I nostri più antichi progenitori delle più remote età - di cui dice Aristotele (1074b) - erano degli imitatori, come tutti noi altri. Sia che fossero narratori di tragedie o di commedie o entrambe, essi volevano trasmettere ciò che ritenevano che “per noi è conforme a natura” (1448b, 20) (S. Critchley, A lezione dagli antichi).
Precisa infatti Critchley: Per Aristotele, come per Darwin, il comportamento umano è imitativo kata’ physin: si fonda sull’azione, la reazione, la ripetizione e l’adattamento attraverso “memi” comportamentali. A differenza di Platone, la mimesis “non è una minaccia all’autocontrollo morale dell’uomo per bene” (Critchley, ibidem).
Se è una minaccia a una sorta di animo da bene (daimon) o un comportamento imitativo, in entrambi i casi è preceduta/o da una sostanza o “ciò”, semplicemente, che, per l’appunto, precede la minaccia o siffatto comportamento imitativo. In entrambi i casi, qual-cosa-che determina una theoria, “per noi conforme a natura”.
Ma gli uomini ignorano, non possono non ignorare (Parmenide) “ciò”-che o “ciò-da cui” (ex on) - dice Anassimandro - “per le cose è la generazione (e) sorge anche la dissoluzione verso di esso, secondo il necessario …”. On è participio presente, al plurale, e indica pertanto un’azione, che non può che esercitarsi in un tempo, presente e pertanto riferito alle cose che sono (on), che nascono e muoiono, secondo il necessario (kata’ to kreon) e quindi un tempo che potremmo anche dire eterno o infinito. Laddove nel testo in greco è evidente che la “necessità” di cui è detto è connaturata alle cose medesime. Rischiando tuttavia, così, di tornare punto e a capo.
E allora, seguiamo la pista dell’ignoto. L’ignoto è dio. E le cose non sono altro che dei. Così che precisa Aristotele: I nostri progenitori delle più remote età hanno tramandato ai loro posteri una tradizione, in forma di mito, secondo cui questi corpi sono dei e il divino racchiude l’intera natura. Il resto della tradizione è stato aggiunto più tardi in forma mitica … (G. de Santillana, H. von Dechend, Il mulino di Amleto). E’ nota risaputa che gli dei abbiano trovato posto più facilmente nel cielo, ma è altresì noto a molti che essi trovassero posto altrettanto in terra e sotto terra. Nel loro cammino, di una generazione o eterno, essi percorrevano - continuamente - la “terra di”-mezzo, l’alto e il basso oppure trovavano fissa dimora nell’alto o nel basso: così che - da emblema per tutti - Saturno, dapprima in alto, poi scalzato da Giove, sia costretto in basso.
E dunque i viaggi degli dei sembra che prendano forma simile ai viaggi delle cose che nascono e muoiono, e noi odierni imitatori ignoriamo pur sempre da dove essi/e provengono e dove essi/esse facciano ritorno, semmai sia così. “Come in cielo così in terra”, si ostinano a credere coloro che recitano ancora il Paternoster.
Riassumendo, Giorgio de Santillana e Herta von Dechend scrivono che: Le ‘avventure’ epiche hanno luogo tutte quante nel cielo, come si può già dedurre dal fatto che il determinante cuneiforme per “dio” è costituito da una stella; ed è appunto con “dei” che abbiamo continuamente a che fare. Questa circostanza è ben nota a tutti gli assirologi, ma viene pervicacemente rimossa. Ciò non significa assolutamente che quaggiù non si faccia nulla. La geografia è sin dall’inizio derivata dall’uranografia, e a ciascun luogo “sopra” ne corrisponde uno “sotto” (ibidem).
Abbiamo lasciato in sospeso il concetto di necessità, che potremmo dire, abbiamo letto, in-sito alle cose che nascono e muoiono e non sappiamo, neanche, se in qualche modo ritornino, in qualche modo risorgendo continuamente o per l’eternità. Il termine greco è apokatastasis, traducibile con termini quali “ritorno” (allo stato primitivo: Aristotele), “reintegrazione” (dopo eclissi: Platone), “rivoluzione zodiacale” (Paolo di Alessandria), ma anche risanamento o guarigione (Areteo medico). E qui non è proprio il caso di dimenticare la teoria paolina dell’apocatastasi incentrata sul definitivo ritorno a Dio e in Dio di tutte le cose create.
Ogni cosa sembrerebbe dunque costretta a fare i conti con il Tempo. Platone, che non mi è per nulla sim-patico, parlava del tempo come di una “macchina”, intendendola come l’“immagine mobile dell’eternità”. A suo giudizio, l’intero kosmos (universo) andava concepito (theoria) come - una o meglio - “La macchina del tempo”: Essa descriveva le Generazioni del Tempo stesso, il simbolo ciclico dell’eternità: ciclo dopo ciclo, giù giù fino agli spostamenti più piccoli, appena percettibili (ibidem). Un quadro assolutamente mirabile ed estatico.
Una visione miracolosa, un prodigio, che in qualche modo richiama il deus ex machina della tragedia attica. Scrive Critchley: La machina in greco è mechané, termine che indica sia la gru con la quale venivano calati a mezz’aria sulla scena gli dei, sia qualsiasi artificio estraneo alla razionalità della trama (ibidem).
Benedetti Greci! Ci troviamo continuamente in un “implesso”. Il poeta Valéry dice che implesso è “l'insieme di tutto ciò che una qualsiasi circostanza può trarre da noi”. Come un artificio, in un senso o nell’altro, diverso, contrario, opposto. Una vera e propria teoria. E, quanto alla teoria per così dire più fondata, i nostri più antichi progenitori, e noi ancora con loro, non abbiamo saputo trovare di meglio che la Teoria della Precessione: La terra, trottola il cui asse si trova inclinato rispetto all’attrazione solare, si comporta come un giroscopio gigantesco che compia un’intera rivoluzione ogni 25.920 anni. E’ assai improbabile che l’antichità abbia potuto comprendere tutto ciò (…) Dobbiamo cercare di vedere le cose con i loro occhi e pensare solo in termini di cinematica (G. de Santillana, H. von Dechend, ibidem). In conclusione: immagin-iamo che tutto sia in movimento, continuo ed eterno, attraverso ciò che chiamiamo il Tempo.
Eppure, i Greci, sempre loro, e per essi Esiodo ha immaginato che in principio fu il Kaos. Ovvero: lo Spazio. Ciò che Platone chiamava “Ricettacolo”. Esattamente prima che noi moderni abbiamo pensato di aver introdotto (noi, per primi; ma non è affatto così, perché gli antichi hanno già detto tutto ciò che noi uomini possiamo dire!) la categoria dello spazio-tempo. Così che: Spazio, Tempo, Spazio-Tempo è tutto ciò che una qualsiasi circostanza può trarre da noi.
Infatti, la circostanza è e non può essere che qualcosa d’indefinito. A tale proposito, suggerisco di sostituire il termine “essere” e ogni sua declinazione temporale con “x”. Il suggerimento non è direttamente mio. Ancora una volta proviene da Giorgio de Santillana, il quale sapientemente annota: E’ certo un buon metodo postulare la nostra ignoranza (e) di una parola folgorante, familiare e tuttavia non compresa, trattandola formalmente come incognita e cercando di definirla dal contesto (che continuamente evolve). Ora, se teniamo la mente “monda di pregiudizi”, come suggeriva Bacone, e cerchiamo di definire x unicamente dal contesto, troveremo che esiste un altro concetto, e solo quello, che può sostituirsi a x senza generare assurdità o contraddizioni, e questo concetto è il puro spazio geometrico stesso (…) (G. de Santillana, Fato antico e fato moderno).
Nel mulino di Amleto, egli saggio così conclude: Nell’Epopea di Erra, Marduk dice a Erra: Quando mi alzai dal mio seggio e lasciai irrompere il diluvio, allora si scardinò il giudizio della Terra e del Cielo … Gli dei che tremavano, gli astri del cielo – mutò la loro posizione e io non li ricondussi indietro. L’epopea di Marduk avrebbe dovuto e dovrebbe servire a tutti noi, come una teoria, un’imitazione, una mimesis; che dovremmo essere capaci di comprendere soltanto nel contesto di un universo che immaginiamo: Stando seduto sul mio seggio osservo noi dei tremanti mutare la posizione di continuo senza potervi fare ritorno alcuno.
Aggiunto il 20/08/2020 20:11 da Angelo Giubileo
Argomento: Storia della Filosofia
Autore: Angelo Giubileo
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