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Le Confessioni di S. Agostino

                                                        Le Confessioni di S. Agostino

 

Et inquietum est cor nostrum donec requiescat in te: “e inquieto è il nostro cuore fino a quando non riposa in te”.. Con questa frase S. Agostino inizia le sue riflessioni nelle Confessioni, dando vita alla prima grande autobiografia della letteratura mondiale. Perché in quest’opera, scritta alla fine del IV secolo, Agostino si racconta al lettore, descrivendo di fronte a Dio le tappe della sua conversione, dall’adolescenza alla vita depravata, dalla scoperta della filosofia all’adesione al manicheismo, fino al battesimo da parte del vescovo di Milano S. Ambrogio e alla sua nomina a vescovo di Ippona. I 13 libri che la compongono sono, dunque, la storia della sua vita, ma anche della sua salvezza, con l’approdo finale della ricerca verso la Grazia divina.

In questo senso non vi è contraddizione, come qualcuno ha voluto vedere, tra i primi nove libri, di taglio autobiografico, e quelli successivi di impostazione filosofica e teologica. Questi ultimi, infatti, non sono che la logica prosecuzione dei primi: il racconto biografico, gli episodi di vita dissoluta, diventano narrazione di salvezza operata dalla Grazia divina che, come ha creato il mondo ex nihilo, così crea in Agostino l’uomo nuovo, sottraendolo dal peccato e portandolo nel porto sicuro della “quiete” divina.

Ed è proprio questa inquietudine dell’uomo, che attanaglia il suo cuore, ad essere la protagonista dell’opera agostiniana. E’ una inquietudine esistenziale, una ricerca “in sé e di sé”, stimolata, quasi provocata, da Dio stesso perché la creatura, scoprendo faticosamente in sé l’immagine del suo creatore, possa a lui ricongiungersi e in lui requiescat. Così Agostino:

 

L’uomo che allora ero: tutto furori e sospiri e pianti e turbamenti, senza pace e senza equilibrio. E mi portavo dietro l’anima mutilata e sanguinante, che ormai non ne poteva più di farsi trascinare in giro, e non trovavo modo di metterla  giù, da qualche parte. No, non trovava pace, non nella frescura dei boschi, negli svaghi e nei canti, non nei giardini profumati o nell’eleganza delle feste, non nei piaceri dell’amore e del sonno, neppure infine nei libri e nella poesia [1].

 

In questo cammino l’uomo scopre le sue incapacità, il suo costante cadere nel peccato, la limitatezza dei suoi sforzi, ma, al tempo stesso, incontra l’onnipotenza e la Grazia divina che, sole, sono in grado di salvarlo e di indirizzare il suo amore verso Dio che è il suo stesso bene. Un amore, dunque, che per Agostino, è essenzialmente “dono” di Dio. Sero te amavi, egli dice, “tardi ti ho amato”, e questo ritardo spiega proprio il suo concetto. Ogni amore vero è sempre un amore “in ritardo” perché è il risultato di un dono, un dono quasi sempre immeritato.

E qui la tragicità dell’incapacità umana di perseguire il proprio bene, la drammaticità dell’esistenza consumata in una ricerca che sembra non vedere approdi all’orizzonte, trova pace e quiete nel grande amore di Dio che perdona e chiama a sé.

La modernità di Agostino sta proprio nel racconto di questo passaggio. L’uomo di Agostino, cioè se stesso, vive e soffre la frantumazione del proprio “io”, il dolore esistenziale. Egli fa esperienza, potremmo dire, di tutta la tragicità umana, frutto della sua incompletezza e della sua limitatezza che lo fanno cadere nel peccato.

Ma questa limitatezza non lo annienta. L’uomo delle Confessioni saprà trovare anche in se stesso, pur se provocate dalla Grazia, le ragioni, prima inconsapevoli, di una ricerca voluta, sì, da Dio, ma nella quale egli ha un ruolo, quello di toccare con mano il suo dolore e quello dei suoi simili, un “male di vivere” ante litteram, riconoscendovi l’intervento divino e la presenza di un amore che attrae e perdona:

 

Ecco, eri dentro di me tu, e io fuori: fuori di me ti cercavo, e informe nella mia irruenza mi gettavo su queste belle forme che tu hai dato alle cose. Eri con me, io non ero con te. Le cose mi tenevano lontano, le cose che non ci sarebbero se non fossero in te. Mi hai chiamato, e il tuo grido ha lacerato la mia sordità; hai lanciato segnali di luce e il tuo splendore ha fugato la mia cecità, ti sei effuso in essenza fragrante e ti ho aspirato e mi manca il respiro se mi manchi, ho conosciuto il tuo sapore e ora ho fame e sete, mi hai sfiorato e mi sono incendiato per la tua pace[2].

 

Anche l’esperienza della morte fa parte di questo cammino verso Dio. Così descrive, in pagine memorabili, la morte dell’amico:

 

La tristezza calò buia sul cuore, e dovunque guardavo era la morte. E il mio paese divenne un patibolo, e la casa paterna m’era penosa e strana, e tutto quello che avevo condiviso con lui, senza di lui si convertiva in uno strazio enorme. I miei occhi lo cercavano invano dappertutto e odiavo tutte le cose perché non lo tenevano fra loro e non potevano più dirmi “eccolo, viene”, come quando era in vita e mi mancava. Ero divenuto un enigma angoscioso a me stesso e chiedevo a quest’anima perché fosse triste e mi opprimesse tanto e lei non sapeva rispondermi. E se dicevo: “Spera in Dio” lei non ubbidiva, giustamente, perché quella persona concreta che le era tanto cara e che aveva perduto era migliore e più vera del fantasma in cui le si ordinava di sperare. Solo il pianto mi era gradito e aveva preso il posto del mio amico fra i piaceri dell’anima. […]  Ero stupito che vivessero ancora gli altri mortali, quando era morto lui che avevo amato come fosse immortale, a ancor più ero stupito di vivere io stesso, che ero un altro lui, quando lui era morto. Qualcuno ha detto bene del suo amico, che era metà dell’anima sua. Io sentivo infatti che la mia e la sua erano un’anima sola in due corpi: perciò la vita mi faceva orrore – io non volevo vivere a metà – e perciò mi faceva paura la morte, con cui sarebbe morto ormai del tutto anche lui, lui che avevo molto amato[3].

 

Qui c’è veramente tutta l’attualità di Agostino. Ci sono il dolore e l’angoscia della vita e della morte provate da ciascuno di noi. “La tristezza calò buia sul cuore”, nel testo latino “Contenebratum est cor meum”. C’è, in questa espressione, tutta la drammaticità dell’esperienza umana nella quale Dio stesso sembra essere assente, apparire un fantasma, e l’anima stessa di Agostino sembra capirlo, non ubbidendo a sperare in Dio. Ma non è così. Perché anche in quel dolore, anche in quel cuore dove è sceso il buio, Dio c’è, e l’uomo prima o poi lo scoprirà. Di qui le insistenti domande a Dio stesso nelle quali prendono corpo contemporaneamente dubbi e certezze:

 

E ora, Signore, tutto questo è ormai passato e il tempo ha lenito la mia ferita. Posso sapere da te che sei la verità perché il pianto sia dolce a chi è infelice, posso accostare alla tua bocca l’orecchio del cuore, perché tu me lo dica? O Forse tu, per quanto onnipresente, hai respinto lontano la nostra tristezza, e te ne resti in te stesso mentre noi rotoliamo di prova in prova? E tuttavia se non potessimo piangere alle tue orecchie, non resterebbe nulla della nostra speranza. Da dove viene questo frutto delicato dell’amore di vivere, che si coglie nel pianto e nei sospiri, nei lamenti e nei gemiti? Forse è nella speranza che tu ci ascolti, la dolcezza? Nelle preghiere, è giusto che sia così, perché il desiderio che ti raggiungano ne è parte costitutiva. Ma nel dolore di una cosa perduta e nel lutto che allora mi opprimeva? Certo non speravo di farlo rivivere e non chiedevo questo fra le lacrime: mi limitavo al dolore e al pianto. Ero infelice e avevo perduto la mia gioia. Forse anche il pianto è cosa amara, e ci solleva solo in confronto alla nausea delle cose godute un tempo, e ora aborrite?[4].

 

Sono qui sinteticamente richiamati tutti i gridi di dolore che l’umanità eleva verso l’alto, al cospetto di un Dio che sembra aver respinto lontano la tristezza degli uomini. Quanta attualità in queste parole! Quanta poesia c’è in quel “frutto delicato dell’amore di vivere, che si coglie nel pianto e nei sospiri, nei lamenti e nei gemiti”!. Una tragicità esistenziale che passa dalla vita alla morte, e dalla morte alla vita, in cui “la vita perduta dei morti […] si fa morte dei vivi”:

 

Ero così infelice, eppure più del mio amico avevo cara la mia stessa vita infelice. Certo, desideravo che mutasse, ma non di perderla in vece sua: non so se avrei accettato anche soltanto di morire per lui, […]. Ma in me era nato come un sentimento contrario a questo, e la noia di vivere m’era non meno opprimente della paura di morire[5].

 

Dall’amicizia degli uomini all’amicizia di Dio. Questo, dunque, il passaggio che si prospetta all’umanità straziata dal dolore della perdita dei propri affetti e dalla noia di vivere:

 

Beato chi ama te e ha te per amico e nemici per te. Il solo che non perde chi gli è caro è quello al quale tutti sono cari, in Uno che non si perde. E questo chi è se non il nostro Dio, che fece il cielo e la terra e li riempie, e riempendoli li crea. Nessuno perde te a meno che ti lasci, e dove va, dove fugge, se non dal tuo sorriso al tuo furore. Dovunque in fondo alla sua pena troverà la tua legge. E la tua legge è verità, e la verità sei tu[6].

 

Un dio, dunque, quello di Agostino, non astratto, non lontano dalle vicende delle sue creature, ma presente in esse, in tutta l’esperienza esistenziale, dal peccato al dolore. Ecco perché Agostino parla di Dio attraverso la sua stessa vita, perché in essa Dio è presente e nella sua drammaticità esistenziale l’uomo lo incontra ogni giorno. Un Dio, perciò, che divide con le sue creature ogni spasimo della loro esistenza, fino a farsi uomo per la loro salvezza e a condividerne persino l’esperienza della morte.

Ecco perché non si avrà pace fino a quando si tornerà a Dio, superando la caducità delle cose, superando il tempo stesso, vedendo ogni cosa nella giusta luce:

 

Da qualunque parte si volti, è in un dolore che si imbatte l’anima dell’uomo: dovunque tranne che in te, perfino se fissa lo sguardo su ciò che di bello esiste fuori di te e di se stessa. E nulla di bello esisterebbe se non venisse da te. Ciò che nasce e declina, nascendo quasi comincia a essere e cresce per giungere a compiutezza, e quando l’ha toccata invecchia e muore. Non tutto invecchia, ma ogni cosa muore. Perciò nel nascere, nella tensione a esistere, le cose più in fretta crescono all’essere e più si affrettano a non essere. Questa è la loro misura[7].

 

Ma poiché ogni cosa viene da Dio, queste non vanno disprezzate ma lette alla luce della sua volontà:

 

Affida alla verità tutto quella che dalla verità ti viene, e non perderai nulla, e ciò che era appassito in te rifiorirà e saranno guarite le tue malinconie […]. Se sono i corpi a piacerti tu ringraziane Dio e raddrizza il tuo amore rivolgendolo al loro artefice: evita che nel tuo piacere sia tu a spiacere. Se a piacerti sono le anime, amale in Dio, perché anche loro sono mutevoli e in lui si fissano e son fatte stabili: altrimenti se ne andrebbero a morire[8].

 

Alla fine della nostra esistenza, ci dice Agostino, dopo aver compreso l’amore di Dio, avremo anche capito che “se qualche opera nostra è buona” essa è un dono di Dio. Allora potremo finalmente rivolgerci a lui con queste parole:

 

Signore Dio, donaci la pace – perché di tutto ci hai provveduti. La pace del riposo, la pace del sabato, la pace senza sera. Perché tutto quest’ordine bellissimo di cose molto buone, colma la sua misura, passerà: e anche per loro sarà stato mattino, e poi sera. […]. E anche noi compiute le nostre opere – molto buone perché sono tuoi doni – riposeremo in te nel sabato della vita eterna. E allora tu riposerai in noi, così come ora operi in noi: e noi saremo strumenti del tuo riposo, come ora lo siamo delle tue opere[9].


[1] S. Agostino, Le Confessioni, IV, 7, 12.

[2] Ivi, X, 27, 38.

[3] Ivi, IV, 4, 9; 6, 11.

[4] Ivi, IV, 5, 10

[5] Ivi, IV, 6, 11

[6] Ivi, IV, 9, 14.

[7] Ivi, IV, 10, 15.

[8] Ivi, IV, 11, 16; 12, 18.

[9] Ivi, XIII, 35, 50; 36, 51; 37, 52.




Aggiunto il 18/11/2015 12:42 da Michele Strazza

Argomento: Filosofia antica

Autore: Michele Strazza



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