Hans Jonas e l’onnipotenza di Dio
di Michele Strazza
L’Olocausto, con l’uccisione di milioni di ebrei, pone una serie di interrogativi sulla presenza di Dio in tale drammatico evento. I credenti, ma anche molti teologi e filosofi, si sono a lungo interrogati su tale importante quesito: se Dio esiste, come ha potuto permettere tutto questo?
Una risposta originale ed affascinante è stata fornita dal filosofo tedesco ebreo Hans Jonas (1903-1993), esposta per la prima volta nel 1984 in una conferenza presso l’Università di Tubinga sul Concetto di Dio dopo Auschwitz. Peraltro Jonas aveva perso la madre proprio nel campo di sterminio nazista [1].
Dopo aver seguito i corsi di filosofia e teologia di Husserl, Heidegger e Bultmann, per sfuggire al nazismo si era rifugiato in Inghilterra e nel 1935 era emigrato in Palestina. Alla fine della guerra, cui aveva partecipato nella Brigata Ebraica dell’esercito inglese, aveva visto la nascita dello Stato di Israele. La sua carriera universitaria era iniziata alla Hebrew University di Gerusalemme ed era proseguita a New York dove si era stabilito in maniera definitiva.
Il centro della riflessione di Jonas, contenuto nel libro Il concetto di Dio dopo Auschwitz del 1987, è costituito dalla seguente domanda: Quale Dio ha potuto permettere ciò che accadde ad Auschwitz? [2].
Dopo aver reinterpretato la vicenda biblica della creazione, ricorrendo al “mito”, egli si sofferma sulla figura di un “Dio sofferente” il quale è “in divenire” con il mondo e con l’uomo del quale “ha cura”, per poi concludere con l’abbandono della categoria dell’onnipotenza attribuita a Dio, unico modo per spiegare l’esistenza del male ed eventi come l’Olocausto.
Dopo Auschwitz si può ancora parlare di Dio come “onnipotente, buono e comprensibile”? Osserva, a tale proposito, Hans Küng:
No, proprio questa antichissima e convenzionale rappresentazione di Dio, con i suoi predicati e nomenclature tradizionali, è per Jonas diventata impensabile dopo Auschwitz. Ora, dopo Auschwitz è divenuto definitivamente evidente che non si possono conciliare onnipotenza, bontà e comprensibilità di Dio [3].
Per Jonas, dunque, O Dio è onnipotente e assolutamente buono, ma allora non si comprende perché non abbia impedito l’Olocausto. Oppure “Dio è onnipotente e comprensibile, e allora Auschwitz è la confutazione della sua bontà”. Oppure Dio è buono e comprensibile ed allora l’Olocausto dimostra la sua mancanza di onnipotenza. In definitiva, secondo Jonas, Auschwitz avrebbe dimostrato che onnipotenza, bontà assoluta e comprensibilità non possono convivere insieme in Dio[4].
Dopo Auschwitz, dunque,
possiamo affermare con la maggiore fermezza di sempre che una Divinità onnipotente o non è assolutamente buona oppure è totalmente incomprensibile (nel suo governo del mondo, nel quale soltanto possiamo coglierla). Ma se Dio, in un certo modo e in un certo grado, deve essere comprensibile (e dobbiamo tener fede a questo punto) allora il suo essere buono deve essere conciliabile con l’esistenza del male, e ciò è possibile solo se egli non è onnipotente. Solo allora possiamo ammettere che egli sia comprensibile e buono e che tuttavia nel mondo ci sia il male. E poiché abbiamo ritenuto che comunque il concetto dell’onnipotenza sia dubitabile in se stesso, è questo attributo che deve decadere[5].
Per Jonas “potenza” e “onnipotenza” sono due concetti diversi. Solo il primo è attribuibile a Dio mentre il secondo non gli apparterrebbe. Di qui la spiegazione del male che esiste “solo in quanto Dio non è onnipotente”, pur essendo buono e comprensibile[6].
All’origine di questa mancanza di onnipotenza ci sarebbe, sempre secondo Jonas, una autolimitazione di Dio stesso il quale si sarebbe privato di parte della sua potenza per dare all’uomo il libero arbitrio, la libertà di scelta tra il bene e il male.
Ma Dio non si sarebbe soltanto limitato, bensì anche trasformato in un “Dio sofferente”. Jonas è perfettamente cosciente che tale raffigurazione contraddice la rappresentazione biblica della maestà divina ma insiste nel ritenere che il rapporto di Dio con il mondo “a partire dall’istante della creazione, e sicuramente dalla creazione dell’uomo”, implichi una sofferenza da parte di Dio. Del resto – continua – questa contraddizione con la rappresentazione biblica non è assoluta:
Non constatiamo come anche nella Bibbia ebraica Dio si veda disprezzato e non corrisposto dall’uomo e come soffra per lui? Non lo vediamo pentirsi perfino di aver creato l’uomo e soffrire per il frequente dispiacere legato alla delusione di cui ha esperienza con lui, in particolare con il suo popolo eletto?[7].
E questo Dio sofferente, inoltre, è pure un Dio “in divenire”, “un Dio che sorge nel tempo, anziché possedere un essere compiuto, che rimane identico a se stesso attraverso l’eternità”. Certo, anche qui, Jonas è consapevole che tale concetto si scontra con la tradizione teologica classica secondo cui extratemporalità, impassibilità e immutabilità sono ritenuti attributi necessari di Dio, ma tale tradizione, di derivazione ellenistica, non è affatto adeguata allo spirito e al linguaggio della Bibbia dove, invece, il concetto di un divenire divino potrebbe trovare accoglimento:
Perché, cosa significa il Dio in divenire? Anche se non andiamo tanto lontano, come propone il nostro mito, dobbiamo riconoscere a Dio un “divenire” quantomeno per il semplice fatto che egli è affetto da ciò che accade nel mondo, e “affetto” significa alterato, modificato nella sua condizione. Anche se prescindiamo dal fatto che già la creazione in quanto tale, quale atto e esistenza del suo risultato, mostra in definitiva una decisiva modificazione nella condizione di Dio, nella misura in cui egli ora non è più solo, allora il suo continuo rapporto con il creato, laddove esso ora soltanto esiste e si muove all’interno del flusso del divenire, significa proprio che Dio con il mondo fa esperienza di qualcosa, che dunque il suo proprio essere è influenzato da ciò che accade in esso. […] Quindi, se Dio si trova in una qualche relazione con il mondo […] allora attraverso ciò soltanto l’eterno si è “temporalizzato” e diventerà continuamente diverso attraverso la realizzazione del processo del mondo stesso[8].
Ulteriore conseguenza del ragionamento di Jonas è quella di un Dio “che ha cuore”, cioè di un Dio “che non è lontano, separato e chiuso in sé, ma che è coinvolto in ciò che ha a cuore:
Qualunque sia la condizione “primordiale” della divinità, essa ha smesso di essere chiusa in sé nell’istante in cui è entrata nell’esistenza del mondo, nel momento in cui lo ha creato o ne ha permesso la nascita. Il fatto che Dio si prenda cura delle sue creature appartiene ai principi più familiari al credo giudaico. Ma il nostro mito sottolinea l’aspetto meno familiare secondo cui questo Dio che-ha-a-cuore non è un mago, che nell’atto di avere-a-cuore realizza al contempo il fine della sua preoccupazione: egli ha lasciato qualcosa da fare ad altri attori e ha reso così la sua preoccupazione dipendente da essi[9].
Per tale motivo questo Dio è anche “un Dio in pericolo”, “un Dio a proprio rischio”. E che le cose stiano così è dimostrato dal fatto che, altrimenti, il mondo sarebbe in uno stato di permanente perfezione:
Il fatto che esso non vi si trovi può significare solo una delle due cose o che non esiste un Dio unico (ma forse più di uno) o che l’unico Dio ha affidato a qualcos’altro rispetto a se stesso, qualcosa che lui ha creato, uno spazio d’azione e una codeterminazione, rispetto a ciò che è e gli sta a cuore. Per questo ho detto che il Dio che-ha-a-cuore non è un mago. In qualche modo egli, attraverso un atto di imperscrutabile saggezza o d’amore, o qualsiasi sia stata la motivazione divina, ha rinunciato a garantire con il suo stesso potere la realizzazione di se stesso, dopo aver già rinunciato, attraverso la creazione stessa, ad essere tutto in tutto[10].
La conclusione di quanto detto non può non portare Hans Jonas all’affermazione che un tale Dio non può essere un Dio onnipotente. Difatti – egli continua – l’onnipotenza divina può coesistere con la bontà divina solo a prezzo della totale incomprensibilità di Dio, cioè della sua enigmaticità. Di fronte all’esistenza del male morale o anche soltanto del male fisico nel mondo – argomenta il filosofo tedesco – dovremmo sacrificare la comprensibilità di Dio alla coesistenza di quei due attributi: solo di un Dio del tutto incomprensibile si può dire che egli sia contemporaneamente assolutamente buono e assolutamente onnipotente e che tuttavia sopporti il mondo così com’è[11].
Di qui la spiegazione del silenzio di Dio nell’orrore dell’Olocausto: “Egli non è intervenuto non perché non volesse, ma perché non poteva”. E non poteva perché, “nel mero ammettere la libertà umana ha luogo una rinuncia della potenza divina”. La stessa creazione “è stato l’atto della sovranità assoluta, con cui essa, per amore dell’esistenza della finitezza autodeterminante, acconsentì a non essere più assoluta”[12].
In altre parole, “il tutto, secondo la sua potenza, ha alienato l’infinito nel finito consegnandosi così ad esso”. Che cosa rimane allora ad un rapporto con Dio, si chiede alla fine Jonas. La risposta, per quanto lontanissima da ogni teologia ufficiale, ebrea o cristiana, è ancora più affascinante di quanto già esposto: Rinunciando alla propria invulnerabilità il principio eterno ha permesso al mondo di essere. A questa autonegazione ogni creatura deve la propria esistenza e ha ricevuto ciò che vi è da ricevere dall’Aldilà. Dopo essersi dato completamente nel mondo in divenire, Dio non ha più niente da dare: ora sta all’uomo dargli qualcosa. E lo può fare nelle vie della sua vita facendo attenzione acciocché non accada o non accada troppo spesso, e non a causa sua, che Dio debba pentirsi di aver fatto divenire il mondo[13].
Tale conclusione, insieme al richiamo ai “trentasei saggi” che, secondo la dottrina ebraica del mondo, non dovrebbero mai mancare, ci riporta all’importanza della libertà umana. Il filosofo ebreo sembra quasi affermare che è non è più Dio a redimere l’uomo ma il contrario. Dopo Auschwitz sono gli uomini giusti a doverne spiegare il significato e, in base alla forza della superiorità del bene sul male, operare per compensare una colpa infinita, parificando il conto di una generazione e salvando la pace del regno invisibile[14].
Ma anche quest’ultima suggestione offertaci dal filosofo sembra essere, come lui stesso ci dice, un semplice “balbettio” di fronte al mistero eterno, per cui la riflessione si chiude con la citazione dei versi di Goethe “E ciò che si balbetta a lode dell’altissimo/ è lassù riunito in cerchi su cerchi”[15].
[1] Sul pensiero di Hans Jonas si vedano: Culianu I.P., Gnosticismo e pensiero moderno: Hans Jonas, Roma, L’Erma di Bretschneider, 1985; Monaldi M., Tecnica, vita, responsabilità. Qualche riflessione su Hans Jonas, Napoli, Guida, 2000; Furiosi M.L., Uomo e Natura nel pensiero di Hans Jonas, Milano, Vita e Pensiero, 2003; Bonaldi C. (a cura di), Hans Jonas, il filosofo e la responsabilità, Milano, AlboVersorio, 2004; Borgia F., L’uomo senza immagine. La filosofia della natura di Hans Jonas, Milano-Udine, Mimesis, 2006; Michelis A., Libertà e responsabilità. La filosofia di Hans Jonas, Roma, Città Nuova, 2007; Nepi P., La responsabilità ontologica. L’uomo e il mondo nell’etica di Hans Jonas, Roma, Aracne, 2008; Franzini Tibaldeo R., La rivoluzione ontologica di Hans Jonas. Uno studio sulla genesi e il significato di “Organismo e libertà”, Milano-Udine, Mimesis, 2009.
[2] Jonas H., Il concetto di Dio dopo Auschwitz. Una voce ebraica, Genova, Il Melangolo, 1987.
[3] Küng H., Ebraismo, Milano, BUR, 2013, p. 653.
[4] Ibidem.
[5] Jonas H., Ricerche filosofiche e ipotesi metafisiche, a cura di Campo A., Milano-Udine, Mimesis, 2011, p. 206. Per il pensiero di Jonas sull’onnipotenza di Dio cfr. anche Fossa F., Il concetto di Dio dopo Auschwitz. Hans Jonas e la gnosi, Pisa ETS, 2014.
[6] Si veda pure Torre D., Recensione a Hans Jonas, Il concetto di Dio dopo Auschwitz, in “Dialegesthai” A. 7 (2005).
[7] Jonas H., Ricerche filosofiche e ipotesi metafisiche, cit., p. 200.
[8] Ivi, pp. 200-201.
[9] Ivi, p. 202.
[10] Ibidem.
[11] Ivi, p. 203.
[12] Ivi, pp. 205-206.
[13] Ivi, p. 207. Jonas H., Il concetto di Dio dopo Auschwitz, cit., p. 38.
[14] Jonas H., Ricerche filosofiche e ipotesi metafisiche, cit., p. 207.
[15] Jonas H., Il concetto di Dio dopo Auschwitz, cit., p. 39.
Aggiunto il 16/11/2016 08:17 da Michele Strazza
Argomento: Filosofia delle religioni
Autore: Michele Strazza
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