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Aristotele. Etica Nicomachea IV

ARISTOTELE


ETICA NICOMACHEA


IV.



di Davide Orlandi





Il terzo libro inizia chiarendo quali azioni siano volontarie e quali no, problema rilevante in relazione al vizio e alla virtù poiché solo le azioni compiute volontariamente sono valutabili dal punto di vista morale. Aristotele non parla quasi mai di volontà in astratto, ma di azioni volontarie e azioni involontarie. Gli atti involontari sono quelli compiuti per forza, perché fisicamente costretti, e quelli compiuti a causa dell’ignoranza. Vi sono anche una serie di casi discutibili, che potremmo definire misti, che Aristotele riconduce sostanzialmente agli atti volontari: sebbene le circostanze siano particolarmente significative si tratta sempre di atti il cui principio è interno a colui che li compie. L’atto forzato è invece un atto il cui principio non risiede in colui che lo compie, senza alcun concorso di chi viene forzato. Per quanto riguarda l’ignoranza Aristotele distingue due casi: se si ignora il particolare (una circostanza specifica) l’atto è da considerarsi involontario (e per esso non si viene biasimati); se invece si ignora l’universale allora si viene biasimati e si è colpevoli, perché si tratta di un’ignoranza che avremmo dovuto evitare. Per un atto involontario proviamo sempre dispiacere, non così per un atto che compiamo ignorando: Aristotele parla allora di non-volontarietà (è significativo che provando rimorso per un’azione non-volontaria essa “diventi” un’azione involontaria).

Connessa alla virtù è anche la scelta (προαίρεσις): essa è affine alla volontà, ma non è altrettanto ampia (per esempio si vuole l’impossibile, che non può essere scelto). La scelta riguarda sempre i mezzi con cui possiamo raggiungere il fine (che è invece oggetto della volontà): c’è scelta solo delle cose che in qualche modo dipendono da noi. La scelta è sempre preceduta dalla deliberazione, o valutazione (βούλευσις da pronunciarsi bùleusis), che è un soppesare le ragioni a favore e contrarie al compiere una determinata azione: Aristotele dice quindi che ogni deliberazione è una ricerca. Anche la deliberazione riguarda i mezzi (non i fini) e vi è deliberazione soprattutto di ciò che è indeterminato (non si delibera sul moto degli astri). In tutto il processo decisionale l’attività razionale è quindi centrale.

A questo punto Aristotele si pone una domanda interessante: il fine della volontà è il bene o ciò che appare bene? Aristotele inizia mostrando che entrambe le risposte, se prese in senso assoluto, portano a conclusioni contraddittorie e conclude quindi superando le unilateralità: «in senso assoluto e secondo verità oggetto di volontà è il bene, ma per ciascuno in particolare è ciò che appare tale». [1113a 24-25] L’analisi aristotelica prosegue sottolineando che all’uomo di valore ciò che appare bene è effettivamente il bene, mentre per il miserabile non è così: similmente il corpo sano ha una esatta percezione dell’amaro, del caldo, del dolce, mentre il corpo malato no (sia la metafora, sia il suo messaggio sembrano avvicinare qui Aristotele a Protagora).

Tanto la virtù quanto il vizio sono volontari: la preoccupazione di Aristotele sembra da questo punto di vista di chiarire che ogni uomo è responsabile sia dei propri vizi sia delle proprie virtù e che non è possibile essere responsabili solo delle virtù (e venire per questo lodati) e non dei propri vizi (che sarebbero involontari e quindi non porterebbero biasimo). Vizio e virtù hanno per oggetto i mezzi con cui cerchiamo di raggiungere i fini e sono quindi entrambi volontari. In questo senso è da sottolineare che la malvagità è volontaria (e non deriva da semplice ignoranza).

Aristotele passa poi a una descrizione molto dettagliata delle diverse virtù etiche, che si concluderà solo alla fine del libro V. Le prime virtù di cui si parla sono il coraggio e la temperanza, che avevano avuto un ruolo fondamentale anche nella riflessione platonica. Per quel che riguarda il coraggio è interessante vedere come Aristotele non intenda questa virtù come esclusivo appannaggio dei soldati e che inoltre lui esplicitamente dica che non sempre i soldati più coraggiosi sono quelli che meglio si comportano in battaglia: soldati meno coraggiosi ma che non hanno nulla da perdere e barattano la loro vita in cambio di piccoli guadagni possono a volte essere migliori degli altri (c’è qui una critica a Platone che aveva escluso che lo stato ideale si possa avvalere di mercenari). La temperanza è invece una virtù legata al piacere dei sensi: anche in questo si può godere in modo adeguato o meno. Di chi gode dei piaceri dei sensi più nobili (vista e udito in particolare) non si dice mai che è intemperante; invece per ciò che riguarda il tatto e il gusto si può essere intemperanti e goderne smodatamente (se ne evince una gerarchia dei sensi, più o meno nobili, che si trova avvalorata anche dal confronto con la prima pagina della Metafisica, dove l’udito e la vista sono considerati i sensi più alti, legati alle attività intellettive).

Nel libro quarto Aristotele affronta altre virtù etiche distinte in base al loro oggetto specifico: il denaro, l’onore, i rapporti con le altre persone. Sempre viene rispettata la struttura degli estremi viziosi e del giusto mezzo virtuoso, anche nel caso in cui queste medietà non abbiano un nome specifico (come nel caso dell’ambizione e della mancanza di ambizione). È significativo il fatto che molte virtù riguardino il rapporto tra gli uomini (affabilità, bonarietà, garbo): questo dimostra non solo l’importanza che Aristotele riconosceva ai rapporti umani, ma anche il fatto che le virtù etiche siano sempre legate a un contesto sociale.

La magnanimità (μεγαλοψυχία) che potrebbe tradursi letteralmente con grandezza d’animo è una virtù legata all’onore: il magnanimo è colui che si stima (giustamente) degno delle cose più grandi e nobili, e l’onore è il più grande dei beni esteriori. Essendo degno di onori il magnanimo sarà quindi buono, virtuoso in generale: per questo Aristotele dice che la magnanimità sembra essere un «ornamento delle virtù, giacché le rende più grandi, e non può nascere senza di quelle» [1124a 1-2].







Aggiunto il 08/09/2018 12:03 da Davide Orlandi

Argomento: Filosofia antica

Autore: Davide Orlandi



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