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L'autenticita' esistenziale nella riflessione di Søren Kierkegaard

Il principale obiettivo della filosofia kierkegaardiana è offrire preziosi spunti di riflessione riguardo all’esperienza soggettiva dell'uomo, attraverso uno scavo interiore nella propria esistenza. Come Socrate ha esercitato l’arte maieutica per aiutare i suoi interlocutori a trovare autonomamente la verità, anche Kierkegaard non ha un sapere già formato da diffondere ma richiama i suoi lettori a prestare attenzione a se stessi, cercando di «aiutare le folle ad attraversare questo passo del “Singolo”». In contrapposizione alle vuote e astratte argomentazioni dei filosofi sistematici, Kierkegaard pone in risalto ed elogia chi agisce e vive davvero in sintonia con ciò che crede, poco curandosi di essere isolato o impopolare1.

Dal momento che la «soggettività è essenzialmente passione», essa non si lascia pensare dalla ragione dialettica e chiunque abbia la pretesa di imbrigliare tutta la complessità dell'esistenza dentro le maglie oppressive di un sistema, è come colui che «promette tutto» ma «non acchiappa nulla» perché rinuncia alla propria «passione infinitamente interessata», nascondendosi meschinamente dietro artificiose impalcature concettuali. In proporzione del grado di astrazione del proprio pensiero ci si sottrae, infatti, dal fatto di esistere, finendo «a perder tempo in fantasticherie senza fine» che altro non sono se non «falsità sulla bocca di un esistente»: solo una verità che impegni l'integralità della persona e che si traduca in vita e azione, garantisce il compimento dell'autenticità esistenziale, più importante di qualsiasi ricerca erudita o accademica2.

La principale accusa che Kierkegaard muove ai “professori” della speculazione accademica è di ridurre la comprensione dell'esistenza alla lettura di un libro o all'osservazione distaccata ed imparziale di un oggetto. Se i filosofi sistematici, in ossequio alle posizioni hegeliane, tentano di rimuovere razionalmente le contraddizioni della dimensione esistenziale occupandosi delle grandi strutture socio-politiche della Storia, il vero pensatore mette al centro della propria riflessione l’io singolo del soggetto umano. Il valore di una persona non si misura con la cultura o il sapere, ma attraverso il grado di maturità dimostrato nelle scelte che essa è chiamata a compiere con tutta l'energia e la serietà di cui è capace: l'«aut aut non indica la scelta tra il bene ed il male» bensì «la scelta colla quale ci si sottopone o non ci si sottopone al contrasto di bene e male» ovvero «sotto quale punto di vista si voglia considerare tutta l'esistenza e vivere»3. Tale processo purifica l'interiorità spirituale di ogni soggetto cosicché anche «l'uomo più modesto» possa «rapportarsi assolutamente alla spiritualità del tutto come il genio»: per diventare autentico, l’io deve, infatti, scegliersi come individuo particolare con tutti i talenti e i limiti che lo caratterizzano in modo unico e irripetibile, a prescindere dai “risultati” che egli possa raggiungere nella sua dimensione storica4. Se «in ogni genere animale la specie è la cosa più alta» e «l’individuo è sempre la cosa che di continuo sorge e scompare» come «realtà precaria», nell'umanità, invece, «l’individuo è più alto del genere», in quanto portatore di un'istanza metaempirica che corrisponde alla propria “vocazione” personale5.

Una volta compiuto il passaggio da una dimensione esistenziale ad un’altra, come Kierkegaard delinea magistralmente nella celebre concezione dei tre “stadi esistenziali” (estetico, etico e religioso), non è più possibile tornare indietro. Chi sceglie l’estetica dopo aver vissuto l’etica, non vive più esteticamente ma “in-eticamente”, cioè immoralmente, perché tenta di sottrarsi al giudizio etico da cui, però, non può ormai più liberarsi; allo stesso modo, l’uomo che perde il coraggio di esistere nel “paradosso” cristiano, regredisce alla spiritualità pagana restando sempre uno spirito religioso6. Ogni autentica scelta è accompagnata dal sentimento dell'angoscia, generato dalla possibilità infinita della nullificazione di se stessi e del mondo, in quanto realtà prive di autonoma consistenza ontologica: il pensiero kierkegaardiano assume così una direzione anti-umanistica e anti-mondana, che disdegna l'unilateralità degli espedienti propri delle prime due dimensioni esistenziali, quella estetica, legata alla ricerca del piacere, e quella etica, incentrata sul senso del dovere, per identificare solo nell'uomo religioso la possibilità di vincere le illusioni del mondo nell’anticipazione della fede.

Affidandosi totalmente alla realtà di un Altro, del Maestro (Gesù Cristo) che chiede dedizione totale e incondizionata alla propria Causa, è possibile superare l'insanabile contraddizione che si pone fra la passione infinita dell’interiorità e l’incertezza oggettiva della realtà: il cristianesimo che ne scaturisce non è una dottrina speculativa ma una comunicazione esistenziale in costante riferimento al paradosso di Cristo - Dio - Uomo, motivo di turbamento e scandalo per la ragione umana. Il messaggio cristiano richiede un faticoso movimento dialettico più accessibile all’uomo semplice e ingenuo che non a quello acculturato e sapiente: esso assomiglia all’arte maieutica in cui il Maestro guida il discepolo a generare per proprio conto la verità, senza impartire precetti esteriori alla coscienza che rischiano solo di confondere l'animo impegnato nella ricerca della salvezza7. Ciò non comporta che la fede religiosa debba essere in antitesi alla meditazione filosofica: come «la dialettica del problema esige passione di pensiero», infatti, allo stesso modo non è possibile «credere nessuna assurdità contro l'intelligenza»8.

Seguendo le orme di Cristo, ogni uomo compie la propria vocazione di «testimone della verità» in “carattere”, con l’impegno, cioè, di un continuo rapporto nei confronti di Dio, lontano da ogni forma di “cristianità stabilita”. La verità cristiana esige il rischio della fede, offrendo la speranza della salvezza solo a costo di perdere qualsiasi garanzia obiettiva: chi intenda riposare nell’autorità di un testo (sia pur il Vangelo), di un'istituzione (sia pur questa la Chiesa) o di una tradizione (sia pur quella cristiana), è destinato a cadere preda della superstizione, del fanatismo o del conformismo. Il cristianesimo è intrinsecamente dinamico in quanto sconfessa qualsiasi tipo di apologetica incentrata su dimensioni ecclesiali, destinate inevitabilmente a degenerare in demistificazioni religiose dominate dall'anonimato del “numero”. La coscienza autenticamente cristiana vive una religiosità attiva che continuamente riscatta e trasfigura ogni forma di negatività in una positività finale e redentrice, nella consapevolezza di non potersi mai “accomodare” in questo mondo, come sanno bene i «viaggiatori in missione che hanno fretta di andarsene il più presto possibile, per fare ritorno a casa»9.

La tensione che Kierkegaard sottolinea tra spirito e legge, non mira a distruggere la dimensione etica, quanto piuttosto a provocarne il superamento nel «movimento della fede», attraverso il quale l’uomo spirituale è chiamato a rinunciare momentaneamente al finito per poi riacquisirlo trasfigurato dalla grazia divina. E’ questo il caso del “cavaliere della fede” per antonomasia, Abramo, che è disposto ad offrire quanto ha di più caro, l’amato figlio Isacco, per poi riottenerlo nell’«infinita rassegnazione» dell’«amore eterno». L’uomo che mantiene salda la propria fiducia in Dio non può rimanere prigioniero di nessuna relatività mondana ed è pronto a sacrificare ogni aspetto della quotidianità in un'ottica di redenzione eterna: egli assomiglia a un «ballerino» che non manca di «elevazione», anche se ogni volta che ricade a terra non riesce a ritrovare subito l'equilibrio sulle proprie gambe ma vacilla un poco, in un’esitazione che mostra quanto sia estraneo al mondo. Il «cavaliere della fede» non arretra davanti alle contraddizioni che incontra nella propria esperienza ma, anzi, le affronta coraggiosamente, riuscendo così a esprimere «lo slancio sublime nella più comune andatura» e a riacquistare «il finito con la pienezza di godimento di chi non ha mai conosciuto nulla di più elevato».

La prospettiva religiosa kierkegaardiana “brucia” il mondo della carne saltando nell’abisso della trascendenza con la piena fiducia in un Dio a cui tutto è possibile, anche infrangere le leggi del mondo fisico e morale, oltre la ragione che vale solo come “agente di cambio del finito”. La sconfessione delle istanze mondane e razionali si compie sempre dall’alto, mai dal basso, non a favore, cioè, di un’emotività istantanea che cerchi comodi sotterfugi per sottrarsi alle responsabilità dovute, ma come apertura assoluta all'infinito che porti l'esistenza del singolo in prossimità di Dio, fino al limite estremo delle proprie possibilità10. La realizzazione di questo «compito» è, tuttavia, fortemente ostacolato dalle molte “astuzie” che il mondo pone in essere per far trionfare le rappresentazioni collettive, anonime e banali, contro ogni tentativo di mettere in atto la “vocazione” personale di cui ogni soggetto umano è portatore11.

L'autentico cristianesimo evangelico è quello dei martiri, dei “testimoni della verità”, che non trova corrispondenze con quello dei funzionari e dei burocrati “borghesi” che utilizzano il termine cristiano come un’etichetta o un distintivo di ipocrita onorabilità. Gli obiettivi che l'uomo “comune” persegue prioritariamente (benessere, successo, potere), sono cristianamente da respingere in quanto la «vita quaggiù» costituisce solo «un tempo di prova» da sopportare nell'«abnegazione» e nel «rinunciare a se stessi» per ottenere la salvezza eterna. Il messaggio del Nuovo Testamento è uno “scandalo” per gli ebrei e una “stoltezza” per i greci, contro qualsiasi istituzionalizzazione e razionalizzazione che ne possano ridimensionare la portata assoluta rispetto a tutti i criteri di questo mondo12.

La conclusione alla quale giunge tutta la riflessione kierkegaardiana è dunque quella di ritenere che solo la dimensione religiosa possa permettere a tutti gli uomini di affrontare e superare le problematiche esistenziali che li riguardano, avendo sempre a riferimento, come paradigma intramontabile, l'esempio di Gesù Cristo. Se la categoria del “singolo” è l’unico paradigma ermeneutico davvero efficace per orientarsi nel percorso di vita che ognuno deve compiere, occorre, al contempo, sempre tenere alta la guardia contro ogni forma di immanentismo che abbia la pretesa di assolutizzare il relativo, distogliendo l'uomo, più o meno surrettiziamente, dall'eterno destino cui è chiamato a corrispondere.


1 Tale operazione viene compiuta in particolare nel Diario, dove Kierkegaard parla in proprio e scopertamente, senza i filtri protettivi di autori pseudonimi o di figure immaginarie. Cfr. C. Fabro, Introduzione a S. Kierkegaard, Diario, cit., p. 12.

2 S. Kierkegaard, Postilla conclusiva non scientifica, in Le grandi opere filosofiche e teologiche, a cura di C. Fabro, Giunti, Milano 2017, pp. 759-783; 913-917; 1303- 1311.

3 S. Kierkegaard, Aut-aut, trad. it. di K. M. Guldbrandsen e R. Cantoni, Arnoldo Mondadori, 1977, pp. 39-51.

4 S. Kierkegaard, Postilla, cit., pp. 1517-1521.

5 S. Kierkegaard, Diario, cit., pp. 243-244 (1327); p. 261 (3065).

6 S. Kierkegaard, Aut-aut, cit., pp. 83-86; 144-148.

7 S. Kierkegaard, L’esercizio del cristianesimo, a cura di C. Fabro, Milano 2012, pp. 115-119.

8 S. Kierkegaard, Postilla, cit., pp. 1555-1557.

9 S. Kierkegaard, L’esercizio del cristianesimo, cit., pp. 146 - 147.

10 S. Kierkegaard, Timore e tremore, trad. it. di F. Fortini e K. Montanari Guldbrandsen, Edizioni di Comunità, Milano 1962, pp. 77-88; p. 172.

11 S. Kierkegaard, Diario, cit., pp. 243-244 (1327); p. 261 (3065).

12 S. Kierkegaard, L’esercizio del cristianesimo, cit., pp. 175-201.




Aggiunto il 08/11/2019 17:35 da Paolo Gava

Argomento: Storia della Filosofia

Autore: Paolo Gava



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