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Sulla eccezionale provocazione speculativa di Emanuele Severino

Nella ricorrenza dei sessant’anni dalla pubblicazione de “La struttura originaria”¹, opera su cui ho elaborato, nel lontano 1976, la mia tesi di laurea intitolata “Nesso finito-infinito e differenza ontologica”, voglio anch’io scrivere qualche nota sul pensiero di Emanuele Severino, pensiero che, lo si condivida oppure no, rappresenta comunque una prospettiva metafisica che il filosofare, se non vuole abdicare da se stesso, non può fare a meno di prendere in seria considerazione.

Non a caso sul pensiero severiniano, in questi ultimi cinquant’anni, si sono susseguiti confronti e scontri dialettici fra interpreti ed oppositori: filosofi, scienziati, teologi italiani e non – le argomentazioni dei quali, peraltro, sono state dallo stesso Severino generosamente ed ampiamente inserite e discusse in alcune sue opere – hanno contribuito a rivitalizzare quello spazio metafisico-speculativo nel quale si origina e si sviluppa la domanda sul senso dell’essere e la sua verità.

Per Severino la verità consiste nell’incontrovertibile affermazione che l’essere è e il non essere non è; nel senso che tutto ciò che è, ogni ente, dal granello di sabbia alla più lontana galassia, è eterno ed immutabile; per questo il suo ‘divenire’ non è da intendersi come un provenire dal nulla ed un andare nel nulla, un annientarsi; non si può, infatti, dedurre il non essere dal ‘fatto’ che qualcosa (granello di sabbia o galassia) prima non appare e dopo non appare più; dunque, come non si può dedurre il ‘non-essere’ ancora (provenire dal nulla) di ciò (qualsiasi ente) che ancora ‘non-appare’, allo stesso modo, non si può dedurre il ‘non-essere’ più (finire nel nulla) di ciò (qualsiasi ente appunto) che più ‘non-appare’; insomma dall’apparire e scomparire degli enti (granelli di sabbia o galassie che siano) non è dato affermare l’essere e il non essere (è questo, appunto, per Severino il senso nichilistico del divenire) di quegli stessi enti.

Che l’essere – inteso come ‘tutto ciò che è’ o totalità degli enti in qualsivoglia forma o maniera siano apparsi, appaiano, appariranno e/o possano apparire – sia e non possa non essere o annullarsi, significa, per Severino, l’irrevocabile ed irremovibile verità della struttura originaria (l’essenza stessa del ‘nostro’ pensare); per questo, allora, il principio di non contraddizione, che vieta, appunto, che l’essere (come totalità di ciò che è) possa identificarsi (provenire o finire) col non essere, non ha solo un valore logico, ma anche un innegabile valore ontologico, ed esprime, pertanto, una verità logico-ontologica.

A chi obietta contro tale verità basando le sue argomentazioni sulla logica formale, così risponde lo stesso Severino: «Il linguaggio filosofico deve certamente essere il più chiaro possibile; ma altro è sostenere che il linguaggio logico è “utile” alla chiarezza del linguaggio filosofico; altro è sostenere che il pensiero filosofico può avere significato e verità solo se espresso nel linguaggio della logica formale, che pertanto sarebbe non solo utile, ma indispensabile»².

La struttura originaria della verità, nella sua essenza dialettica, «non consiste nel semplice significato di un’affermazione, ma nell’istituzione del valore di questa, ossia nel suo rivelarsi capace di togliere ogni possibile modo di negazione di ciò che essa affermazione mette appunto innanzi»³.

La determinazione del valore dell’opposizione del positivo e del negativo è di fondamentale importanza e svolge un ruolo decisivo nel pensiero di Severino, e, infatti, proprio alla più rigorosa e radicale esplicitazione del valore di quell’opposizione è rivolto l’essenziale impegno di tale pensiero.

Severino, qui, fa suo e approfondisce quello che definisce “il formidabile contributo dell’elenchos aristotelico”, ossia della difesa o semplice apologia con cui Aristotele pone in evidenza il valore del principio di non contraddizione. Difesa o semplice apologia del principio, in quanto, non potendo darsi una dimostrazione del principio tale dimostrazione, ponendolo come mediato-immediato dalla dimostrazione stessa, equivarrebbe alla negazione del principio come tale, perché come tale, appunto, non può che essere immediato; ecco, allora, che elenchos, come impossibile confutazione, rivela il suo inattaccabile valore mostrando la sua capacità di negare ogni sua possibile negazione.

L’approfondimento dell’elenchos aristotelico da parte di Sverino, consiste essenzialmente nell’enucleazione di quella valenza originaria ed universale dell’opposizione del positivo e del negativo per la quale l’affermazione dell’opposizione tra essere e non essere non significa solo opposizione tra l’essere e il nulla, ma significa piuttosto «opposizione del positivo e tutto ciò che non è quel positivo, e dunque opposizione tanto al nulla, quanto ad ogni altro positivo»⁴.

Dire, ad esempio, che questo tavolo non è questa sedia, significa affermare che questo tavolo, come positivo, non è il suo negativo, dove questo negativo vale, nell’esempio in questione, la sedia; formulazione logica dell’incontraddittorietà individuale e limitata che, però, sarebbe essa stessa autocontraddittoria se pretendesse di valere indipendentemente dal valore universale e concreto della stessa ìncontraddittorietà dell’essere. Infatti, il valore universale e concreto dell’opposizione del positivo e del negativo comporta che l’opposizione del tavolo alla sedia valga solo come “una individuazione dell’opposizione” del positivo e del negativo, individuazione che si fonda e, dunque, vale solo se tenuta in relazione all’universalità concreta dell’opposizione del positivo e del negativo: il tavolo (questo positivo) si oppone sì alla sedia, ma anche alla penna, alla casa, all’albero, alla terra, al cielo … e, quindi, in modo preminente, al nulla.

La verità non è né un possesso acquisito in via definitiva né un’operazione compiuta una volta per tutte, ma ha piuttosto «il carattere husserliano dell’immer wieder»⁵.

‘Sempre di nuovo’ da non intendersi, però, come il suaccennato nichilistico divenire per cui la verità non possa porsi come tale, come struttura originaria appunto; e questo è possibile comprendere solo se si distingue tra universalità e individuazione, distinzione per la quale si chiarisce come la verità si ponga attualmente come negazione della negazione universale, e si ponga processualmente in riferimento alle individuazioni della negazione che si presentano appunto nell’apparire storico.

Se la filosofia ha a che fare, inevitabilmente, con la domanda sul senso di ‘tutto ciò che è’, credo sia difficile trovare una prospettiva più radicale e coerente di quella che viene proposta da Emanuele Severino; pensare l’essere come ‘totalità degli enti’ non può non implicare il pensiero di quel ‘luogo’/’dimensione’ (che, esprimendola in linguaggio religioso, potrebbe corrispondere alla ‘mente divina’) in cui ogni ente (compreso quell’ente che sono) venga ricompreso e salvato dalla rapina del nulla.

Non mi è dato di vivere nell’esistenza/forma attuale questa eterna onnicomprensività, questo sentimento di assoluto e, anche se riesco incontrovertibilmente a pensarlo, posso solo immaginare, ipotizzare di viverlo in un’altra forma, in un altro modo di essere: qui la discussione con Severino è aperta!

È come se per il semplice (sic!) fatto di esistere, avessi contratto un’irrevocabile prerogativa di assolutezza, perché, ad esempio, non riesco a concepire di poter essere scisso da tutto ciò che è stato, che è e che sarà, non mi pare, infatti, ragionevolmente pensabile lo scioglimento del legame col Tutto: impossibilità di revocare questo logos-legame con l’essere del Tutto: qui mi pare difficile riuscire a contraddire Severino!

Per cercare di intuire/dire questa assoluta concretezza dell’essere rispetto all’astrattezza del nostro pensarlo (temporalmente e discorsivamente), mi pare utile questo richiamo ad Antonio Rosmini: «Quando l’oggetto del pensiero è l’essere stesso allora la virtualità non è un difetto che sia nell’essere, ma sì nella mente. È la mente quella che non vede tutta spiegata l’attualità dell’essere. Quindi si presenta a lei l’essere come involuto e nascosto in se stesso e così questo difetto soggettivo apparisce nell’oggetto non già perché sia difetto proprio dell’essere, come dicevamo, ma perché la mente vela colla sua imperfezione l’essere stesso a tale che ne diviene un altro oggetto da quello che sarebbe se l’essere attuale gli apparisse tutto com’è»⁶.

In questa acuta riflessione rosminiana viene toccato il problema del rapporto tra finito e infinito e, quindi, a mio avviso, il grande tema della ‘differenza ontologica’.

‘Differenza ontologica’ che anche Severino esprime con queste pregnanti e suggestive parole: «L’eterno appare (e non può non apparire), ma, poiché appare processualmente, appare in parte … la parte che appare sola, differisce da sé in quanto avvolta dal tutto, nel senso che viene a perdere (=nascondere) qualcosa di sé in quanto così avvolta. Cioè dall’apparire non si ritrae semplicemente la dimensione che eccede la parte, ma, proprio per questo ritrarsi, c’è anche un ritrarsi nella parte stessa che appare, e che quindi appare avvizzita: se di un bel volto non appaiono certi tratti, quelli che appaiono non sono quegli stessi tratti che nella completa apparizione del volto si fondono con tutti gli altri, e l’espressione che si produce in questa limitata manifestazione, può essere tanto pateticamente accettabile, quanto terribilmente mostruosa»⁷.

Se la differenza ontologica è il modo più valido per poter pensare al rapporto tra finito e infinito, allora, a mio avviso, è proprio sulla base di tale ‘differenza’ che anche la struttura originaria della verità può prefigurare, con le parole di Severino, “una regione sterminata aperta all’indagine speculativa”.

 

Note

1 . E. Severino, La struttura originaria, La Scuola Editrice, Brescia 1958

2 . E. Severino, Discussioni intorno al senso della verità, Edizioni ETS, Pisa 2009, p. 118

3 . E. Severino, Studi della filosofia della prassi, Pubblicazioni dell’Università Cattolica,

      Milano 1967, p. 24

4 . E. Severino, Essenza del nichilismo, Paideia Editrice, Brescia 1972, p. 136

5 . E. Severino, Studi di filosofia, cit., p. 27

6 . A. Rosmini, Teosofia, Bompiani, Milano 2011, p. 1979

7 . E. Severino, Essenza, cit., p. 118 nota 22

 

 




Aggiunto il 06/03/2018 14:32 da Alfio Fantinel

Argomento: Filosofia contemporanea

Autore: Alfio Fantinel



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