‘Meritocrazia’ è la richiesta che, nell’ordinamento della società, le posizioni più alte delle gerarchie che soprintendono ai diversi ambiti di cui è composta, devono essere assegnate ai suoi migliori elementi; in altre parole, se nella piramide sociale ciascuno deve avere il posto che gli compete, i migliori devono stare al vertice, ricevendo una corrispondente ricompensa sociale, in termini di rimunerazione e prestigio, per i servizi da loro forniti grazie alle loro capacità, la preparazione, le competenze: in breve, per il loro merito. Ciò risponde in primo luogo ad un principio di giustizia: chi eccelle deve ricevere un premio adeguato ai suoi meriti; in secondo luogo, ad un principio di utilità: le funzioni che comportano responsabilità rilevanti e le cariche direttive conviene che siano ricoperte da chi offre le migliori garanzie che saprà ben eseguire il compito che gli è stato assegnato. E’ ormai un luogo comune l’affermazione che nel nostro Paese c’è un difetto, o addirittura una mancanza, di meritocrazia, dunque di giustizia individuale e di utilità sociale.
La validità del principio meritocratico e le buone ragioni di chi ne chiede una piena attuazione non possono, pertanto, essere messe in discussione. Tuttavia è lecito fare alcune considerazioni, avendo lo sguardo rivolto in modo speciale al nostro Paese.
Il principio meritocratico è una proposizione prescrittiva, universale e astratta: in altre parole, richiede che la società sia strutturata in un certo ordine, ma non indica come realizzarlo, con quali mezzi, con quale estensione, entro quali limiti. La validità di un principio è ‘a priori’ in un ‘modello’ del reale, che si ottiene per astrazione considerando sempre presenti certe circostanze e sempre assenti altre: la sua universalità consiste nella soppressione di circostanze particolari. L’applicazione di un principio alla realtà per renderlo operativo, la sua ‘concretizzazione’, è un processo complesso, soprattutto se si tratta della realtà sociale, perché bisogna prendere in considerazione almeno alcune condizioni, si dà il caso talvolta di fatti rilevanti, che nel modello sono state trascurate. Ciò che funziona bene nel modello ‘ideale’, universale e astratto, può non funzionare altrettanto bene nella realtà concreta e particolare.
Naturalmente di questa difficoltà, che è ben nota nell’ambito scientifico, non bisogna fare un’impossibilità. Tuttavia è opportuno sottolinearla in un Paese dove spesso si parla di ‘svolta culturale’, di ‘riforma epocale’, come se l’adozione di provvedimenti ispirati da certi principi ritenuti, anche a ragione, validi, possa produrre immediatamente e infallibilmente gli effetti voluti. Tale determinismo ingenuo tralascia di considerare quanto lavoro sia necessario per tradurre la buona teoria in buona pratica. Ciò vale ovviamente anche nel nostro caso.
Non dobbiamo tacere che, al contrario, alcuni ritengono il principio meritocratico non solo tale da non fornire i risultati sperati, ma anche che la sua attuazione possa essere svantaggiosa. Un’applicazione di questo principio fin dai primi anni di scuola potrebbe originare una situazione di competizione generalizzata che nuocerebbe sia agli individui che alla coesione sociale, anche questa una condizione desiderabile. Inoltre, essendo il merito definito secondo certi criteri, per natura selettivi, ciò condurrebbe alla genesi di ‘èlite’ che tenderebbero ad autoriprodursi, marginalizzando e trascurando gli individui e i gruppi che fossero privi di certi requisiti, e tali sarebbero destinati a restare. Si avrebbe così un’esclusione di fatto e di principio.
Finora abbiamo parlato di meritocrazia dal punto di vista, per così dire, oggettivo, ossia del diritto di ciascuno a veder riconosciuto il proprio merito acquisito. Maliziosamente si potrebbe insinuare che questo è il modo di intendere il principio meritocratico, preferito e prevalente in Italia. Proviamo ora ad assumere una prospettiva complementare, che potremmo definire soggettiva, o del dovere. Soggettivamente meritocrazia è il dovere di ciascuno di conseguire i propri obiettivi esclusivamente in virtù dei propri meriti e, in generale, di impegnarsi a svolgere al meglio il proprio ufficio, ad eseguire correttamente il compito che gli è stato assegnato. In tal senso la ‘cultura del merito’, ossia dell’‘essere degno di’, può essere introdotta precocemente senza alcun danno. Un buon voto in un compito, la promozione annuale, il superamento di un esame, devono essere il risultato in primo luogo dell’impegno a meritarli, del lavoro che è necessario ad ottenerli. Diffondere questa ‘cultura’ è forse l’innovazione metodologica più urgente. Meritocrazia può essere intesa anche come il sollecitare ad una sfida con se stessi prima che con gli altri. Il principio meritocratico può non mirare solo a promuovere l’eccellenza in vista di un premio sociale adeguato, ma può servire anche alla valorizzazione della ‘normalità’ e alla crescita generale della società, spronando a rifiutare un livellamento verso il basso. Se è vero che la meritocrazia genera le ‘èlite’, può tuttavia produrre anche una comunità capace di controllarne l’operato, condizione necessaria per la democrazia.
Non sarà sfuggito a molti che questi argomenti sono oggetto di dibattito fin dall’antichità: basti pensare allo scontro fra due grandi avversari, Protagora e Platone.
Salvatore Daniele
Aggiunto il 11/05/2012 10:43 da Salvatore Daniele
Argomento: Filosofia delle idee
Autore: Salvatore Daniele
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