L’estetica del “volto che fugge” in Proust e in Montale
di Alessandro Montagna, dottore in Filosofia
“ L’anima può parlare con gli occhi e baciare con lo sguardo” [G. A. Becquer]
Nel presente articolo si tenterà di ricostruire ed erigere una teoria estetica ed etica del volto, in quanto sorta di elemento di valore estetico, ma soprattutto di rilevanza etica, come ci ricordano le riflessioni di Emmanuel Lévinas.
Di fronte al volto altrui l’io comprende l’alterità e la trascendenza dell’altra persona e ne ha rispetto in quanto dietro a quel volto si nasconde la vita intera di un essere umano che ha provato sensazioni, emozioni, che possiede ricordi e aspettative e sogni verso il futuro. Ogni giorno alimenta e contribuisce alla formazione della personalità di ognuno e ne fa essere una individualità unica e irripetibile.
Il volto dimostra la sua grande evocatività filosofica e vedremo anche artistico-letteraria soprattutto perché si tratta della parte del nostro corpo più personale e più differente da individuo ad individuo. Non c’è, quindi, da stupirsi se esso viene scelto quale mediatore tra l’anima e il corpo. Nel volto non vi sono tracce del nostro vissuto, ma idealmente il volto è colui che ci fa comprendere i valori del rispetto di un’individualità differente dalla nostra, ma che al pari di noi, possiede una vita propria che non va calpestata. Nell’antropologia filosofica proposta da Max Scheler ogni persona si trova al centro di un proprio universo, che può entrare in comunicazione con gli altri universi nella consapevolezza della loro alterità.
Negli esempi che leggeremo, tratti dalla letteratura, si noterà che l’attenzione che i rispettivi autori, Proust e Montale, è rivolta alla descrizione dell’emozione dello sguardo della persona amata. Tuttavia, essi ci possono permettere di comprendere l’importanza di questa tematica per la costituzione di una estetica e di un’etica del rispetto a partire dal volto. E’ interessante ricordare come il ruolo salvifico della sguardo sia un topos letterario già presente ad esempio nella visione della “donna angelo” presente nelle opere degli stilnovisti.
Dalla lettura di questi brani ci sarà possibile trarre una generalizzazione nei confronti del ruolo del percepire un volto di un’altra persona, con l’annessa speranza e con il conforto del ricordo e nel riconoscimento del valore intrinseco dell’altro degno di rispetto come noi.
Marcel Proust nella sua monumentale opera Alla ricerca del tempo perduto, avverte il bisogno di trattenere in memoria i volti delle fanciulle da lui incontrate casualmente (spesso segue solo l’incontro degli sguardi). Si comprende qui la poeticità del vissuto e del mondo dei ricordi per cui ragazze che probabilmente l’io narrante non incontrerà più nella sua vita, spesso per il fatto che il luogo dell’incontro è una cittadina di villeggiatura, vengono considerate come la massima fonte preziosa di sentimenti. Proust si chiede se nel mistero di quel volto, dalle abitudini e dai vissuti così lontani dai suoi verrà mai svelato a lui, se quei frammenti di vita presenti in lei saranno mai conosciuti o compresi da lui.
Proust ne All’ombra delle fanciulle in fiore (secondo romanzo contenuto nella Recherche) afferma che noi misuriamo i volti “ma da pittori, non da geometri” M. Proust, Alla ricerca del tempo perduto, Einaudi 2008, p. 700]. L’ambito quantitativo viene perciò abolito, in favore di una squisita e profonda dimensione di valenza poetica. A volte il volto sparisce poco dopo l’epifanica visione e all’io narrante non resta altro che osservarlo mentre “fugge” dietro un muro di un edificio. All’io narrante sembra di rimanere relegato in una “claustrazione” che non gli permette di conoscere una vita altrui, che altrimenti, se la vita avesse preso un’altra direzione, un altro bivio, un’altra “vita parallela” come scriverebbe Bodei, poteva magari intrecciarsi con la sua. Nell’opera proustiana questa magia del volto si può riscontrare in diversi punti come quello in questa sede riportato:
“Tutt’a un tratto mi ricordai della giovane bionda […] E forse anche non v’è atto più libero, perché è ancora sprovvisto di abitudine, di quella specie di mania mentale che, nell’amore, favorisce il rinascere esclusivo dell’immagine di una data persona” [M. Proust, op. cit., p. 613].
Risulta chiaramente comprensibile come pur dopo una dimenticanza, talvolta il volto conserva la sua posizione in memoria con la relativa possibilità di riemergere alla coscienza. Il contesto della frase di Proust riceve senso nella prospettiva bergsoniana secondo la quale l’atto libero è la manifestazione massima della “discesa” di parte della memoria pura più profonda al momento della percezione presente (cfr. Saggio sui dati immediati della coscienza e Materia e memoria). Il volto è salvo come salvi sono potenzialmente tutti i nostri ricordi nell’ottica proustiana: sarà il caso a decidere se ci riapproprieremo di un dato evento oppure no. Ad ogni modo, nell’atto della rimembranza viene conservata tutta la potente carica evocativa del momento del passato, pronto ad inebriarci e a farci provare forti emozioni.
Il ruolo esistenziale del volto assume del tutto una dimensione che coinvolge il valore del ricordo sempre caro al letterato francese.
Ci è possibile instaurare un filo rosso tra le considerazioni proustiane sopra esposte e le considerazioni sulla poesia Non recidere forbice quel volto del poeta italiano Eugenio Montale.
In questa poesia, Montale supplica, come in preghiera, la memoria affinché salvi i preziosi ricordi, preservando il volto della donna amata dall’indifferente forbice dell’oblio, cinico nei confronti delle immagini più care al poeta. L’amata è Clizia, una sorta di donna angelo venuta in terra per fornire un segno di una possibile donazione di senso al mondo.
Il timore del poeta riguarda la sua consapevolezza del fatto che la memoria “si sfolla” lasciando dietro di sé solo una sorta di nebbia. Il freddo dell’oblio che cancella la calda immagine salvifica della donna dimostra tutta la sua portata nella seconda strofa. Il poeta, ferito dalla perdita dei suoi ricordi si appresta, mesto, a continuare la sua esistenza, ormai escluso dall’orizzonte di senso, e senza punti di riferimento.
Da quello che abbiamo potuto considerare diviene comprensibile la rilevazione del fatto che nella concezione proustiana della memoria il ricordo è sempre possibile e nulla idealmente incontra un vero e proprio oblio, mentre in quella montaliana, più pessimista riguardo alla permanenza della passato in memoria, il ricordo dimostra la sua precarietà ed è sempre in procinto di perdere frammenti costitutivi.
La dimensione del volto riceve senso e viene ripresa nella filosofia morale di Emmanuel Lévinas. Il filosofo sostiene che il volto della persona sia la cifra della sua alterità e della sua trascendenza. Il volto emana una luce che invoca il rispetto dinnanzi all’altro che si trova dinnanzi. Di fronte allo sguardo, l’individuo “io” non può non riconoscere il valore del “tu” (di cui deve avere rispetto), differente pur nella omologia di caratteri distintivi della vita, come ricordi, pensieri e aspettative. Dietro ogni volto si cela una vita composta di questi elementi fondamentali e distintivi. Per questo si delinea una sorta di parallelismo tra esterno personale e interno personale che fanno del volto un elemento corporeo a metà tra fisico e psichico. Ogni volto rappresenta una sorta di universo carico di significati, vissuti e pensieri. In tempi più recenti, il filosofo Virginio Melchiorre ha ripreso arricchito il ruolo del volto di caratteri religiosi e, perfino, conoscitivi. Come non lasciare spazio ad un’altra considerazione di Proust per spiegare quest’ultimo aspetto. Lo sguardo della donna amata, quasi come fosse un altro universo o un altro pianeta, sta osservando l’io narrante che chiosa: “Dal grembo di quale universo mi distingueva?” [Proust, op. cit, p. 593]. Poi ha modo di ribadire come “il significato degli occhi che […] avevano incrociato i miei sguardi come raggi di un altro universo” [Proust, op. cit., p. 703].
La riflessione del filosofo lituano ci rimanda ad una considerazione inerente la morale, giacché gli studi di molti psicologi mettono in luce come lo sguardo altrui responsabilizzi l’individuo. Effettivamente, purtroppo, coloro che delinquono cercano proprio il ricorso all’esonero psicologico della deresponsabilizzazione, indossando per esempio occhiali scuri o mascherandosi dietro un passamontagna compiendo così le loro azioni scorrette evitando lo sguardo dell’altra persona, testimonianza di invito alla responsabilità etico-civile.
Per concludere, lo sguardo da percezione della materia si risolve in una sguardo con gli occhi dell’anima sull’essere autentico, invisibile e dai correlati etici.
Bibliografia
E. Lévinas, Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità, Jaca Book, Milano 1990
E. Montale, Non recidere, forbice, quel volto, (raccolta Le occasioni), in Tutte le poesie, Mondadori, Milano 1984
M. Proust, Alla ricerca del tempo perduto, Einaudi, Torino 2008
©2013 Alessandro Montagna
Aggiunto il 23/08/2013 10:50 da Alessandro Montagna
Argomento: Estetica
Autore: Alessandro Montagna
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