di indagare e fondare la sostanzialità della mente.

Un merito che sicuramente possiamo attribuire alle Obiezioni e risposte è quello di aver animato il pensiero esposto all'interno delle Meditazioni, anche per quanto riguarda il limite sopracitato, costringendo Cartesio, anche attraverso repliche non sempre facili a formularsi, ad una sorta di rinnovamento che arriverà a coinvolgere la quasi contemporanea stesura, avvenuta tra l'inverno e la primavera del 1641, dei Principi di filosofia.















Aggiunto il 21/05/2017 17:10 da Davide Orlandi

Argomento: Filosofia moderna

Autore: Davide Orlandi



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