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A colloquio con Epicuro

L’acropoli e la maestosità del Partenone facevano da suggestivo sfondo, destando irripetibili sensazioni dettate dalla pressoché perfetta armonia che sembrava regnare tra ordine naturale e arte umana. Era appena un giorno che stavo ad Atene eppure la mattina precendente, appena arrivato avevo già sentito parlare di un tizio, tale Epicureo, che, a quanto sembrava, era poco amato dai più, ma molto amato da una minoranza pertanto decisi di saperne di più.

Le uniche notizie che avevo furono che egli stava in un angolo della periferia di Atene, distante dall’Agorà, in una casa immersa nella campagna frequentata dalle persone più strane e meno raccomandabili. Per il resto avevo dovuto spesso sorbirmi i consigli e le raccomandazioni dei più: “Non andare, gli dei ti puniranno, si dice in giro che quello sia un luogo di perdizione”. Tutti mi avevano però per sentito dire e diversi di quegli ateniesi – non lo nascondo – mi avevano fatto anche pena: non esenti da un certo perbenismo, un po’ bigotti e molto ingenui stonavano con l’ambiente e la città in cui vivevano. Quella sera quindi ruppi gli indugi e decisi di constatare di persona. Fu relativamente facile trovare la strada. Avvicinandomi notai sul retro un orto abbastanza grande e discretamente curato; giunsi all’entrata, l’ingresso era libero, chiunque poteva entrare, così m’inoltrai e fui amichevolmente accolto da un uomo abbastanza alto, con una folta barba che dimostrava certamente più dei reali quaranta anni e vestito alla buona, tanto alla buona che io sembravo addirittura elegante. “Benvenuto nel giardino “ mi disse. Istintivamente mi guardai attorno e trattenendo un sorriso non vidi nemmono l’ombra di un fiore o di un albero, ma solo stanze pressoché spoglie e qualche finestra, “boh! Sarà…” pensai e non senza un pizzico di provocazione chiesi. E' qui che sta un certo Epicureo? Con fare calmo e sicuro mi rispose: “Sono io, vieni sediamoci e parliamo” Lo seguì. Accomodati.

Mi fu offerta dell’”acqua e del pane ed un piccolo pezzo di cacio alla vista dei quali il mio appetito da lungo sopito si risvegliò impetuosamente, e dimentico quasi di chi mi stava dall’”altra parte del tavolo, ingurgitai tutto in pochi bocconi sotto la costernazione dei presenti: “Bella figura di affamato che ho fatto” pensai, e mandai già l”ultimo pezzo di formaggio. “Cercavi dunque di me, eccomi, sono a tua disposizione” La sua disponibilità mi sorprese e mi fece cadere quel”atteggiamento diffidente che nemmeno la cordiale accoglienza era riuscita completamente a metter da parte.

“Ho molto sentito parlare di te e sono a tua disposizione”. La sua disponibilità mi sorprese e fece cadere in me, quell’atteggiamento diffidente che nemmeno la cordiale accoglienza era riuscita completamente a metter da parte.

“ho molto sentito parlare di te e sono tante le cose che m’incuriosiscono”.

“Parla pure, da adesso siamo amici”. Solitamente quando ti dicono così i tuoi sospetti aumentano e spesso a ragione, perché chi si proclama amico si dimostra dopo nemico, ma quella volta il tono e lo sguardo del mio interlocutore sembravano sinceri, erano sinceri e lo capii subito.

“Innanzi tutto chiariscimi subito il più grande dubbio, ti prego: perché sei tanto impopolare presso gli Ateniesi? Cominciai a chiedere. “Vedi ragazzo, gli Ateniesi non sono che una piccola parte di tutti coloro che solo perchè mi fraintendono, mi disprezzano”.

“ Ma tutti dicono che sei ateo e che conduci una vita sregolata circondandoti perfino di terre, e questo è vero: ne ho viste due all’entrata” esclamai.

“Io non ho mai detto d’essere ateo; quello che io penso e che gli dei, forse esistono, ma che non gliene importa nulla di tutto quello che facciamo noi poveri mortali. A dispetto di tutto ciò quei benemeriti degli ateniesi e dei greci si affannano a sacrificare animali ( e fossero solo animali!) sull’altare di questo o di quel dio; sono sicuro che Zeus e compagni hanno la nausea della carne di giovenca”.

Ascoltavo divertito ed interessato, ma non ero soddisfatto: “ ma scusami tanto” ripresi “ a quel che mi pare di capire non esiste la provvidenza e quindi sti benedetti dei sono dei disgraziati”.

“ma quali disgraziati e disgraziati, non si interessano delle nostre vicende. Stanno felici e beati nei loro intermundia e niente più!”.

No ero affatto convinto: “ ma che senso avrebbe un dio che se la spassa e non s’interessa d’altro della sua condizione di beato per tutta l’eternità!” Prima o poi i stuferà ………. Già, ma vaglielo a fare capire questo ad Epicuro.”proprio per questo” continuò ll maestro(così lo chiamavano i suoi discepoli) dopo un corso di vino”non dobbiamo avere paura degli dei e tutti invece, vivono ossessionati dall’idea che Zeus o Minerva possano per questo o quel misfatto”. Avevo capito dal tono della voce che era meglio non insistere, ma non porgli un’altra questione che mi stava a cuore: ”E con la morte come la mettiamo?” “gli chiesi con tono, quasi di sfida. Sorrise.”E’ cos’è la morte per l’uomo? Se c’è lei non ci sei tu, e se ci sei tu non c’è lei. Non c’è motivo di temerla”. Cominciavo a capirne sempre meno, ma mi rendevo sempre più conto che il lato d’Epicureo che doveva aver maggiore presa su di me, era certamente un altro. Onestamente, in cuor mio, sulla questione del trascendente il maestro era stato bocciato con un tre secco, ma aspettavo che si rifacesse, e si rifece).Ci alzammo da tavola e andammo a passeggiare fuori sotto la luna.”ne hai amici?”Gli domandai. Certo, e tanti: ricchi, poveri, schiavi, di tutti generi insomma, eteree comprese, si”. Molti non sanno che è l’amicizia che regge il mondo. Ogni mattina fa il giro del mondo per ridestare gli uomini, perché ci si possa rendere felici a vicenda. E’ indubbio che essa nasce dall’utilità, ma deve essere incera e disinteressata. Prova per un momento una società senza amicizia; ognuno si chiuderebbe sempre di più in se stesso e perderebbe molto della sua umanità. Tutti saremmo tanti mondi distinti e separati, lontani, troppo lontani, ed andremmo avanti male.

"Un momento” lo interruppi bruscamente “Tu sei a favore dell’amicizia tra gli uomini, ed è per questo che gli Ateniesi ti osteggiano? Voglio dire che se tu hai tanti amici o meno, al limite, agli Ateniesi può anche non importare”.

“Il problema è uno so “ riprese “Essi sono convinti che possa esistere amicizia solo tra persone dello stesso ceto e figuriamoci se non guardano con sospetto al fatto che io abbia come amici molti schiavi e molti ricchi a loro volta amici a vicenda; i temono che sia un pericoloso rivoluzionario che progetta chissà quali stravolgimenti politici e sociali, mentre i più generosi mi definiscono un uomo di malaffare, un “femminaro”; ma a me, credimi della politica soprattutto non me ne frega proprio niente!”.

“Come? Ed accetti dunque qualsiasi forma di governo, brutta o buona, giusta od ingiusta che sia così passivamente?” chiesi alzando un po’ la voce, ma lasciando imperturbabile il maestro.

“Ricorda che l’uomo la felicità deve raggiungere da solo ed è saggio colui che gode per ciò che ha”.

“Tu quindi non desideri mai ciò che non hai. Non hai mai avuto voglia, ad esempio, non prendertela, d’acqua più fresca, di pane più morbido o di cacio un po’ meno piccante ed un po’ più abbondante!” dissi sentendomi un buco nello stomaco nuovamente vuoto (stomaco notoriamente senza fondo il mio).

“Però, hai dei gusti molto fini!” rispose con tono a metà tra l’offensivo ed il canzonatorio “Ma tu, mio caro ragazzo, mangi per sopravvivere o per il piacere della gola? e poi dicono che sono io che vomito due al giorno per poter mangiare di nuovo: calunnie!”.

La serata era fresca ed il passeggiare piacevole. Continuammo a camminare.

“E quindi tu sei felice” ripresi “chi si accontenta gode, ma ci sarà pure stata qualche volta in cui ti sentito giù, infelice, depresso, o non ti è capitato mai; insomma sto parlando con un uomo o con chi! Chiesi con tono calmo ma un tantino urtato. “Caro il mio giovane” rispose “fissa bene in testa questo che sto per dirti: la felicità, se esiste, devi trovarla dentro di te, niente e nessuno potrà mai dartela dall’esterno. Entra in te stesso e vivi nascosto perché in caso contrario potresti esser travolto da un mondo sempre più materialista ed alla ricerca del superfluo.

Non affannarti per il domani perché non c’è motivo: più hai, più vorrai.

Vinci il dolore, puoi farlo, e sii felice anche fra i tormenti. Solo così sarai saggio. Adesso devo lasciarti, altri amici mi aspettano.

Vienimi a trovare qualche altra volta, mi farà piacere!”.

Guardai l’orologio che avevo tenuto ben nascosto e mi accorsi che mancava meno di mezz’ora all’appuntamento con quell’“affare” che mi avrebbe riportato nel xx secolo. Il mio tempo era scaduto-tiranno, sempre tiranno il tempo – ed incamminandomi verso il luogo prestabilito mi voltai un’ultima volta verso il Giardino; adesso capivo perché si chiamava così. Mi fermai un istante a pensare. Epicureo non sapeva niente di me, non m’aveva nemmeno chiesto il nome eppure m’aveva offerto subito la sua amicizia.

Chissà se aveva sospettato qualcosa chissà?

Non dimenticherò mai quell’incontro. Forse non ero stato all’altezza del compito, faccia a faccia con un simile personaggio dell’antichità, ma mi rimarrà sempre impresso il volto sereno di un uomo che in punto di morte – venni poi a sapere – aveva detto: “Volge per me il supremo giorno. Così acuti sono i dolori alla vescica ed alle viscere che più oltre non può procedere il dolore. Pure ad essi s’adegua la gioia dell’anima mio, nel ricordare le nostre dottrine e le verità da noi scoperte”.




Aggiunto il 24/03/2012 17:19 da Admin

Argomento: Filosofia antica

Autore: Filippo Laganà



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