Il «Corriere della
sera» ripropone in antologia i paradossi di Severino sul nulla e gli equivoci
dell’essere che attribuiscono la distruzione della terra all’angoscia del
divenire (Emanuele Severino, Il dito e la luna. Riflessioni su filosofia, fede
e politica, a cura della redazione Cultura, Milano, Corriere della Sera,
2021). Se le cose provengono dal nulla e ritornano nel nulla, sostiene
Severino, allora gli uomini distruggono le cose che producono senza vedere nell’eternità
il rimedio alla follia del divenire che domina il mondo.
«A partire da Platone», sostiene Severino, tutti i filosofi occidentali condividono «il senso greco della cosa» (Il dito e la luna 38), nel senso di una cosa «che si mantiene in provvisorio equilibrio tra l’essere e il non-essere» (Il dito e la luna 35). Tutti gli uomini, dai grandi filosofi agli umili boscaioli, vedono il mondo con gli occhi di Platone che sarebbero poi gli occhi dei greci e dei moderni. Compresi Marx e Heidegger, con qualche ragione e qualche forzatura. Per Marx che «mostra di non avere alcun dubbio sul significato della parola “cosa”» (Il dito e la luna 36), nel senso che intende la cosa come una cosa utile (Il dito e la luna 34: «Una cosa è, per Marx, ciò che si lascia separare dal suo legame originario con la terra. Una cosa è cosa proprio perché è così separabile»), il lavoro sarebbe la causa «che fa passare una qualsiasi cosa dal non-essere all’essere» (Il dito e la luna 35), dove Severino traveste in termini pseudoparmenidei ciò che Marx esprime in termini pseudoaristotelici. Il Marx del Capitale considera infatti che gli oggetti passano dalla potenza all’atto, nel senso che il lavoro crea oggetti che prima non esistono senza per questo provenire dal nulla. Nel processo lavorativo «diventa [in] actu quel che prima era solo [in] potentia» (Il capitale 195), nel senso che le cose acquistano «la forma dell’essere» (Il dito e la luna 35 = Il capitale 199), una forma nuova e artificiale. A parte l’ovvia constatazione che il pesce in padella non è naturale come non è naturale il legno dei tavoli che in natura si trova solo sugli alberi né sono naturali i metalli che in natura sono presenti solo nei minerali, Marx insiste sulla trasformazione delle cose in oggetti per celebrare il progresso che gli uomini conseguono con il lavoro né sembra preoccupato per la sorte del pesce e dei minerali. Con le parole di Marx: «Così il pesce, che viene preso e separato dal suo elemento vitale, l’acqua, il legname che viene abbattuto nella foresta vergine, il minerale strappato dalla sua vena» (Il capitale 196-7), il lavoro trasforma le cose in oggetti: «Il lavoro si è oggettivato, e l’oggetto è lavorato. Quel che dal lato del lavoratore s’era presentato nella forma del moto, ora si presenta dal lato del prodotto come proprietà ferma, nella forma dell’essere. L’operaio ha filato, e il prodotto è un filato» (Il capitale 199). Alle formule dell’atto e della forma Marx aggiunge anche le parole di Aristotele sul passaggio dalla quiete al moto in un contesto pseudohegeliano che rafforza il gusto marxiano del ghirigoro con l’inversione espressiva tra oggettivato e lavorato o tra ha filato ed è filato. Ma lo allontana da Severino e dal sentimento pseudogreco del nulla, reale o immaginario che sia.
Con la coppia che
oppone il non-essere all’essere Severino colloca la questione del divenire nel
contesto più ampio della filosofia occidentale che risale alle aporie di Eraclito
e Parmenide sui confini della realtà materiale, ma evoca poi l’angoscia
del nulla
che diventa esemplare
nel medioevo cristiano. In Marx, che non dubita ovviamente sull’esistenza
delle cose, il passaggio non riguarda l’origine o la fine delle cose naturali,
ma si riferisce alla trasformazione delle cose naturali in oggetti artificiali,
e certo non teme la fine del mondo perché auspica il superamento del capitalismo.
Certo il Marx del Capitale è un teorico della società industriale e si
presta poco o male per offrire un conforto ideologico alla
crisi dell’ambiente naturale provocata dal capitalismo. Del resto il
tentativo di ricorrere al Marx giovane per offrire una
visione più rassicurante del futuro non ha avuto molto successo nonostante l’entusiasmo
provocato negli anni Sessanta. Ma sarebbe ugualmente avventato rimproverare a Marx l’ignoranza della storia. Secondo
Severino il senso della storia sfugge sia al capitalismo (Il dito e la luna
36 «il capitalismo crede che i rapporti di produzione capitalistici siano “naturali”
e non il risultato di un accadimento storico») sia a Marx per cui il lavoro
sarebbe una «condizione naturale eterna della vita umana» e dunque «indipendente
da ogni sovrastruttura ideologica (Il dito e la luna 35 e 36 = Il capitale
202). Il Marx di Severino non sospetta neppure che il senso del lavoro «possa
essere apparso solo a un certo punto dell’accadere del mondo» (Il dito e la
luna 36), sebbene il rapporto tra la struttura e la sovrastruttura sia meno
meccanico di quanto pretende Severino che a suo sostegno cita incautamente un
passo famoso dell’Ideologia tedesca: «Non è la coscienza che determina
la vita, ma è la vita che determina la coscienza» (Il
dito e la luna 32 = L’ideologia tedesca 13), dove Marx in
polemica con l’idealismo tedesco e la metafisica cristiana vuole liberare gli uomini
«dalle chimere, dalle idee, dai dogmi, dagli esseri prodotti dall’immaginazione»
(L’ideologia tedesca 3). Non sappiamo se Marx voglia liberare gli uomini
anche dal lavoro e dalle cose, ma nel suo contesto L’ideologia tedesca afferma
uno storicismo radicale che rifiuta i valori eterni e forse
non ammette eccezioni, neppure il lavoro.
Se Marx condivide il senso greco della cosa, il senso della cosa come cosa utile che Severino attribuisce ai greci, Heidegger rifiuta quel senso della cosa per sostenere invece che l’essenza della cosa, l’esser-cosa della cosa, sta nella sua sussistenza naturale che precede ogni forma di utilizzazione. Secondo l’Aristotele di Heidegger «l’essere è ciò che è da sé più manifesto (das von-sich-her-Seiende)» (Il principio di ragione 122), una cosa naturale, una cosa che esiste per natura in radicale opposizione con gli oggetti artificiali. Sorprende dunque la collocazione di Heidegger tra le vittime di Platone nonostante la giusta interpretazione fenomenologica dell’essere di Heidegger che significa apparire (La filosofia futura 316 «L’ “essere” non è un ente: di esso non possiamo dire che “è”, ma che “si dà”, ossia è “apparire”, l’apparire degli essenti»). «A partire da Platone»? semmai «A partire da Leibniz» (Il principio di ragione 23), come afferma Heidegger, si consolida in Occidente il principio di causalità o ragione che provoca con la diffusione della scienza e della tecnica il trionfo della macchinazione, la riduzione degli uomini nella schiavitù delle macchine. La differenza ermeneutica apparentemente secondaria apre una differenza ideologica che costituisce in Heidegger il filosofo della tecnica e separa in Severino il filosofo della morte, sebbene entrambi avvertano i disastri provocati dalla diffusione della tecnica e paventino perfino la catastrofe nucleare o la fine del mondo. Da una parte Heidegger attribuisce la devastazione della tecnica alla scienza moderna, e in questo senso vede nella tecnica la causa del divenire, cioè della trasformazione delle cose in oggetti, dall’altra Severino attribuisce la causa della devastazione all’ideologia greca del nulla e dunque vede la causa della tecnica nel divenire cioè nell’angoscia della morte. In Heidegger la tecnica costituisce il problema principale perché conduce al nulla e non offre alcuna redenzione, tanto da non prevedere alcun futuro per la sorte degli uomini che per salvarsi dalla tecnica dovrebbero liberarsi dello stesso principio di causa. Viceversa in Severino il nulla conduce alla tecnica e dunque vuole liberare gli uomini dall’angoscia del dolore e della morte provocata dal divenire delle cose. Il rifiuto della tecnica sembra più radicale in Heidegger, ma la dolente riflessione sulla morte colloca Severino nel contesto di una secolare meditazione che rielabora i motivi della religione e della poesia. Nei Poemi conviviali il vecchio Odisseo di Giovanni Pascoli riprende il mare, «il mare azzurro… l’inquieto mare, mare infinito, fragoroso mare», ma non riconosce più il mare delle sue avventure e dei suoi amori. Sulle soglie della morte scopre che forse la vita è stata un’illusione, un viaggio dal nulla al nulla. L’illusione del divenire, come forse avrebbe detto Parmenide, è ancora più drammatica se manca pure la consolazione dell’essere, se anche l’essere non è più nulla. E dunque se la vita è un’illusione non conviene neppure nascere, conclude Pascoli: «Non esser mai! non esser mai! più nulla, / ma meno morte, che non esser più!» (L’ultimo viaggio XXIV 52-3). Non esser mai, cioè non nascere, è meno morte che non esser più, cioè morire, come grida disperata Calipso che accoglie il cadavere di Odisseo «nella nube dei suoi capelli».
Senza raccontare le peripezie dell’essere nel corso della storia dalla rimozione di Eraclito al ritorno di Parmenide, in antico l’oscillazione dell’essere con il non-essere si colloca tra la fisica e la metafisica, ma alla fine approda nella psicologia esistenzialista di Severino che attribuisce alle cose la sorte degli uomini e stabilisce una correlazione necessaria tra la produzione e la distruzione provocata dall’angoscia sebbene la distruzione dipenda piuttosto dalla volontà di potenza e dal delirio di onnipotenza. Secondo Severino il senso greco delle cose sarebbe il senso del divenire per cui le cose nascono e muoiono, nel senso che provengono e ritornano nel nulla. In questo senso però Severino attribuisce alle cose quel destino che invece riguarda gli uomini e per questo confonde la morte che riguarda gli uomini con il nulla che riguarda le cose. Non sembra infatti che «l’angoscia provocata dal divenire del mondo» (La filosofia futura 12), del mondo delle cose, sia la stessa angoscia della morte negli uomini, se non per metafora. Del resto nel mondo della filosofia greca la fine delle cose non provoca l’angoscia del mito e della poesia, se trova nell’atomismo un rimedio al divenire delle cose e dunque utilizza la coppia che oppone il non-essere all’essere per esprimere le mutazioni nella composizione materiale delle cose senza per questo implicare qualche dramma esistenziale. Con l’invenzione del nulla che appartiene piuttosto alla mitologia ebraica e cristiana l’opposizione del non-essere all’essere acquista un significato metafisico differente dal materialismo greco dove appare più efficace e meno inquietante l’opposizione tra la potenza e l’atto o tra l’ideale e il reale o tra il progetto e l’esecuzione o in generale tra la teoria e la pratica.
Dopo aver attribuito alle cose la coscienza della morte Severino attribuisce al nulla la distruzione delle cose, ma il passaggio dalla constatazione del divenire naturale alla riproduzione del divenire artificiale e poi dalla riproduzione alla distruzione rimane oscuro. Poiché gli uomini muoiono, gli uomini attribuiscono la morte anche alle cose e poiché sono angosciati dalla morte distruggono le cose. Anche in questo caso la metafora prevale sulla realtà come se gli uomini volessero vendicarsi della morte distruggendo le cose: «Ed è proprio perché la “cosa” è pensata come equilibrio provvisorio tra l’essere e il niente, che il proposito di dominarla, producendola e distruggendola, acquista una radicalità mai prima posseduta» (Il dito e la luna 36). Eppure l’equazione tra la produzione e la distruzione non è ovvia come può sembrare. Negli antichi il senso della morte è spesso rafforzato proprio dalla sopravvivenza delle cose. Come scrive Federico Meninni nel 1669 il poeta invecchia e vede la sua morte, ma immagina anche che le sue cose sopravviveranno alla sua morte, nel futuro ci saranno ancora la sua casa i suoi libri e il suo letto: «In questo letto, ove fra l’ombre assonno / perché rechi a’ miei sensi alcun ristoro, / altri ancor chiuderà le luci al sonno» (Fugacità dell’uomo e persistenza delle cose vv. 9-11). Infatti la natura non soffre né muore come invece capita agli uomini.
Poiché le cose non muoiono e sono invece gli uomini a morire, l’angoscia la sofferenza e la morte appartengono piuttosto all’uomo che alle cose senza alcun rimedio se non l’illusione dell’eterno, tanto più di fronte al fallimento della tecnica nata invano per garantire la felicità degli uomini. Poiché la tecnica non può impedire la morte, dunque non può ostacolare neppure la distruzione della terra.
Bibliografia
Martin Heidegger, Il principio di ragione (1957), a cura di Franco Volpi, traduzione di Giovanni Gurisatti e Franco Volpi, Milano, Adelphi, 1991
Karl Marx e Friedrich Engels, L’ideologia tedesca. Critica della più recente filosofia tedesca nei suoi rappresentanti Feuerbach, B. Bauer e Stirner, e del socialismo tedesco nei suoi vari profeti (1845-6, 1932), Roma, Editori riuniti, 1967
Giovanni Pascoli, Poemi conviviali (1904), a cura di Giuseppe Leonelli, Milano, Mondadori, 1980
Emanuele Severino, La filosofia futura (1989), Nuova edizione riveduta, Milano, Rizzoli, 2006
Aggiunto il 01/12/2021 17:38 da Bruno Telleschi
Argomento: Filosofia contemporanea
Autore: Bruno Telleschi
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