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LUIGI PAREYSON: DIO COME LIBERTÀ


LUIGI PAREYSON: DIO COME LIBERTÀ

di Davide Orlandi



Questo articolo tratterà la seconda parte del saggio L'esperienza religiosa e la filosofia1 di Luigi Pareyson. In continuità con i temi trattatati precedentemente verranno delineati i tratti fondamentali dell'ontologia della libertà pareysoniana. Partendo da una triplice interpretazione dei famosi passi di Esodo 3, 14 Pareyson dimostrerà come il Dio della religione pensato nei termini di libertà assoluta possa superare gli esiti necessitaristi della filosofia. Pensare Dio e l'origine come libertà è l'unico modo per risolvere il baratro della ragione messo in luce da Kant nella sua Critica della ragion pura2.

Una volta che si saranno chiariti questi punti si passerà a vedere quali conseguenze comporta l'ontologia della libertà nell'esperienza umana. L'uomo è diviso fra destino e libertà, solo l'esperienza religiosa, come abbandono all'arbitrio divino, può essere sede di una decisione autentica di esistenza fuggendo così i pericoli del conformismo.

La scelta diventa il motore della storia quale produttrice di fatti irreversibili e imprevedibili, in questo consiste l'essenza della libertà divina e umana; l'eternità nella sua a-temporalità potrà essere storicizzata e vista come l'insieme di eventi frutto dell'attività della libertà. Infine proprio per queste ragioni l'originario inteso come libertà trova nell'esperienza religiosa un modo per esprimersi. Un'espressione simbolica, mitica e in virtù di questi motivi la filosofia dovrà rinunciare al suo carattere dimostrativo e concettualizzante. Pareyson riaffermerà il primato ermeneutico della filosofia che dovrà adempiere ad un'umile compito di riflessione sull'esperienza religiosa mantenendo il suo carattere critico capace di rafforzare e universalizzare l'esperienza esistenziale di fede dell'uomo contemporaneo afflitto dal nichilismo.






DIO COME LIBERTÀ: ARBITRARISMO DIVINO3




Pareyson inizia la sua riflessione in continuità con la distinzione compiuta nel paragrafo precedente

fra Antropomorfismo genuino e Antropomorfismo deteriore4. Il primo “è quello del mito, rivelativo, aperto alla verità, nel quale si incontrano, indistinti ma non per questo meno vigorosi e potenti, pensiero poesia e religione” mentre il secondo “è quello della mitologia, caratterizzato da una concettualità oggettivante e da un esito mistificante5. Insomma quello genuino interpreta tramite un linguaggio simbolico che per Pareyson è l'unico che permette una riflessione filosofica sulla trascendenza; mentre quello deteriore, che in superficie mostra una trattazione filosofica depurata da ogni degradazione simbolica, in profondità non fa altro che applicare termini tipici dell'intelletto umano come persona, causa o essere al discorso sulla trascendenza. Muovendo da questa distinzione Pareyson interpreta il passo biblico di Esodo 3, 14 riportando tre possibili diverse traduzioni: Io sono colui che è, Io sono colui che sono, Io sono chi sono. Le prime due, dice Pareyson, “non possono che esser considerate come mistificanti6 in quanto dietro di loro si celano due tentativi “deteriori” di interpretazione i cui concetti tipicamente umani vengono traslati sul piano della divinità.

Io sono colui che è nasconde la definizione di Dio come Essere ovvero una concezione “metafisica oggettiva, ontica e speculare”. Più ambigua invece è la traduzione Io sono colui che sono che nasconde dietro di sé il concetto di Persona. Il personalismo divino da un punto di vista “genuino” è quello che rappresenta il Dio vivente, ma da un punto di vista “deteriore” esso è quello che cerca di applicare la categoria filosofica di persona a Dio. Persona, da un punto di vista filosofico, è l'Io che, dice Pareyson, “di solito si qualifica con i termini di soggetto, coscienza, autocoscienza, pensiero pensante7. Si possono questi applicare a Dio?

Per Pareyson no e questo è dovuto all'esperienza religiosa che l'uomo fa di Dio. Esso non si presenta mai come un Io ma sempre come un Tu. Nei rapporti interpersonali umani un Io si rapporta sempre a un Tu che a sua volta è un Io dotato delle medesime caratteristiche. Il rapporto con Dio invece è sbilanciato e non è possibile, a causa dell'assoluta alterità che intercorre fra i due termini del rapporto, trasferire gli attributi dell'Io a Dio. Il filosofo qui non sta negando la persona di Dio (ad esempio Fichte riduceva tutto ad un ordine morale del mondo che negava la persona dei), anzi egli sostiene che personalismo e impersonalismo divino siano entrambi manifestazioni

dell'Antropomorfismo deteriore che riduce la divinità a concetto. L'unico modo per poter parlare di Dio come persona è tramite un linguaggio simbolico che interpreti la persona dei come un uomo vivente. L'esperienza religiosa vive il rapporto con Dio in questi termini sapendo che L'Io è finito e che quindi non può traslare i suoi attributi a quel Tu infinito e trascendente che si configura come libertà assoluta8. Ed è proprio la terza traduzione di Esodo 3,14 Io sono chi sono che si dimostra essere la più conforme per l'interpretazione della libertà assoluta di Dio.

Scrive infatti Pareyson: “Quando Dio[...] risponde 'io sono chi sono', intende dire: 'Il mio nome non te lo dico, anzi non te lo voglio dire: non hai nessun bisogno di saperlo. Perché me lo chiedi? Io sono chi sono, cioè sono chi mi pare, e tanto basti'”9.

Da un lato quindi questa interpretazione mostra l'innominabilità di Dio e la sua assoluta libertà (il mio nome non te lo dico, anzi non te lo voglio dire); dall'altro invece mostra come Dio abbia a completa disposizione il proprio essere cioè come esso dipenda dalla sua volontà (sono chi sono e tanto mi basti). Dio non risponde e se lo fa i termini della risposta sono simbolici ovvero capaci di fuggire qualsiasi pretesa oggettivante del pensiero filosofico10.

Rispondere e non rispondere, rivelarsi e non rivelarsi, usare ira o usare misericordia, questi sono per Pareyson i segni della libertà assoluta di Dio. Un arbitrio illimitato che ha sede e giustificazione solo in una libertà assoluta che davanti al finito sguardo dell'uomo è incomprensibile, anzi con le parole di Paolo ci si potrebbe chiedere “Dovremmo dunque affermare che Dio è ingiusto?”11 davanti alle disfatte e al dolore dell'esperienza umana. Ma qui Pareyson compie un'acuta e profonda riflessione sul male inteso non più come semplice privatio boni o principio manicheista; il male è esito della libertà tanto quanto lo è il bene. Credere che la libertà di Dio possa solo produrre bene significa intenderla limitata da quelli che sono i desideri o le prospettive dell'uomo cadendo così per l'ennesima volta in un Antropomorfismo deteriore.

Pareyson definisce il termine Arbitrio come “volere sovrano, il volere che vuole perché vuole che differisce dal mero Capriccio inteso come “il volere che vuole a caso, ciecamente, che vuole perché gli capita di volere12. Dio non guarda ad una norma superiore e tanto meno “vuole a caso”, egli vuole perché vuole cioè esprime l'assoluta libertà che lo caratterizza con signoria. L'illimitato arbitrarismo divino è simbolo dell'assoluta trascendenza di Dio la cui volontà “è al di là dall'opposizione di razionale e irrazionale13, questo implica che “L'arbitrio divino non è dunque di per sé tale da far desiderare, sia pure invano, di doversene difendere; per quanto inquietante, esso può anche suscitare il desiderio di affidarvisi con abbandono e fiducia14.

La libertà è in Pareyson ciò che in ugual misura ha la capacità di generare infelicità e salvezza, bene e male, ed essa va considerata nella sua totalità o meglio ancora tragicità. Spesso il modo con cui l'uomo giudica la provvidenza e le azioni dei suoi stessi simili è volto a guardare solo il lato del male, della sofferenza e dell'errore finendo così per sentenziare una qualche forma di ingiustizia divina o vittimismo sociale. Se si accetta la libertà, divina o umana che sia, bisogna accettarne l'ambiguità per non rischiare che sia un Grande Inquisitore a dover risolvere le difficoltà che ne derivano . Una risposta Pareyson la trova nella fede intesa come abbandono fiducioso all'arbitrio divino: “L'esperienza religiosa naturalmente consiste nella fede che Dio esista, cioè che il mondo abbia un senso; ma ciò non significa che s'abbia a concepire la Provvidenza come una garanzia contro l'arbitrarismo divino capace di dissipare l'inquietudine e il timore che possano derivarne15.

La Provvidenza divina si identifica così con l'assoluta libertà di Dio permettendo a Pareyson di concludere che “è la libertà divina che spiega la Provvidenza, e non viceversa; e la libertà divina, illimitata e arbitraria, ha sempre un aspetto di ambiguità16.





DIO COME LIBERTÀ: VOLONTÀ ORIGINARIA17



Nella precedente riflessione Pareyson si è concentrato sulla libertà come attributo di Dio; un arbitrarismo illimitato e abissale incomprensibile dal punto di vista umano che, solo ricorrendo alla fede, ovvero l'abbandono fiducioso alla volontà divina, può arrivare a comprenderne l'ambiguità. Sono messi così in luce due aspetti fondamentali: la libertà come scelta e la positività del male come aspetto essenziale della libertà. In questa seconda riflessione il tema della libertà viene affrontato ponendola a livello dell'originario. Occorre ricordare con Pareyson due aspetti: l'intento dell'ontologia della libertà e gli autori di riferimento; scrive infatti l'autore: “non si dimentichi che la presente trattazione di Dio come libertà assoluta non intende essere una teoria esplicitamente concettuale della divinità, ma si presenta piuttosto come un'interpretazione, sia pure filosofica del mito, come una riflessione sull'esperienza religiosa, in base a una concezione non dimostrativa, una ermeneutica della filosofia” e, per quanto riguarda i riferimenti bibliografici, “Se qualcuno troverà in quanto segue qualche traccia del pensiero di Plotino e di Schelling, non potrò che rallegrarmene, dato che il primo è stato ed è per me la lettura di tutta una vita, e il secondo è a parer mio l'interprete più profondo della sesta Enneade18. Questi due autori per Pareyson hanno il merito di aver cercato di pensare la libertà a livello dell'originario riuscendo così a tracciare un percorso che permetta di evitare la postulazione della necessità dalla quale non può derivare alcuna libertà. Il limite di un Dio necessario è messo bene in evidenza da Kant nella Critica della ragion pura dove il filosofo tedesco si chiede: “Non si può evitare, ma non si può nemmeno sostenere, il pensiero che un Essere, che ci rappresentiamo come il sommo fra tutti i possibili, dica quasi a se stesso: Io sono ab eterno in eterno; oltre a me non c'è nulla, tranne quello che è per volontà mia; ma donde son io dunque? Qui tutto sprofonda sotto di noi19.

L'interpretazione di Esodo 3, 14 “Io sono chi sono aveva messo in luce il fatto che Dio dispone liberamente del suo essere, dice infatti Pareyson: “Io sono chi voglio; io sono chi voglio essere. Io sono quel che voglio essere e voglio essere quel che sono, e, in generale, voglio essere20. Ciò mostra che “dalla libertà di Dio dipende l'essere stesso di Dio21. Solitamente è la creazione che viene considerata la massima espressione della libertà divina e questo a causa della concezione necessitarista della divinità ridotta a mera causa. Cosa c'è prima Dio? Per Pareyson non può che esserci Dio stesso e questo significa che il primo atto della libertà divina non è la creazione ma è il porsi in essere di Dio. Un evento originario ed eterno in cui Dio, libero di disporre del proprio essere, decide di essere perché vuole essere. Scrive a proposito il filosofo: “Dio è al tempo stesso prima e dopo di sé. Dio c'è già prima di esistere, a volere la propria esistenza, e, quando poi esiste, si vede che la sua essenza era proprio la libertà con la quale volle essere22.

Dio è perché vuole essere, è perché liberamente può volere di esistere e la libertà si dà sempre dove vi sono alternative. Cosa c'è prima di Dio? Il prima di Dio è la sua libertà, ovvero un atto originario ed eterno che presuppone il fatto che se Dio vuole essere è perché lo vuole in rapporto a ciò che non è essere: il nulla.

Scrive Pareyson: “L'essere di Dio è un atto originario:[..] un atto di libertà ch'è tale solo se è inseparabilmente e simultaneamente vittoria sul nulla e cominciamento assoluto23. Sono chiare le caratteristiche della libertà come inizio e come scelta la quale comporta un cominciamento assoluto caratterizzato da un atto discriminatorio fra alternative e dove l'irreversibilità della decisione comporta la vittoria dell'essere sul nulla; un nulla che rimane come rapporto caratterizzante della libertà che proprio per questo è abissale e ambigua. Se Dio esiste questo è dovuto dalla necessità che consegue una scelta e quindi non è necessario il “Dio prima di Dio” ma è il “Dio dopo di Dio” come effetto di un atto libero. Ma perché Dio sceglie di essere?

Si potrebbe pensare che egli non avesse alternative, che fosse necessitato a farlo, ma per rispondere a questa domanda Pareyson, ancorato ad una prospettiva ontologica della libertà, utilizza la categoria modale Kantiana della realtà la quale mette in mostra il carattere imprevedibile e abissale della libertà le cui ragioni sono inconoscibili proprio perché è libertà e in quanto tale sfugge qualsiasi razionalizzazione che possa renderla prevedibile. Scrive infatti Pareyson: “Dire che la vittoria sul nulla è un atto della libertà originaria significa dire ch'essa è in assoluto un evento storico: quest'atto Dio l'ha compiuto non perché lo dovesse fare o non potesse non farlo o fosse sua natura farlo, quest'atto Dio l'ha compiuto, perché ha voluto compierlo, e tanto basti24.

Il nulla quindi (cioè la negazione dell'essere, il male) costituisce Dio originariamente ed è ciò da cui

egli prende le distanze . L'essenza divina è caratterizzata dalla libertà come volontà d'essere. Proprio

perché si parla di un atto libero allora occorre non ricercarne ragioni che inducono ad aspetti necessitanti ma accettare la libertà nella sua imprevedibilità ed irreversibilità. Qui la riflessione di Pareyson scende ad un livello ancora più profondo notando che l'interpretazione dell'originario compiuta in questi termini prevede una scansione temporale dell'eternità di Dio. Come si è detto vi sono un “Dio prima di Dio” e un “Dio dopo di Dio”, in questo modo l'eternità di Dio è caratterizzata da atti e per questo essa è sua volta storia in quanto caratterizzata da salti qualitativi.

Chiare ed esplicative sono le parole dello stesso Pareyson: “[...] si può fare un racconto degli atti di Dio, una narrazione delle azioni divine quali la sua decisione di esistere, la creazione del mondo, e poi la punizione e la redenzione dell'uomo caduto, e così via. A causa della sua eternità può sembrare impossibile che Dio si possa fare storia o narrare un mito; ma la cosa è possibile, perché Dio è libertà, e i suoi atti, come tutti gli atti liberi, danno luogo a fatti storici. Dove c'è libertà ci sono i fatti, e dove ci sono i fatti c'è storia25.

Con questo il carattere ermeneutico della filosofia e della verità stessa è messo in evidenza proprio dal fatto che Dio si può dire solo come narrazione e mito (implicito è quindi il linguaggio simbolico), la libertà è non solo attributo ma anche essenza della divinità ed essa è motore della storia quale luogo del farsi reale di atti liberi e per questo “indeducibili”. La categoria modale della realtà risulta indispensabile quindi per mettere in evidenza il tratto imprevedibile della realtà come frutto della libertà e quindi come essa richieda di essere ascoltata nell'interpretazione e non rinchiusa nelle mere definizioni oggettivanti del pensiero filosofico “deteriore”.




L'UOMO: SCEGLIERSI ED ESSERE SCELTI





Nel livello profondo dell'esistenza non v'è né opposizione né separatezza fra lo scegliersi e l'essere scelti”26.

Pareyson passa dalla libertà di Dio alla libertà dell'uomo. Come si è visto l'arbitrio divino è illimitato tanto che Dio dispone completamente del suo essere, egli è ciò che vuole essere, sostanzialmente vuole essere. L'uomo è storico e da un punto di vista esistenziale vive la contrapposizione fra destino e libertà. Scrive Pareyson: “Sul piano puramente storico e da un punto di vista meramente umano sussiste una contrapposizione fra il destino e la libertà[...]. Il destino appare come un fato ineludibile e un'inesorabile necessità, che gravano sull'uomo col peso di opprimenti catene; e l'uomo non ha altra via che la libertà stoica[...], la consapevolezza che la ribellione è assurda27. Ecco che quindi l'esistenza umana appare lacerata da un essere liberi ma allo stesso tempo heideggerianamente gettati; sostanzialmente il divario è fra scegliersi ed essere scelti. Pareyson vede in questi due poli dell'esistenza un'apparente divisione dovuta ad un irrigidimento concettuale e la libertà divina originaria è la sede della loro conciliazione. Vi è una differenza qualitativa fra l'arbitrio divino che è originario e l'arbitrio umano che è creaturale e “la sua essenza è padrona di lui28. L'esperienza religiosa è nuovamente una risorsa di senso per Pareyson che in essa trova la categoria del dono ovvero “considerarsi come un dono da accogliere o come possibilità di rifiuto”. La libertà umana è accettazione e rivolta ma può trovare con la fede nell'arbitrio divino una risorsa di senso a cui abbandonarsi. Pareyson sottolinea come la pratica della libertà sia sempre una “vittoria sul nulla29 e quindi porti con sé i segni della lotta. È difficile accettarsi tanto che spesso l'uomo cade nel conformismo dove trova una confortante alternativa a quell'abisso che è la propria esistenza. Nella pratica della libertà egli fa esperienza dell'originario, la sua accettazione libera è la manifestazione della misericordia mentre la rivolta verso il proprio essere è la sede dell'ira divina. Nuovamente Pareyson cerca di considerare la libertà nella sua totalità di possibilità del bene e del male, non delegando alcuna responsabilità davanti alle disfatte dell'esistenza e facendo appello alla sola libertà che richiede tanto abbandono quanto coraggio e iniziativa.













LA FILOSOFIA COME ERMENEUTICA DELL'ESPERIENZA RELIGIOSA:



UN DISCORSO INDIRETTO SU DIO30





L'ontologia della libertà di Pareyson dopo aver affrontato Dio e l'uomo si sposta sulla filosofia. Compito di questa ultima parte del saggio L'esperienza religiosa e la filosofia è quello di concepire i limiti della filosofia davanti all'esperienza religiosa la quale si è dimostrata essere viva esperienza della libertà originaria. Non è un semplice dualismo tra fede e ragione ma è un modo per rapportarle in un'unica prospettiva: l'esistenza.

Scrive Pareyson: “giungerei ad affermare che per la stessa filosofia è molto più interessante il Dio della religione che non il Dio dei filosofi. Naturalmente la riflessione filosofica sull'esperienza religiosa va condotta con tutta la cautela e l'attenzione necessaria: per un verso con la consapevolezza di doversi criticamente vietare ogni accettazione preconcetta così come ogni predeliberato rifiuto, e per l'altro verso con la coscienza che l'esperienza religiosa è ineliminabile dal contesto dell'esperienza umana in generale, e che pertanto va avvicinata con volontà di comprensione e in atteggiamento di ascolto31.

Pareyson chiede alla filosofia di abbandonare le sue interpretazioni della divinità concettuali e puramente razionali per prestare attenzione a un Dio diverso, quello dell'esperienza religiosa, il Dio della libertà. Davanti a questo però ella deve comprendere e non definire, deve ascoltare rispettando un'alterità che va oltre il solipsismo in cui cade il pensiero. Ma cosa ancora più importante non deve rinunciare alla sua identità ovvero quella di essere critica e quindi libera di non dover accettare passivamente nulla. Da Plotino e Schelling ora le ispirazioni vengono trovate in Kierkegaard e Dostoevskij “la cui esperienza religiosa è diventata la condizione essenziale per un rinnovamento attuale del cristianesimo, la via maestra e forse unica per una riappropriazione del cristianesimo da parte dell'uomo d'oggi, immerso nella temperie dell'ateismo e del nichilismo32. Kierkegaard ha ispirato l'esistenzialismo ovvero un'attenzione del rapporto tra il singolo e l'alterità, un rapporto che sulla scia di Dostoevskij viene messo in pericolo dagli esisti nichilisti post-nietzschiani del novecento ponendo così il problema di una rivalutazione della religione nell'ambito dell'esperienza umana in cui sembra che “Se Dio non esiste tutto è permesso”. Per Pareyson è chiaro che il linguaggio dimostrativo e oggettivante della filosofia sia inadeguato davanti all'esperienza religiosa la quale però non deve essere considerata come esperienza soggettiva. La religiosità è rapporto con la trascendenza, un “abbandono dimentico di sé” in quanto richiede ascolto e obbedienza33. Per questo occorre interpretare l'esperienza religiosa non in una prospettiva esperenziale ma in una esistenziale che abbandona la soggettività e si apre al rapporto con l'essere ch'è di verità, di trascendenza e di immemorabilità. Il linguaggio simbolico, centrale e lungamente analizzato in questo saggio, è la chiave d'accesso a quella profondità che sfugge al pensiero razionale; il pensiero, la poesia e la religione sono un tutt'uno, un'origine del rapporto ontologico che l'uomo ha con la verità. Una verità che va interpretata e che quindi conduce ad una rivalutazione del mito come simbolo di quel rapporto originario che l'uomo ha con essa. Scrive Pareyson: “il mito è interpretazione primigenia della verità quale ogni uomo è a se stesso, è la verità com'essa parla originariamente a ciascuno, è la memoria dell'origine e la rammemorazione dell'immemorabile, è l'ascolto dell'inoggettivabile trascendenza, è la rivelazione stessa dell'essere, della verità, della divinità: è Dio come parla all'uomo, è Dio che parla all'uomo. Ecco perché l'esperienza religiosa va raggiunta a livello profondo, lì dov'essa è inseparabile dal pensiero e dalla poesia, poetica per il suo simbolismo e veritativa per la sua forza rivelatrice34.

È chiaro quindi come l'interpretazione dell'esperienza religiosa si identifichi con l'interpretazione del mito ma soprattutto come la riflessione filosofica debba rispettare il mito: “lasciare che il mito dica ciò che solo col mito si può dire, e non aggiungervi altro, giacché interpretare significa far parlare e saper ascoltare35.

La filosofia deve parlare di Dio, ma non può farlo direttamente con i suoi mezzi ed ha bisogno di interrogare qualcosa che rispetta un altro tipo di linguaggio e che vive immerso in profondità che essa ha dimenticato ma da cui proviene. È importante che mantenga la propria criticità, quel movimento di libertà che non accetta di fermarsi ma che anzi prosegue nella sua ricerca di verità mettendo in discussione ogni pre-concetto (nei termini proprio di ciò che viene prima di ogni chiusura concettuale), trovandosi quindi in totale sintonia con un pensiero interpretativo quale quello ermeneutico. È per questo che il discorso filosofico su Dio è indiretto, Pareyson ricorda che “la filosofia può si parlare del Dio dell'esperienza religiosa, ma non per negarlo o affermarlo, ne per dimostrarlo o contestarne l'esistenza, cosa che non le compete, perché essa interloquisce quando tali questioni sono del tutto superate36.

L'uomo religioso vive la sua esperienza come frutto di una scelta libera, egli si è deciso per Dio e vive la fede non come un possesso tranquillo ma come qualcosa di instabile, proprio perché affidato a quell'arbitrio divino così ambiguo di cui si è detto sopra. È il dubbio a caratterizzare la fede e nessuna dimostrazione razionale può essere di aiuto all'uomo religioso in quanto la trascendenza, che fugge qualsiasi definizione, è più profonda e paradossale. La filosofia viene quindi posta come seconda rispetto alla scelta prima esistenziale della fede, deve comprendere e non definire così che il suo compito diventi quello di universalizzare il significato esistenziale che l'esperienza religiosa può avere per l'uomo fuggendo così gli esiti nichilisti della società contemporanea. Pareyson chiaramente riscrive la filosofia in termini ermeneutici, il concetto deve farsi simbolo recuperandone il linguaggio metaforico. Su queste ultime considerazioni egli compie un'ultima importante distinzione tra filosofia negativa e filosofia positiva: la prima è quella dei “sistemi logici, coerenti e conclusi, dotati di certezza e totalità, ma vuoti e astratti in quanto meramente formali”, mentre la seconda è quella “ermeneutica, concreta, aperta ai sempre nuovi apporti dell'esperienza, ma condannata al rischio e all'angoscia dell'interpretazione”.

Da tale distinzione deriva la possibilità di un dialogo interno alla filosofia, una discussione rinnovatrice rifiuto della chiusura ideologica in nome di quella libertà che non assicura stabilità alcuna ma che è motore dell'esistenza dell'uomo e dell'essere.

1 L. Pareyson, L'esperienza religiosa e la filosofia, in Ontologia della libertà, Einaudi, Torino 1995, pagine 85-149. La seguente trattazione si occuperà dei paragrafi 12, 13, 14, 15, 16, 17, pagine 119-149.

2 Per una maggiore trattazione vedere la nota 19.

3 L. Pareyson, L'esperienza religiosa e la filosofia, in Ontologia della libertà, Einaudi, Torino 1995, pagina 119.

4 Ivi, pagina 113.

5 Ivi, pagina 116. Importante è anche comprendere la distinzione che Pareyson compie fra mito e mitologia sulla quale non ci si può ora soffermare; essa è comunque presente a pagina 115.

6 Ivi, pagina 119.

7 Ivi, pagina 120.

8 Ivi, pagina 121.

9 Ivi, pagina 122.

10 La prima parte di questo saggio che va da pagina 85 a pagina 119 tratta il tema del simbolo ed esso viene scelto da Pareyson come unico modo per dire la trascendenza in virtù del suo carattere rappresentativo, interpretativo e quindi non oggettivante come invece è il concetto che tende alla definizione. Pareyson riporta a pagina 123 alcuni esempi di rivelazione simbolica di Dio tra cui il suo definirsi “Dio dei vostri padri, il Dio di Abramo[...]” di Esodo 3,15 oppure il dichiararsi un Dio Geloso di Esodo 34, 14.

11 Romani 9, 14. Citato in L. Pareyson, L'esperienza religiosa e la filosofia, in Ontologia della libertà, Einaudi, Torino 1995, pagina 124.

12L. Pareyson, L'esperienza religiosa e la filosofia, in Ontologia della libertà, Einaudi, Torino 1995, pagina 124.

13Ivi, pagina 124.

14Ivi, pagina 125.

15Ivi, pagina 125.

16Ivi, pagina 126.

17Ivi, pagina 129.

18Ivi, pagina 131.

19 I. Kant, Critica della ragion pura, Laterza, 1965, pagina 491. Citato in C. Ciancio, Libertà e dono dell'essere, Marietti, Genova-Milano 2009, pagina 41.

20 L. Pareyson, L'esperienza religiosa e la filosofia, in Ontologia della libertà, Einaudi, Torino 1995, pagina 129.

21 Ivi, pagina 129.

22 Ivi, pagina 130.

23 Ivi, pagina 134.

24 Ivi, pagina 137.

25 Ivi, pagina 136. Il tema della temporalità insita nell'eternità viene affrontato nel capitolo 15 di questo saggio Storia dell'eternità. In esso è presente anche il recupero della categoria modale di realtà.

26 Ivi, pagina 126.

27 Ivi, pagina 126.

28 Ivi, pagina 138.

29 Vedi nota 23.

30 Questa parte affronta gli ultimi due capitoli di questo saggio ovvero Riflessione filosofica sull'esperienza religiosa e Carattere indiretto del discorso filosofico su Dio.

31 L. Pareyson, L'esperienza religiosa e la filosofia, in Ontologia della libertà, Einaudi, Torino 1995, pagina 139 -140.

32 Ivi, pagina 140.

33 Ivi, pagina 141.

34 Ivi, pagina 143.

35 Ivi, pagina 144.

36 Ivi, pagina 147.




Aggiunto il 27/07/2017 20:13 da Davide Orlandi

Argomento: Filosofia delle religioni

Autore: Davide Orlandi



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