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Lezioni di filosofia ... su Parmenide

 

ESSERE E NULLA NELLA CITTA’ DI ELEA

 

Non si può non rimanere ammirati di fronte allo spettacolo che la città di Elea offre al visitatore attento e non occasionale. Immediatamente balza davanti il poema di Parmenide, filosofo illustre di questa antica città.

       C’è una completa corrispondenza tra il narrato ed il vissuto, camminando fra quei ruderi suggestivi. Fanno bella mostra di sé gli impianti di canalizzazione e razionalizzazione delle acque, il pozzo di Eros (III° sec.a.C.), le fognature, i quartieri meridionali, la bella via del Nume, l’Agorà e la famosa porta Rosa, nome della moglie dell’archeologo che la scoprì l’8/3/’64 e la sistemò nel’71, il prof. Napoli.

       Ultima scoperta, nel’92, la pratica del culto della dea Era, molto più antico di quello tributato alla dea Atena, che soppiantò Era nel IV°sec.

       La città è spaccata in due, lo si vede fisicamente ancora oggi. Là, a sud-est, è la piazza del mercato, con le sue attività e le sue tecniche, popolata da artigiani, medici e studiosi della natura (démos = popolo, contrada, regione, folla, ma anche parte bassa). Democratici, infatti, sono i ceti legati alle tecniche, i nuovi ricchi che premono per avere il controllo politico ed ideologico della città, in modo da poterne controllare anche i meccanismi di distribuzione delle ricchezze. Sono ricchezze fondamentali di tipo agricolo o politico-militare e sono in mano ad un’aristocrazia che non le vuole mollare.

Nell’ambiente ionico ateniese la filosofia naturalistica, quella pratica, quella dei fisiologi ed ilozoisti, riesce a sopraffare la casta aristocratico-sacerdotale, ma in Magna Grecia, verrà a sua volta, sopraffatta, perché qui l’aristocrazia riuscirà a proporre un sapere rinnovato e concorrenziale.

       Parmenide era andato con Zenone ad Atene, verso il 450 a.C., proprio per studiare il fenomeno democratico e per farvi fronte nella sua città; in quella occasione conobbe anche Pericle.

       A nord-est abbiamo l’acropoli (=città alta), dov’è il tempio più importante, quello di Atena, su cui, nel medioevo, è stata innalzata la torre angioina; quel tempio testimonia gli stretti rapporti con Atene, ma vi sono anche i tribunali, gli edifici del senato cittadino. E’ lì che i membri delle grandi famiglie aristocratiche, per antica tradizione, detengono le supreme funzioni sacerdotali, l’amministrazione della giustizia, la gestione del potere. Parmenide fa parte di queste famiglie e com’era consuetudine ha presieduto alla fondazione della città, provvedendo a dettarne le leggi e a regnare su di essa.

       L’aristocrazia è legata al culto di Apollo-Febo (Foibos=Sole). Non è improbabile che il nome della città derivi da Elios = Elea, città del sole. E di fronte c’è Ascea, da a-skià = senza ombra.Tutto il territorio, in effetti, è pieno di sole. C’è però chi la fa derivare anche da elàia = olivo e i riscontri non mancano. Fu detta Velia, invece, dai Romani in onore di una delle alture del colle Palatino: Palatium, Germalus e Velia, dove nacque Roma. Elea venne così gemellata a Roma. E’ fuori dubbio che il centro è il santuario di Apollo, non ancora individuato. Elea è una città solare in tutti i sensi: figurato e reale.

Parmenide fu filosofo ricco di fascino per i suoi contemporanei e per noi che leggiamo i suoi famosi frammenti. E’ stata trovata sul posto una testa che lo raffigura severo e pensoso. Il suo potere è un misto di ricchezza terriera e sapienza sacra, tramandata da generazioni di sacerdoti. Ma Parmenide si rende conto che la vecchia sapienza delfica, di cui è rappresentante, è tramontata e, pur rimanendo legato all’essenziale della tradizione, elabora nuove forme di razionalità teorica. Il mito cui si richiama non è un mito tradizionale, ma funzionale alla filosofia dell’essere-pensiero, l’arché di tutte le cose.

       Lo scontro dovette essere violento se Zenone, suo alunno, arrestato dal tiranno di Elea, un certo Nearco (o Diomedonte, non si sa con sicurezza), preferì mozzarsi la lingua e sputargliela in faccia, anziché rivelare i nomi dei suoi compagni che avevano congiurato contro i democratici, risultati vincitori nelle elezioni. 

 

                   I Frammenti e la città.

 

                   Fr. 1

 

       Nel dualismo insistito di luce e tenebra, due sono i mondi in cui si svolge l’azione: quello delle tenebre in cui sono avvolte le case della notte e quello della luce, dimora degli dei.

1)      Il viaggio è soprannaturale, il che significa cogliere le leggi profonde della realtà, leggi superiori al sapere comune e vicine a quelle divine. Un viaggio, quindi, voluto e guidato dalla divinità.

2)      La verità di cui si parla, si presenta come un sapere divino, a cui il filosofo viene iniziato.

3)  Al w.5 compaiono le fanciulle figlie del sole o Eliadi che fanno da guida verso la conoscenza.

       Numerose le divinità femminili, ma sono personificazioni di una stessa dea.

Nonostante questo legame col mito, il poema non è ascetico o religioso, ma è una ricerca di conoscenza, un cammino verso il sapere. Il tema religioso, dunque, viene trasportato immediatamente nel campo filosofico. La scoperta della verità ha la forma di una narrazione mitologica, poiché deve attestare che il nuovo discorso filosofico ha l’appoggio ed il favore della religione e della tradizione. Nel prosieguo del poema il momento umano e razionale prevarrà, tuttavia, decisamente su quello mitico e religioso. Eppure il filosofo deve avvicinarsi anche al falso sapere comune.

       Pur rifiutando di svelare i simboli mitici per non far svanire quel senso del mistero che li protegge da interpretazioni individualistiche e ne chiude l’apertura di significati multipli, accettiamo l’interpretazione di Sesto Empirico, medico e filosofo greco dello scetticismo, corrente filosofica del 180-220 d.C.           

E’ un viaggio realmente compiuto, lungo la via del Nume verso la porta Rosa, o è immaginario?

Parmenide vuole suggestionare i suoi concittadini o è lui ed essere stato suggestionato da un viaggio extraterrestre?

       Intanto, in polemica con la città di Pompei ci piace pensare che il nome Rosa possa rispecchiare i colori stessi di questa città; è il rosa eleatico come il rosso pompeiano. Il colore della pietra e lo sfondo rosato del sole al tramonto ricreano ogni giorno una tale atmosfera.

 

            Fr. 2  

  

       E’ il frammento più complicato a causa della parola to èon = essere; a chi riferirla? Chi è il soggetto? A prima vista potrebbe essere riferita a “via”, così la prima via, che è, esiste e conduce alla verità; la seconda, che non è, non esiste, è quella falsa e conduce all’errore. Ma i critici non sono d’accordo.

       Una seconda interpretazione intende l’essere come la realtà nel suo senso più generale, cioè la realtà delle cose, tutto quello che esiste, la totalità delle cose. L’essere è il tutto, la “ben rotonda sfera”. Ma qui ci allontaniamo dal testo letterale, introducendo sensi che non esistono nel poema.

Una terza interpretazione è quella di G. Calogero, che preferisce intendere l’essere come il presupposto di due realtà diverse, il pensiero ed il linguaggio e tale affermazione è garantita dal fr.3, dove essere e pensiero sono intesi come identici. Tale posizione è pure arricchita dal fr.7-8, dove compaiono le definizioni dell’essere.

       Anche qui, però, le complicazioni non mancano. Si sfocia in una confusione di piani. Il senso predicativo del verbo essere non viene distinto dal senso esistenziale e così piano logico e piano ontologico diventano identici ed equivoci. Forse al tempo di Parmenide non era necessario distinguere i due piani, ma già nel IV° sec. Platone ed Aristotele opereranno tale distinzione. Sarà il sofista Gorgia, poi, a sottolineare tutte le conseguenze negative che deriverebbero proprio dal non aver distinto quei due piani.

       Una volta precisate le caratteristiche logiche e quelle ontologiche, sparisce la rigida contrapposizione tra essere e non-essere, per Platone il non-essere sarà l’essere-altro dall’essere e per Aristotele l’essere potrà dirsi in tanti modi.

 

                   Fr. 6

 

       E’ qui indicata anche una terza via, quella dei “mortali dalla doppia testa”: quelli che affermano l’esistenza dell’essere e del non-essere insieme, generando così una confusione totale. In realtà i contrari - la dòxa, l’opinione - sono inglobati all’interno di un orizzonte più vasto: quello dell’essere.

       Vi è allora pieno accordo con Eraclito, l’altro filosofo aristocratico, anche se in questo frammento Parmenide critica proprio lui. Per entrambi la Verità è solo su base razionale: “seguite non me, ma il Logos” dirà Eraclito. Ora il Logos di Eraclito è il passaggio fra le coppie dei contrari, mentre il Logos di Parmenide è negazione di quel passaggio, è affermazione della staticità dei contrari, perché entrambi nel tutto.         

                   Un poema al femminile.

 

       Facendo riferimento al famoso mito di Edipo ed ai grandi tragici greci che lo riportano, scopriamo che la dea è la rappresentante dell’unità e molteplicità insieme: una divinità al femminile che conferma l’interpretazione matrilineare della società umana all’origine della sua formazione. Una volta insomma comandavano le donne e non gli uomini.

       Il mito di Edipo, infatti, secondo psicanalisti critici di Freud, non è tanto il simbolo dell’amore incestuoso fra madre e figlio, madre che Edipo non conosce e che riceve in premio, come moglie, dopo aver salvato la città dalla Sfinge. Anzi proprio per questo, quando l’oracolo di Delfi rivelerà che la pestilenza a Tebe è  causata dal suo incesto inconsapevole, si accecherà in un secondo tempo e non subito,.

       Il matrimonio Edipo-Giocasta sarebbe un elemento secondario; la verità di questo mito, invece, consisterebbe in un atto di ribellione del figlio femminista al padre Laio maschilista, per prendergli il posto e rubargli tutti i privilegi, che Laio aveva, a sua volta, rubato alle donne.

       Bisogna tener anche presente che Edipo non pensava di fare un atto contro il padre, perché credeva che i suoi veri genitori fossero Perìbea e Pòlibo re di Corinto. Essi lo avevano strappato alla morte certa sul monte Citerione, dove era stato esposto con le caviglie trafitte per impedirgli la fuga, perciò il suo nome ha il significato di “piedi gonfi”.

       Il vero problema è il conflitto tra padre e figlio, presente in tutte e tre le tragedie di Sofocle: “Edipo re”, “Edipo a Colono” e “Antigone”. Edipo, sebbene uomo, ha una mentalità matriarcale e ne è il rappresentante. Infatti alla fine della tragedia “Edipo a Colono”, ritorna presso divinità femminili, per morire vicino a dee infernali. La linea matriarcale ha un’impostazione diversa da quella patriarcale, per cui dobbiamo presupporre che anche la società era diversa da come si presenta adesso. I princìpi della linea matriarcale si fondano sui legami di sangue, gli uomini sono tutti uguali, la vita umana e l’amore sono tenuti nella stessa considerazione. Quella patriarcale, invece, si regola sui legami: marito/moglie, governante/governato, ordine/obbedienza. Siamo  in un regime gerarchico.

       Anche Antigone la sorella-figlia di Edipo, rappresenta la linea matriarcale, essa difende e sorregge il padre sventurato, incarna la solidarietà umana, il principio dell’amore materno che tutto abbraccia e supera, anche aldilà delle leggi scritte, perché vi sono leggi naturali superiori, che vanno rispettate prima di tutte le altre. (Dopo che i fratelli Eteocle e Polinice morirono nel duello che li opponeva l’un l’altro, Antigone infranse il divieto, imposto dal tiranno Creonte, fratello di Giocasta, diventato re di Tebe abusivamente; divieto che imponeva di non dare sepoltura al corpo di colui che aveva combattuto contro la propria città, cioè Polinice. Condannata da Creonte ad essere murata viva, Antigone si uccise.).

       Ora dobbiamo chiederci, perché Sofocle nelle sue tragedie simpatizza per la linea matriarcale? Con Parmenide abbiamo un’interessante conferma della storicità della realtà di questa interpretazione. Del resto il culto di Era, che abbiamo ricordato sopra, indica la chiara tendenza matriarcale della città di Elea. Era o Giunone (per i Romani), figlia di Crono e Rea, sorella e sposa di Zeus, signora dell’Olimpo, rappresenta proprio il tipo di femminilità che compendia i tratti aristocratico-guerrieri e il ruolo protettrice della donna. Elemento essenziale del suo culto era la celebrazione delle “nozze sacre” con Zeus, in cui erano trasposti i vari aspetti del costume matrimoniale.

       La mentalità matriarcale, inoltre, è considerata, da Parmenide, superiore e più equilibrata di quella patriarcale, perciò è adoperata per attaccare la religiosità olimpica, maschilista, nel tentativo di demitizzare le credenze tradizionali, perché la religiosità olimpica tendeva a moltiplicare gli dei, mentre la dea parmenidea è una. Siccome ogni forma del divino corrisponde ad ogni aspetto della realtà, anche nel reale si moltiplicherebbero gli aspetti in contraddizione fra loro. La conseguenza sarebbe la perdita di unità del reale e del divino. Ecco allora la dea assumere una molteplicità di nomi e di aspetti, perché ricondotti all’unità, nel rappresentare alcuni momenti della stessa divinità.

                                                          

(Pubblicato su Cronache del Mezzoggiorno - 19/11/200)

 




Aggiunto il 20/07/2015 08:13 da Benito Marino

Argomento: Filosofia antica

Autore: Benito Marino



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