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Cittadini del mondo, cittadini della propria terra

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Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti. Ma non è facile starci tranquillo. (Cesare Pavese, La luna e i falò, 1950)


Che l’insistenza sull’identità, sulla comunità solidale, sulla ritrovata armonia tra etica e politica non coincida affatto con un’oppressiva chiusura rispetto all’altro da sé dovrebbe essere chiaro a tutti senza bisogno di particolari spiegazioni. L’esigenza di aprirsi, di mettersi in relazione e in discussione, di avere l’opportunità di muoversi perché in una comunità “non è facile starci tranquillo” trova una sua espressione ottimale nella creazione allo stesso tempo spontanea - perché non obbligatoria - e consapevole - perché ispirata dai valori che si sono scelti - di una rete organica e leggera di comunità, la quale non minacci la solidità delle identità ma al contrario rafforzi, rendendole aperte e dinamiche, tutte le comunità repubblicane autodeterminate che all’estensione di tale rete vorranno partecipare. In questo modo, non sarà più il singolo individuo, come accade adesso - e non importa se a farlo siamo in milioni, perché lo facciamo ciascuno da solo - a caricarsi sulle proprie spalle il peso dell’apertura a mondi altri e imprevedibili, dell’avventura umana, del mettersi in discussione, dell’arricchirsi di nuove prospettive culturali, del non restare avvinghiato alla propria sicurezza e alle proprie certezze. Che a farlo siano solo soggetti individuali non può che portare alla degenerazione dell’apertura mentale in relativismo soggettivista; affinché gli impulsi naturali che spingono alla curiosità e al dialogo non diano questo risultato, è necessario che tutta la comunità si metta nella sua interezza, come organismo dotato di identità perché dotato di una propria forma (il suo ordinamento, la sua costituzione) e di una propria sostanza (le individualità uniche e irriducibili e le libere associazioni fra le individualità stesse, che lo generano e rigenerano attraverso la partecipazione politica libera e solidale), è fondamentale, dicevo, che una comunità repubblicana così concepita si metta in rete - a condizione che la rete non coincida con la retorica.

La retorica della rete sta nel quotidiano vaniloquio sul potere della “community” di internet, ossia su una somma di individui o gruppetti atomizzati che annaspano impotenti tra una mission e l’altra, alla mercé delle colossali e onnipotenti aziende della Silicon Valley; sta anche nella creazione di organismi sovranazionali in cui gli stati membri sono sì tutti uguali, ma in cui alcuni di essi sono più uguali degli altri, oppure in cui i superstati obbediscono, di fatto, a entità sovraordinate e non politiche.

Questo è, dunque, il senso in cui dobbiamo intendere le ben calibrate parole di Theresa May che tanto hanno indignato i nuovi benpensanti:

Today, too many people in positions of power behave as though they have more in common with international elites than with the people down the road, the people they employ, the people they pass on the street. But if you believe you are a citizen of the world, you are a citizen of nowhere. You don't understand what citizenship means. (Estratto dal discorso tenuto il 5 ottobre 2016 alla Conservative Conference at the ICC Birmingham)

 

Gli autentici cittadini “del mondo” non sono i retori universalisti della sparizione sia dei confini comunitari che dell’idea stessa di “straniero”, bensì sono concretamente attivi come cittadini “del mondo” e allo stesso tempo si dimostrano febbrili e fedeli amanti della propria “città”, come insegnano - in positivo - molte limpide storie, quali ad esempio quelle di Garibaldi, di Mazzini e, per uscire dall’Italia, di T. G. Masaryk e come insegnano - in negativo - alcune ambigue storie, quali quelle di George Soros e dell’Abbé Pierre: quanto più si vuole pensare e agire in grande, tanto più fermamente ed equilibratamente bisogna avere i piedi piantati per terra; quanto più si vuole spargere l’ossigeno della propria libertà nel mondo intero, tanto più profondamente devono essere piantate le radici nella propria terra. Questo principio vale certamente per gli individui ma, con altrettanta certezza, vale anche per le comunità nella loro interezza. L’eroe repubblicano Giuseppe Mazzini impiegò a questo proposito l’immagine della leva, la quale

 

per risultare efficace, ha bisogno di due punti: uno su cui appoggiarsi (cioè il fulcro) e uno su cui esercitare la “potenza”. Proprio in questa singolare immagine sta racchiusa la chiave che consente di cogliere, in tutta la sua portata, lo scarto tra la dottrina mazziniana e il generico cosmopolitismo, perché mentre per Mazzini “il primo punto è la Patria e il secondo è l’Umanità”, per i cosmopoliti, invece, “il fine può essere l’Umanità, ma il punto d’appoggio [rimane] l’uomo-individuo”. Che si tratti di una differenza davvero “vitale” (come lo stesso Mazzini la definisce) lo dimostrano, a suo avviso, le conseguenze cui può condurre una simile impostazione individualista. Si tratta di esiti facilmente percepibili, non appena ci si sforzi di immaginare il cosmopolita “solo, in mezzo all’immenso cerchio che si stende dinnanzi a lui e i cui confini gli sfuggono, senz’arme se non la coscienza de’ suoi diritti fraintesi e le sue facoltà individuali, potenti forse, pur nondimeno incapaci di spander la loro vita in tutta quanta la sfera d’applicazione ch’è il fine”: ossia il fine grandioso da lui perseguito. [....] La consapevolezza di non poter giungere a “emancipare il mondo” esclusivamente con le proprie forze, avrà come sbocco l’inerzia, la rassegnazione, l’adesione all’”assioma dell’egoista: ubi bene, ibi patria” e la pur generosa carica umanitaria finirà per esaurirsi in quella “pratica della carità”, che Mazzini non esita a bollare come la “virtù d’un’Epoca oggimai consunta [...]”, perché basata su un inaccettabile rapporto paternalistico e verticale, anziché sull’auspicata “collaborazione” tra eguali.

 

Nel caso in cui, invece, il cosmopolita abbia comunque

 

l’irrazionale pretesa di poter raggiungere, comunque e a ogni costo, l’ambizioso traguardo

 

essa non potrà che condurlo

 

a tentare di “supplire con la forza artificiale, usurpata, alla forza reale e legittima che gli manca”. (Giovanna Angelini, Mazzini: dalla libertà delle nazioni alla pace fra i popoli, 2012)

 




Aggiunto il 23/04/2020 21:55 da Alberto Cassone

Argomento: Filosofia politica

Autore: Alberto Cassone



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