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Sono davvero tramontate le ideologie?

Da più di 20 anni si parla con sempre maggior convinzione della fine delle ideologie come di un dato di fatto su cui filosofi, sociologi e politici sembrano concordare senza riserve. Ci si riferisce, ovviamente, al mondo occidentale, poiché, se spostiamo altrove lo sguardo, ad esempio nei vicini Paesi medio-orientali, ci si imbatte immediatamente nella cultura islamica, con i suoi estremismi ideologici, abilmente utilizzati da ristretti gruppi di potere per manovrare a proprio piacimento la grande massa del popolo.

            La fine delle ideologie in occidente viene in genere fatta coincidere con la caduta del Muro di Berlino, assunto a simbolo dell’utopia comunista, ultimo grande sistema ideologico del Novecento. Svanita l’illusione comunista di poter costruire una società più giusta eliminando ogni tipo di costrizione e di sfruttamento dell’uomo sull’uomo, divenuta sempre più marginale l’influenza della religione cristiana nel corso degli ultimi decenni, molti ritengono gli individui finalmente liberi dagli influssi di concezioni onnipervadenti, per lo più assorbite inconsapevolmente, ma capaci di condizionare profondamente l’immagine di sé e del mondo circostante.

            In questo breve scritto mi propongo di mettere in discussione la tesi che vorrebbe le ideologie definitivamente tramontate dall’orizzonte dell’uomo contemporaneo; cercherò di dimostrare che la cultura occidentale si sia per buona parte affrancata dai grandi sistemi ideologici

del passato, ma solo per sottomettersi a un’altra ideologia dai caratteri del tutto particolari, ma non per questo meno diffusa e radicata delle precedenti.

            Uno dei principali caratteri distintivi dell’ideologia è il suo presentarsi a coloro che ne sono portatori con il carattere della necessità, come qualcosa di non relativo a uno specifico punto di vista, bensì come uno stato di cose assoluto, indipendente dagli uomini. Non è certo un caso che l’ideologia venga sempre attribuita alle posizioni altrui. Mai capita di guardare alle proprie convinzioni, alle proprie prese di posizione, ai propri criteri di valutazione, ai propri valori, come ideologici. Ma ciò è un’assoluta ovvietà, dal momento che nello stesso concetto di ideologia è implicita la mancata consapevolezza delle motivazioni profonde, il più delle volte non razionali e caratterizzate da forti componenti emotive, che agiscono sugli uomini.

            La secolarizzazione nei paesi d’occidente, ovvero la perdita di importanza dalle concezione religiosa della realtà e delle grandi ideologie politiche, è avvenuta, almeno per buona parte, in seguito del progressivo affermarsi dell’immagine scientifica del mondo. La scienza ha dimostrato, al di là di ogni dubbio, la capacità di migliorare la vita dell’uomo, rendendola più sicura e più comoda, e anche di offrire risposte soddisfacenti a un gran numero di domande di notevole rilevanza per l’uomo. Per questa sua capacità, il modello di indagine scientifica si è esteso a poco a poco ben oltre gli ambiti in cui era stato inizialmente concepito, imponendosi, soprattutto a partire dalla seconda metà del XX secolo, come paradigma del corretto modo di pensare e di affrontare adeguatamente qualsiasi ordine di problemi.

            Galileo, l’iniziatore del metodo scientifico moderno, distingueva nettamente tra proprietà primarie e proprietà secondarie, cioè tra le proprietà possedute dai fenomeni studiati, le quali esistono indipendentemente dall’osservatore (volume, peso, forma, quantità), e le proprietà che invece sono legate all’osservatore, derivando dall’azione che i corpi esercitano sui suoi sensi (odori, sapori, suoni, colori…). Galileo riteneva che l’indagine scientifica dovesse rivolgersi esclusivamente alla prima tipologia di proprietà, in quanto la sola a permettere misurazioni precise. In tal modo, egli escludeva dalla scienza tutto ciò che è soggettivo, ossia tutto ciò che è in relazione con la mente dell’uomo.

            Con Cartesio tale distinzione viene portata alle estreme conseguenze e resa ancor più esplicita. Per il filosofo francese esistono due tipi di sostanze: la sostanza materiale, di cui sono fatte tutte le cose che ricadono sotto i nostri sensi, compreso il nostro corpo fisico, e la sostanza spirituale, priva di estensione spaziale e non suscettibile di osservazione empirica. Con una simile impostazione, è evidente che solo gli oggetti e i fenomeni di consistenza materiale si prestano ad essere indagati scientificamente, mentre il mondo dello spirito, all’interno del quale Cartesio collocava anche la mente umana, si sottrae a tale possibilità, essendo accessibile soltanto alla speculazione filosofica.

            Sarebbe lungo ripercorrere le diverse tappe attraverso cui queste idee hanno perso progressivamente importanza divenendo, poco per volta, del tutto inconsistenti. Benché siano mutati i termini di molte questioni ampiamente dibattute in passato, si può dire che l’affermazione del pensiero scientifico ha reso improponibile qualsiasi distinzione di principio tra i fenomeni del mondo inanimato e i fenomeni che si fanno comunemente rientrare nel campo della mente umana. Si ammette generalmente che i fenomeni mentali (come, in parte, i fenomeni biologici) siano caratterizzati da comportamenti alquanto particolari, ma si tende ad attribuire ciò alla grande complessità che li contraddistingue, la quale non consentirebbe di cogliere come l’insieme dei fattori coinvolti si componga per dar origine ai comportamenti osservati.

            Schiere di scienziati e di filosofi sono mobilitate nello sforzo di dimostrare in maniera inequivocabile che la materia fisica, quella che ricade direttamente o indirettamente (tramite la mediazione di opportuni strumenti) sotto i nostri sensi esaurisce l’intero dominio del reale e che tutto ciò di cui ha senso parlare deve poter essere ricondotto alle leggi della scienza.

            Lo sfondo filosofico di riferimento sotteso a questa concezione della realtà è il cosiddetto naturalismo scientifico, per il quale non sono accettabili in funzione esplicativa fattori che si richiamino a entità prive di base empirica, come spiriti, anime immortali, divinità, disegni intelligenti, ecc. Con una tale prescrizione sul piano metodologico (che finisce però per investire pesantemente anche il piano ontologico) ci si propone di erigere un muro invalicabile contro tutte quelle idee, per lo più di derivazione religiosa, che, in un modo o nell’altro, propongono una visione dualistica (in senso cartesiano) del mondo che ci circonda e di noi stessi.

            Uno dei campi in cui il naturalismo scientifico incontra maggiori difficoltà ad affermarsi compiutamente è quello relativo alla spiegazione del rapporto della mente con la base materiale comunemente attribuita ad essa, vale a dire l’attività cerebrale. Nonostante gli annunci trionfalistici che di tanto in tanto giungono dal campo delle neuroscienze, la natura di tale rapporto continua a rimanere sostanzialmente sconosciuta. Nessuno, ad oggi è in grado di dire come dai fenomeni elettrochimici che hanno luogo a livello di neuroni cerebrali si giunga a una esperienza cosciente vissuta in prima persona, né come sia possibile una volontà autonoma (libero arbitrio) che scaturisca da processi fisici strettamente dipendenti da leggi scientifiche ben definite.

            Per alcuni, l’intrattabilità degli aspetti più caratteristici della mente sulla base delle ordinarie categorie scientifiche sarebbe la prova della scarsa consistenza di detti aspetti sul piano ontologico. In special modo, le esperienza coscienti, vale a dire i vissuti che si affacciano istante per istante alla finestra della nostra soggettività, non sarebbero “fatti”, almeno non nello stesso senso in cui vengono intesi gli altri fatti di cui si occupa la scienza. Di qui a svalutarli pesantemente come illusori o addirittura come inesistenti, il passo è breve. C’è ormai un’ampia letteratura tesa a sminuire l’importanza di certe manifestazioni della vita mentale. Autori come Daniel Dennett, Susan Blackmore e Daniel Wegner – per citare i primi nomi che mi vengono in mente – hanno acquisito fama internazionale scrivendo centinaia di pagine in cui si cerca di mettere in dubbio che esistano “cose” come la coscienza o il libero arbitrio. (1)

                La concezione naturalistica della realtà andrebbe in ogni caso considerata come una ipotesi di lavoro, un modo di inquadrare la realtà che si è rivelato straordinariamente fecondo finché applicato al mondo dei fenomeni inanimato. Ma che non ha incontrato un analogo successo quando si è trattato di dar conto delle facoltà superiori dell’uomo, quelle che comunemente si definiscono “mentali” e che rappresentano l’espressione più evoluta della vita sulla Terra. Nonostante questo, tale concezione è diventata, per la quasi totalità degli scienziati e dei filosofi al loro seguito, il riferimento obbligato per qualsiasi affermazione riguardante il mondo che ci circonda e noi stessi. Il naturalismo scientifico è oggi considerato un presupposto metodologico e ontologico sulla cui validità universale non è lecito sollevare alcun dubbio, pena il totale discredito di chi osa farlo.

            Questa convinzione incrollabile non è il risultato di studi sistematici approdati a una piena comprensione di fenomeni assolutamente straordinari come l’esperienza cosciente o l’autonomia della volontà. Essa è piuttosto la conseguenza della necessità di emancipare completamente il pensiero scientifico da concetti esplicativi direttamente o indirettamente connessi con la tradizione religiosa, in primo luogo quelli che si richiamano al dualismo. Stabilire, con una sorta di “decreto metodologico” che non esiste nulla all’infuori della materia, soggetta alle leggi scientifiche che conosciamo, equivale a elevare una barriera invalicabile contro tutte quelle idee metafisiche che appartengono a una fase del pensiero umano considerata ormai definitivamente superata.

            Qualsiasi soluzione, anche la più strampalata e improbabile, sembra preferibile alla prospettiva di mettere in discussione la concezione naturalistica della realtà che, per la mentalità fortemente dicotomica che caratterizza il pensiero contemporaneo, significa fare concessioni al dualismo della peggior specie. Lo vediamo dalle teorie sulla mente che vengono attualmente proposte, dove la totale sudditanza nei confronti del naturalismo conduce immancabilmente a modelli esplicativi che sono poco meno di un insulto alle nostre facoltà razionali.

            Non si tratta di sviste, di errori accidentali, ma rappresentano probabilmente un compromesso inevitabile per rendere compatibili (almeno in apparenza) le caratteristiche della mente con il naturalismo scientifico. (2)

            Abbiamo, a questo punto, tutti i principali caratteri dell’ideologia, cioè l’assoluta convinzione della validità di una data concezione, anche al di fuori degli ambiti effettivamente esplorati; la chiusura aprioristica di fronte a qualsiasi possibilità alternativa; la tendenza a sminuire l’importanza o a ignorare ciò che si trova in contrasto con essa; oltre, ovviamente, alla mancata consapevolezza delle radici motivazionali della concezione stessa.

            Per quanto mi riguarda, ho il forte sospetto che le difficoltà che si incontrano nell’inquadrare i fenomeni mentali negli attuali paradigmi scientifici non segnalino un’inadeguatezza di questi fenomeni sul piano ontologico, quanto piuttosto una grave insufficienza dei paradigmi stessi se applicati a campi molto lontani da quelli in cui sono stati originariamente sviluppati.

            La concezione naturalista dominante che, almeno nel mondo occidentale, pervade ormai ogni aspetto dell’esistenza umana, impedisce di elevare lo sguardo oltre la piatta materialità del mondo, così come descritto dalle leggi scientifiche vigenti: riduce l’uomo a immagine dell’apparato concettuale della scienza, presentandolo come una sorta di caricatura rispetto alla realtà più piena che ciascuno di noi vive intimamente, istante per istante.

            In definitiva, detto apparato funziona da “filtro”, in riferimento al quale si stabilisce ciò che è rilevante per la riflessione o per l’indagine e ciò che non lo è. Vediamo così che le stesse definizioni dei fenomeni mentali sono costruite in maniera da essere coerenti con i paradigmi scientifici consolidati; poco importa se esse fanno violenza alla nostra esperienza diretta. Le domande che si pongono (le domande “lecite”) sono quelle a cui si può dare risposta all’interno degli stessi paradigmi; mentre si tende a ignorare le domande che si presentano estranee ai paradigmi stessi.

            In tale prospettiva l’uomo, analogamente a tutte le forme viventi, viene considerato come il risultato di una lunga catena di eventi casuali il cui inizio si perde nella notte dei tempi. Di conseguenza, non si riesce più a riconoscere una differenza di principio tra l’essere umano e le macchine da questi costruite, se non una complessità di gran lunga superiore del primo. Perdono senso anche molti aspetti di rilievo appartenenti a quel mondo variegato che si può far rientrare, in senso lato, nella sfera della cultura. Intendo riferirmi a “oggetti” che occupano un posto quanto mai importante nell’esistenza umana, quali i valori che ognuno di noi assume come riferimento per le proprie scelte, le norme di natura etica, i significati attribuiti alle entità materiali, sociali e ideali in cui siamo immersi, i criteri estetici, ecc.

            Aderendo integralmente alla concezione naturalistica della realtà, non rimane alcuno spazio per questi fattori. Veniamo sospinti verso un totale relativismo, trovandoci nella sostanziale incapacità di rispondere a domande del tipo: “Perché dovremmo essere onesti, giusti, solidali nei confronti dei nostri simili?”, “Perché dovremmo rispettarli, aiutarli nelle difficoltà”; “perché non dovremmo eliminare, come si fa con un elettrodomestico guasto che non conviene riparare, gli anziani non autosufficienti, i disabili gravi, i neonati deformi?”. Non ci rimane altro criterio con cui orientare la nostra attività se non le pulsioni che si affacciano di istante alla finestra della nostra istintività più primitiva, riducibili essenzialmente al binomio piacere-dolore. Né più né meno come macchine governate da principi di funzionamento pre-definiti, alle quali ogni attribuzione di facoltà mentali diventa del tutto fuori luogo.

            Non dobbiamo lasciarci ingannare da coloro che si affannano nel tentativo di convincerci che la piena adesione al naturalismo non comporta alcuna “catastrofe etica”. Questi personaggi o sono in malafede, oppure non hanno approfondito a sufficienza simili argomenti. C’è, in ogni caso, da scommettere che un ruolo importante in questo loro impegno venga giocato dalla consapevolezza che i valori etici siano troppo importanti perché la maggioranza delle persone accetti di sacrificarli a una visione della realtà avvertita come fondamentalmente estranea alla natura umana più autentica.

            Al momento, nessuno sembra in grado di proporre soluzioni accettabili ai grandi problemi sollevati dalla mente. La maggioranza degli studiosi continua a trastullarsi dietro l’idea che, in un modo o nell’altro, la risposta si trovi celata dietro l’enorme complessità dell’organizzazione cerebrale. E tarda a farsi strada l’ovvia verità che dalla quantità non può in nessun caso aver origine la qualità. Per dirla in termini maggiormente scientifici: non è pensabile che un insieme sia pur molto grande di fenomeni, soggetti a leggi fisiche ben definite, dia luogo a fenomeni in grado di violare quelle stesse leggi. Poiché è precisamente questo che fanno la coscienza, col suo indubbio contributo all’adattamento degli organismi viventi all’ambiente, l’autonomia della volontà, col suo presupporre una (relativa) indipendenza rispetto ai sottostanti processi cerebrali, le doti creative, col loro porsi oltre i vincoli esistenti a un dato istante.

            Il problema mente-cervello sta appunto nella circostanza che le manifestazioni della mente di cui sopra, pur mostrandosi strettamente legate all’attività del cervello, non si lasciano ridurre ad essa, almeno non del tutto.

            La concezione naturalistica del mondo è stata indubbiamente un grande fattore di progresso per la conoscenza umana, poiché ha liberato la riflessione filosofica e scientifica dagli angusti spazi in cui era stata confinata dal pensiero religioso. Oggi, però una simile concezione, dovendo misurarsi con campi di indagine completamente diversi da quelli in cui era stata sviluppata – in modo particolare quelli che riguardano la mente – appare sempre più in difficoltà ed è probabile che, almeno per quanto riguarda questi campi specifici, rappresenti ormai un impedimento per ulteriori avanzamenti, piuttosto che un fattore di progresso.

            La mente, con le sue caratteristiche assolutamente peculiari rispetto a qualsiasi altro oggetto o fenomeno dell’universo prospetta, per poter essere compresa a fondo, una grande rivoluzione concettuale, assai più radicale di quella prodotta dall’irrompere della meccanica quantistica e della relatività nel tranquillo mondo della fisica classica. Tale rivoluzione potrebbe addirittura investire alcuni concetti fondamentali che costituiscono parte integrante dell’edificio della scienza, come quelli di “fenomeno”, di “teoria scientifica” e di “spiegazione”.

            Difficilmente un cambiamento profondo dell’immagine scientifica potrà essere promosso dalla semplice riflessione, la quale non può che riproporre le tradizionali categorie di pensiero, precisamente quelle che danno origine alle attuali difficoltà. E’ molto più probabile che esso venga sollecitato da importanti scoperte in campo neuroscientifico che, mostrando con chiarezza l’inadeguatezza di alcuni dei presupposti che oggi ci appaiono ovvi, renderanno via via gli scienziati maggiormente disponibili ad esplorare direzioni di ricerca che oggi considerate improponibili.

            Una nuova concezione della realtà, capace di dar conto dei fenomeni mentali, che eviti inaccettabili artifici concettuali e che non faccia violenza ai fenomeni stessi, non potrà che essere maggiormente aderente alla nostra esperienza immediata. Solo allora riusciremo a cogliere in tutta la sua evidenza l’artificiosità della prospettiva in cui rischia di precipitarci l’attuale concezione naturalista dell’uomo e potremo restituire una nuova dignità e un nuovo senso alla nostra esistenza.

 

 

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NOTE

 

(1) In particolare, Daniel Dennett e la sua emula, Susan Blackmore, si sono occupati del fenomeno dell’esperienza cosciente, presentando una notevole mole di argomentazioni volta a togliere ad essa ogni rilevanza scientifica, mettendo sostanzialmente in discussione la sua stessa consistenza sul piano ontologico. Per un approfondimento su questo tema, si veda Daniel Dennett, Coscienza. Che cos’è?, Rizzoli, Milano, 1993, e Susan Blackmore, Coscienza, Codice Edizioni, Torino, 2007,  nonché le mie critiche rispettivamente in Astro Calisi, Oltre gli orizzonti del conosciuto, La sfida cruciale della mente alla scienza del XXI secolo, Editrice Del Faro, Trento, 2014, pagg. 74-85, e Astro Calisi, “Susan Blackmore e l’illusione della coscienza”, all’indirizzo web:

http://www.riflessioni.it/lettereonline/susan-blackmore-illusione-coscienza.htm.

            Per quanto riguarda la posizione scettica di Daniel Wegner sul libero arbitrio, in lingua italiana, si può leggere una breve sintesi su Daniel Wegner, “L’illusione della volontà cosciente”, in De Caro – Lavazza (a cura di), Siamo davvero liberi? Le neuroscienze e il mistero del libero arbitrio, Codice Edizioni, Torino, 2010,  pagg. 21-49. Per una critica alla posizione di Wegner, si veda Astro Calisi, “La libertà umana secondo Daniel Wegner”, all’indirizzo web: http://www.psicolab.net/2012/liberta-umana-wegner/ .

 

(2) Non è questa la sede per entrare nel merito delle più recenti proposte tese a una “spiegazione” della mente, e in special modo del fenomeno “coscienza”. Dirò soltanto che le strategie esplicative attuali possono essere grossolanamente distinte in due grandi categorie: quelle che cercano di semplificare gli oggetti e i fenomeni mentali, sfrondandoli di quegli aspetti che si trovano maggiormente in conflitto con la scienza; quelle che introducono nuovi concetti esplicativi o presupposti, spesso del tutto ad hoc (privi di base empirica). Per chi volesse approfondire questo tema, mi permetto di segnalare Astro Calisi, Oltre gli orizzonti del conosciuto, cit., pagg 231-255.




Aggiunto il 18/11/2014 12:08 da Astro Calisi

Argomento: Filosofia delle idee

Autore: Astro Calisi



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