Dio è morto! Dio resta morto! E noi l’abbiamo ucciso! Così si esprime il grande filosofo tragico Friedrich Nietzsche alla fine del secolo XIX.
Ma Dio è soltanto l’immagine del “sacro”. Quel sacro medesimo che giace sepolto per sempre. E cioè, in base alle ultime ricerche e analisi delle scienze cognitive, forse a far data dalla comparsa dell’Homo erectus (1.200.000 e.a.) o in base ad altre testimonianze da me raccolte, o meglio delle quali ho una parziale conoscenza, almeno a far data dall’avvento dell’Homo heidelberghensis (300.000-500.000 e.a.).
Leggo che: Si ritiene che i primi esseri umani non avessero caratteristiche particolarmente degne di nota rispetto alla fauna coesistente. Poi, a un certo punto (le stime vanno dai 50.000 ai 200.000 anni fa), è successo qualcosa che ha distinto i nostri antenati dal resto del regno animale (…) Io ritengo che la consapevolezza autonoetica sia dipesa da caratteristiche uniche, che sappiamo essere tipiche della corteccia prefrontale umana. Per “consapevolezza autonoetica” è qui intesa, in definitiva, la capacità umana di scegliere, a piacimento, di porre fine alla propria esistenza o addirittura di mettere l’esistenza fisica dell’organismo a rischio per il mero brivido di farlo, danneggiando le altre cellule e gli altri sistemi (LeDOUX 2019).
Ma, non importa se si tratti di una caratteristica tipicamente umana che ci distinguerebbe dalle altre specie animali; quel che qui ora importa è che si discuta di una presunta peculiarità capace di mettere in discussione il destino in qualche modo precostituito di una specie umana sopravvissuta dal tempo di quel dì a oggi. Una peculiarità che in qualche modo alcuni oggi azzardano a chiamare “libero arbitrio” attribuendola alla specie dell’Homo sapiens. La nostra specie attuale.
Attualmente, le scienze cognitive ci dicono però che numerosi sono stati “i sentieri (cfr. Heidegger e i suoi Sentieri interrotti) smarriti dell’umanità”. In particolare, a Schoningen, nella Bassa Sassonia, nel 1994 è stato scoperto un insediamento risalente a circa 320.000 anni fa: (un) insieme di manufatti e ossa animali (che) ricorda il rituale del sacrificio diffuso ancora oggi tra i mongoli. Nelle azioni rituali i teschi di animali vengono posizionati in luoghi sacri. I cacciatori di Schoningen forse conoscevano rituali legati alla magia della caccia? Homo heidelberghensis possedeva già una concezione animistica sull’interrelazione di tutte le forme di vita e magari anche sull’esistenza metafisica del principio vitale che chiamiamo anima? La sistemazione delle lance, del cranio e delle ossa di cavallo in un insieme chiuso rende questa ipotesi molto plausibile (HAARMANN 2019). Allo stesso modo di un diverso insieme che oggi chiamiamo “algebrico”.
E dunque: il luogo “sacro” rappresenta un insieme “chiuso”. Uno spazio chiuso che Noi Sapiens odiamo (FERRARA 2019). Ma su questo occorre ritornare sulla scorta di maggiori dettagli. Per ora: non solo Dio, ma prima e dopo, il sacro è morto e resta morto e noi l’abbiamo ucciso! Noi Sapiens certamente, ma forse già prima l’Heidelberghensis e ancor prima di lui, l’Erectus.
Lo stesso LeDoux sostiene che sia difficile comprendere se le specie animali diverse dalla nostra abbiano consapevolezza autonoetica perché tale caratteristica è riscontrabile innanzitutto attraverso il comportamento della specie e in particolare quanto al linguaggio comunicativo. Oggi sappiamo che esistono forme comunicative tra le specie animali diverse dalla nostra, ma non abbiamo esperienza di un linguaggio performativo, senza un’attuale evidenza e conoscenza quindi specifica, di cui esse si servirebbero.
Il linguaggio, si ammette comunemente, è ciò che ha consentito e consente anche oggi all’uomo di fare ciò che si definisce un salto evolutivo: dal linguaggio iconico e alfabetico a quello dell’intelligenza artificiale. Ogni salto si realizza attraversando una porta che si apre o una nuova via che, prima di essere intrapresa, dischiuda un nuovo orizzonte di senso: Le nuove sintesi, se ancora ve ne sono di possibili, si trovano oltre l’orizzonte (DE SANTILLANA-VON DECHEND 1983).
Ed ecco allora che ritorna il significato di una frase a cui qui ho solo parzialmente fatto già cenno: Noi Sapiens odiamo i circoli chiusi, i cortocircuiti comunicativi, e abbiamo imparato a giocare abbastanza bene con i mattoncini del Lego espressivo. Ognuno di questi è una sillaba (FERRARA 2019).
Ma, prima delle sillabe, vi sono le lettere, suddivise in vocali e consonanti. Ogni vocale rappresenta un fatto fonico, che proviene da un’apertura della bocca e della voce, e quindi un fatto anatomico. Il termine consonante deriva dal latino consonans e significa letteralmente “suona con” o “suona insieme” e cioè indica che quest’altro tipo di suono può essere pronunciato solo se accompagnato da una vocale. Innumerevoli sono le forme di linguaggio e scrittura di cui ignoriamo la formazione e talvolta, ancora, il codice interpretativo che ne permetta la comprensione del significato. Allo stato dell’arte della ricerca, i “segni” lineari o iconici - dell’alfabeto sanscrito, egizio, sumerico, cinese e quant’altri - rappresentano tuttavia un patrimonio analitico comune capace di provare l’uso di due figure alternative, di “chiusura” o “apertura”.
Per quanto mi riguarda, ribadisco che il fantastico, irriducibile non scaturisce da elementi esterni al mondo umano, quali mostri compositi, fauna infernale, irruzioni di creature demoniache, grottesche o sinistre. Esso nasce da una contraddizione che è insita nella natura stessa della vita e che riesce addirittura ad abolire momentaneamente, per un vano ma conturbante privilegio, la frontiera che la separa dalla morte (CALLOIS 1965). Il fantastico sarebbe quindi la misura di un oltrepassamento, un varco temporale che consente di superare la frontiera della morte dove avrebbe piuttosto termine il nostro cammino.
Ma, è bene fare attenzione e non confondere le cose. All’inizio, la logica è stata concepita in strettissimo rapporto con la matematica; ma, in un mondo causale, la logica non può andare a braccetto con la verità ma con l’azione (NAGEL-NEWMAN 1958). Fondamentale resta la distinzione tra elemento e principio. I numeri sono originariamente tanto elementi quanto principi; ecco perché essi tendono ad associarsi in componenti numerici come anche in principi superiori. Terra, acqua, aria e fuoco sono componenti; essi non vengono mai veramente concepiti come principi. L’Uno, la Tetrade, la Decade sono principi (cfr. Pitagora), come Limite e Illimite. L’Illimitato di Anassimandro è un principio, non un elemento. La parola archè, “principio”, implica l’idea di origine, regola, comando, “principio e fine”, mentre la parola greca per elemento, stoicheion, veniva usata in origine per indicare le lettere dell’alfabeto (DE SANTILLANA 1961).
Tanto chiarito, almeno si spera, è bene tornare ora alla questione dell’alfabeto. E in particolare al sanscrito. E ancor prima alle origini della formazione di una lingua, comune, che un sacerdote astronomo, un giorno di circa 10.000 anni fa, si sarebbe assunto il compito di comporla: Per prima cosa egli scelse la vocale i per indicare il moto “continuo”, azione tipica del verbo “andare” (i, eti), e la vocale r per indicare il moto “diretto ad una meta”, azione tipica dei verbi “muovere verso”, “giungere”, “incontrare”, “raggiungere” (r, rcchati) (RENDICH 2007). (n.d.r.: in questo mio intero saggio, i brani di testo che riportano le lettere dell’alfabeto sanscrito sono translitterate nella forma del nostro linguaggio alfabetico derivante dal ceppo originario delle lingue indoeuropee: sanscrito, greco, latino).
La “I” è dunque un simbolo iterativo, che indica un “andare”, un “moto continuo”, ma anche un “alzare”. E d’altronde sembra facile ipotizzare che per andare, continuamente, occorre che l’uomo sia ben ritto sui suoi piedi. Per andare “in avanti”, come solitamente accade, potremmo fare riferimento all’uso della lettera “L”, ma non è qui il caso di precipitare i termini del discorso che seguirà. Inizialmente, non è una questione di moto “lineare” o “circolare”. La circostanza riguarderebbe soltanto un’azione, un movimento che dalla superficie della terra conduce verso l’alto, come per l’Homo erectus che, si ritiene comunemente, sia stato il primo a lavorare pietre bifacciali e a usare il fuoco (WIKIPEDIA 2020).
Considerando un moto sia “in avanti” che “indietro”, la simbologia di entrambi i moti può essere riassunta così: _I_ e, potrebbe ora sembrare affrettato dire che, capovolgendo la figura, otteniamo il simbolo T che nella mitologia vedica indica Prajapati, il signore di tutte le creature, incerto a tal punto che non sa nemmeno lui stesso se esista. E cioè: un dio che rappresenta il massimo possibile dell’apertura ovvero un sistema legato all’esistenza che non si chiude e resta per sempre aperto. Ontologicamente, ciò che tuttavia non equivale all’“essere” di Parmenide: E allora di via resta una sola parola che: è. In tal caso, l’essere-parmenideo non ammette per sé l’accostamento di alcun predicato, neanche quello dell’esistenza: è.
Ma: _I_ o T rappresentano in ogni caso uno spazio che tende a chiudersi in qualche modo, in basso o in alto, a destra o a sinistra. E quindi: un inizio e una fine, “principio e fine”. Opera una distinzione. Chiamala prima distinzione. Chiama lo spazio in cui si opera tale distinzione lo “spazio che mediante tale distinzione viene separato o diviso” (SPENCER-BROWN 1969). E dunque: prima lo spazio o prima la distinzione?
Sembra impossibile sostenere che la distinzione preceda lo spazio, anche se sia la nostra “mente” a farlo. E tuttavia possiamo ipotizzare che sia stato un Dio a operare la distinzione non sarebbe affatto fuori dal nostro senso comune pensare a un Dio fuori dal tempo e dallo spazio. Ma, anche se così fosse, direbbe Agostino: cosa faceva allora Egli prima che la creazione fosse. E diremmo a Paolo: siamo certi che il destino comune a Noi e a Lui sia quello piuttosto dell’apocatastasi? In fondo, se egli è Dio, può sempre fare ciò che vuole o a lui piace. Sul punto, la via resterebbe e resta quindi “aperta”, il sistema non sarebbe e non è “chiuso”; ma, quanto al Dio della fede, viceversa resta ucciso per sempre. E allora: accade che il Dio degli Ebrei sopravviva nello spazio “aperto” di un’attesa che potrebbe o non potrebbe arrivare mai. La quale cosa dava molto fastidio a Hitler, tra i maggiori interpreti di un sistema relativo a uno spazio “chiuso” (in proposito, è utile cfr. la nozione del “Grande Spazio” di Carl Schmitt in contrapposizione allo “Spazio Globale” della Modernità, attualmente in uso). Il Dio degli Ebrei differisce dal Dio cristiano, viceversa confinato nello spazio “chiuso” di un nuovo paradiso celeste, dopo che l’Apocalisse sia sopraggiunta … Quando arriverà, ma soprattutto e innanzitutto se, in futuro, arriverà. Ragione per cui la “verità” e la “giustizia” in un futuro post-messianico o post-apocalittico restano comunque incerte e lo spazio “chiuso” del “sacro” dichiarato ancora una volta morto per sempre.
Proseguendo sulla via della distinzione, s’incontrano anche altri sentieri, all’apparenza comune interrotti, ma che in realtà scorrono, come fiumi carsici, nel sottobosco delle nostre rappresentazioni, innanzitutto visive. I segmenti, i profili dell’ambiente che ci circonda sono il primo passo per recepire e capire il mondo intorno a noi (…) Allora se i bordi sono ciò che cattura l’attenzione dei nostri neuroni, non è un caso che i segmenti e le configurazioni delle cose del mondo mostrino un alfabeto simile a quello delle lettere. Anzi, le frequenze sono costanti. Se prendiamo tutti i sistemi di scrittura nella storia, senza guardare quando o dove siano stati creati o usati, vediamo che la frequenza delle forme dei segni è costante. Combinazioni di segmenti come quelli che formano la L o la T hanno la stessa frequenza di distribuzione (alta) nei sistemi di scrittura (anche storicamente non vicini). La X o la F sono meno frequenti. La cosa sorprendente è che questa distribuzione è regolare non solo nelle scritture, ma anche nelle configurazioni del mondo naturale (FERRARA 2019).
La geometria delle forme più note - il triangolo, il cerchio e il quadrato - arriva in un tempo successivo; tanto che, oggi, il banner pubblicitario della Playstation rappresenta in sequenza gli stessi simboli con l’aggiunta della X posizionata dopo la figura del cerchio e prima di quella del quadrato. Ma, torniamo immediatamente a quanto dice Ferrara: non sarà dunque un caso se L rappresenta il mark (marchio) che per Spencer-Brown è all’origine e principio di ogni distinzione e quindi di ogni nostra rappresentazione. Qui, su questo stesso punto di distinzione, siamo sicuri che c’entri il gattino di Hubel (FERRARA 2019); differentemente dal gatto di Schrodinger - oggi piuttosto alla ribalta della ricerca scientifica, e in specie dello spazio riservato alla meccanica quantistica -, della cui esistenza necessariamente occorre dubitare. Se una scatola o una porta si chiude, la stessa scatola o porta si riapre. Un antico proverbio cilentano, terra mitica degli antichi Greci, dice che chiusa una porta si apre un portone.
E dunque: cosa dire inoltre di T, a parte la rappresentazione - fantastica e quindi non realistica - che simboleggia il dio vedico Prajapati, altrimenti detto anche Ka? Per inciso, brevemente: La consonante K era il simbolo del moto curvilineo dei corpi celesti nello spazio e rappresentava l’energia creatrice dell’universo composta di acque (ka) e di luce (ka), energia che si irradiava nel cuore dell’uomo … (RENDICH 2007). Se l’alfabeto della natura è nel DNA della scrittura (FERRARA 2019), occorre allora risalire a un fatto naturale che ci offra una spiegazione almeno sufficiente.
Allo stato dell’arte della ricerca, i primi templi dell’umanità sono considerati oggi quelli del sito di Gobekli Tepe (9.600-8.800 e.a.), zona di transito tra l’Asia e il Vicino oriente antico. Forma tipica dell’architettura di Gobekli Tepe è la costruzione circolare. La parte più antica riportata alla luce, l’edificio con pilastri di serpenti, è una costruzione semicircolare con elementi laterali dritti. Altre parti della struttura complessiva sono rotonde. Una caratteristica che accomuna tutti gli edifici sono i pilastri con testa a T. E ancora: Nel santuario di Gobekli Tepe non ci sono immagini divine con tratti antropomorfi. Statue di divinità dalle sembianze umane faranno la loro comparsa solo molto più tardi, in Mesopotamia ed Egitto (HAARMANN 2019).
Le immagini del culto o dei culti ivi raffigurate hanno ancora a che fare con la natura e l’uomo, e non invece con l’uomo e il suo dio. Ancora oggi molti studiosi ritengono che i rituali più antichi praticati dall’uomo rinviano alla preesistenza di culti della maternità, della caccia e dell’agricoltura ritenuti pertanto originari. Culti attraverso i quali emergerebbe come dominatrice dapprima la figura della Dea, ovvero la Mater Matuta presente anche nella serie televisiva The Young Pope di Sorrentino (2016), e in fine la figura del Cacciatore celeste (CALASSO 2016). In entrambi i casi, tuttavia, si tratta di un diverso sentiero, divenuto una via, che ci ricondurrebbe (presumibilmente: da Frazer in poi) ai culti della fertilità intesi come forma universale della più antica religione, e sulla magia primitiva a essa collegata (DE SANTILLANA-VON DECHEND 1969).
Una matrice che tuttavia non spiega la formazione e la struttura di templi antichi come quelli di Stonehenge e i templi ancor più antichi di Gobekli Tepe. Nella rappresentazione - odierna - del sito di Stonehenge, la struttura invece che una T forma piuttosto una porta, a modello del pi greco. Ricordiamo che il PI GRECO non è una costante fisica o naturale, ma una costante matematica definita in modo astratto, indipendente da misure di carattere fisico (WIKIPEDIA 2020). Il PI GRECO è stato usato dall’uomo come simbolo medesimo della presunta e perfetta relazione tra tutte le cose della natura, adottato per molti secoli e fino alla sostituzione con la lettera PHI GRECO (F), conseguentemente alla scoperta più nota di Fibonacci, e di cui piazza San Pietro a Roma costituisce un’emblematica riproduzione.
E invece: quel che appare oggi agli studiosi più attenti, in qualche modo incontrovertibilmente, è che le forme e le strutture dei templi più antichi siano servite piuttosto alla pratica di culti lunari e solari, basati cioè sulla visione e l’interpretazione del movimento degli astri. In alto e non più dal basso. E quindi: l’immagine di una linea dell’essente che non procede, ma possiamo meglio dire, non vive dal basso verso l’alto; bensì una linea dell’essente che dall’alto (forse un raggio di sole) riceve la propria vita. De Santillana e Von Dechend, a differenza di Frazer e i suoi seguaci, inneggiano piuttosto alla Teoria della Precessione. Oltre agli innumerevoli dettagli e scenari che appassionatamente leggiamo e rileggiamo continuamente nel loro Mulino di Amleto, resta indelebile la conclusione più che esplicita dell’Epopea di Erra in cui Marduk dice a Erra: Quando mi alzai dal mio seggio e lasciai irrompere il diluvio, allora si scardinò il giudizio della Terra e del Cielo … Gli dei che tremavano, gli astri del cielo – mutò la loro posizione e io non li ricondussi indietro (1969).
L’atto del dio che si alza, ripetutamente nei testi antichi degli Egizi, rappresenta il movimento del Sole che ogni giorno, e quindi continuamente, mostra di sorgere a est e tramontare a ovest, percorrendo nel corso della notte “il viaggio agli inferi” (nelle parole di Matteo sembra quasi risentire l’eco lontano del racconto di ciò che è stato un diverso inizio (E io ti dico: Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa). E dunque: un viaggio senza sosta. Allo stesso modo: l’essere umano che vive ogni istante si alza in vita, intraprende il corso della propria vita quotidiana, occupando lo spazio che il de-stino a ogni istante gli riserva. Un de-stino attraverso il quale l’Homo Sapiens odia i circoli chiusi, i cortocircuiti comunicativi, ma ha imparato a giocare abbastanza bene con i mattoncini del Lego espressivo.
Pitagora, al cui modello o schema dovremmo oggi ricondurre le ricerche dell’I.A., elaborando il 10 come numero perfetto, lo considerava generato dall’1 (I), così come tutte le cose (1+2+3+4=10), dandone questa spiegazione: l’Uno generò il Due, il Due generò il Tre, e il Tre generò tutte le cose … Ma l’1 (I), l’unico numero detto Parimpari, per sua natura è destinato all’apertura di se stesso verso gli altri numeri … La cosmogonia del Libro dei Morti egiziano è di una sottigliezza che non sfigura al confronto: “Io sono Atum quando ero solo in Nun …”. Ma la potenza normativa e correttrice intrinseca propria del numero, porta il sistema greco a sviluppi che erano fuori della portata della teoria arcaica (DE SANTILLANA 1961). Ma, qui, si presti attenzione: non si dice dell’esperienza arcaica, ma, come precisato, della teoria arcaica. L’esperienza conosceva e sapeva bene che lo spazio arcaico non aveva né limite prestabilito né confine di territorio dove riprodursi o cacciare, almeno fino a quando l’uomo non scelse di stanziarsi e dedicarsi all’allevamento e all’agricoltura (un vero e proprio “paradiso terrestre”) capaci di fornire il sostentamento energetico (Tutto è consumo di energia; BAGGOTT 2015, 2017; LeDOUX 2019) più che necessario alla sopravvivenza di allora.
Studiando l’evoluzione della lingua sanscrita, la più antica fra le lingue indoeuropee, possiamo notare che la consonante l (la) era una tarda variante fonetica della consonante r (ra) di cui conservava il significato di “muovere verso”, “raggiungere”, acquisendo però l’accezione ambivalente di congiungere per “trattenere” o per “liberare” (…) Nella lingua madre del sanscrito l’idea di moto che “passa oltre”, “va al di là”, derivò dall’osservazione del moto dei corpi celesti nello spazio. In sanscrito la radice tr designa infatti sia la “stella”, sia l’azione (con r allungata, tr) di “attraversare”, il tipico moto dei corpi celesti. In origine, con ogni probabilità, le consonanti t e d avevano lo stesso significato: “luce” (una indicazione in questo senso ci viene dalle lingue germaniche, in cui l’inglese god e il tedesco Gott, “dio”, sembrano per l’appunto significare “luce (d/t) in movimento (ga)”). (RENDICH 2007).
Ma allora, come la mettiamo con le “tenebre” che, durante il proprio cammino, il Sole e gli altri dei sono costretti essi stessi ad attraversare? Qui ci potrebbe tornare allora utile l’uso di un’altra lettera, il cui significato appare peraltro evidente, come si diceva, ma non abbiamo ancora avuto il modo di renderlo attraverso esperienze comuni di senso: la X.
Nel corso dei secoli, anche la X ha rappresentato un simbolo che ha assunto diversi significati: dalla croce della svastica in rotazione, che simboleggia in origine il Sole, al numero pitagorico perfetto dei Romani all’incognita di un’equazione … Considerati i fasti del suo passato, la svastica sarebbe potuta rimanere uno dei simboli più duraturi e diffusi nel mondo. D’altra parte un simbolo grafico è tanto debole o tanto potente quanto lo è ciò che rappresenta (HELLER 2019) …
Io, per quanto abbia cercato, non ho trovato sintesi più perfetta che in Parmenide: Posero duplice forma a dar nome alle loro impressioni: d’una non c’era bisogno, in questo si sono ingannati, l’una dall’altra figura distinsero e posero segni opposti fra loro, di qua il fuoco etereo vampante, utile, assai rarefatto, leggero, in sé del tutto omogeneo, altro rispetto all’altro; anch’esso però in se stesso notte cieca al contrario, forma densa e pesante. A commento, riporto anche le parole, altrettanto conclusive, di DE SANTILLANA (1968): Suggerisco pertanto di trattare ovunque la parola “Essere” come termine indefinito, sostituendola in tutto il testo con x. E’ certo un buon metodo postulare la nostra ignoranza di una parola folgorante, familiare e tuttavia non compresa, trattandola formalmente come incognita e cercando di definirla dal contesto. Ora, se teniamo la mente “monda di pregiudizi”, come suggeriva Bacone, e cerchiamo di definire x unicamente dal contesto, troveremo che esiste un altro concetto, e solo quello, che può sostituirsi a x senza generare assurdità o contraddizioni, e questo concetto è il puro spazio geometrico stesso, per il quale i Greci non possedevano ancora un termine tecnico (è noto che i primi Elementi erano essenzialmente bidimensionali).
Quale sarà lo spazio del futuro che ci attende? Potete immaginarlo come una porta sempre “aperta” sul futuro, anche se si riveli un futuro di morte e distruzione. Quale che sia il futuro che ci attende, il de-stino a me più prossimo mi suggerisce invece di “chiudere” il testo di questo saggio in altro modo o forma. In scorta a DE SANTILLANA-VON DECHEND (1969) ho scelto di accontentarlo: Un uomo aveva una figlia che possedeva un arco e una freccia meravigliosi, con cui poteva abbattere tutto quello che voleva. Ma era pigra e se ne stava sempre a dormire. Per questo motivo, suo padre si adirò e le disse: ‘Non startene sempre a dormire; prendi invece il tuo arco e la tua freccia e colpisci l’ombelico dell’oceano, così che noi si ottenga il fuoco’. L’ombelico dell’oceano era un vasto gorgo in cui andavano alla deriva i bastoncini che, sfregati, davano il fuoco. In quei tempi gli uomini non possedevano ancora il fuoco. Allora la fanciulla prese l’arco, colpì l’ombelico dell’oceano, e gli arnesi per accendere il fuoco balzarono a riva. Il vecchio fu contento. Accese un gran fuoco e, poiché voleva tenerselo per sé, costruì una casa con una porta che si apriva e si chiudeva a scatto come una mascella uccidendo tutti quelli che volevano entrare. Ma la gente sapeva che egli possedeva il fuoco, e Cervo decise di rubarlo per loro. Prese del legno resinoso, lo spaccò e si infilò le schegge tra i capelli. Poi legò assieme due barche, le coprì di assi e si mise a cantare e danzare su di esse, e così facendo giunse alla casa del vecchio. Cantava: ‘Oh, io vado a prendere il fuoco’. La figlia del vecchio lo sentì cantare e disse al padre: ‘Oh, lascia entrare in casa lo straniero: canta e danza così bene!’. Cervo approdò e si avvicinò alla porta, cantando e danzando, e mentre così faceva balzò in direzione della porta come se volesse entrare in casa. La porta allora si chiuse di scatto ma senza toccarlo. Ma non appena cominciò a riaprirsi, egli balzò veloce dentro la casa, si sedette al fuoco come se volesse asciugarsi e continuò a cantare. Intanto lasciò ricadere in avanti la testa e si ricoprì di fuliggine; alla fine le schegge che aveva sul capo presero fuoco. Allora Cervo balzò fuori, fuggì via e portò il fuoco alla gente”.
Ad Antonia è piaciuto che concludessi così il testo di questo saggio.
Aggiunto il 25/11/2020 16:28 da Angelo Giubileo
Argomento: Filosofia della storia
Autore: Angelo Giubileo
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