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L'ASSOLUTO TRA I FILOSOFI

1 . Che cos’è? Perché? … e ci si accontenta di rispondere: è questo, è quello! Oppure: dipende da…, la causa è… Così ci si dimentica di ciò che in verità desideriamo sapere: l’Assoluto!

Alla fin fine solo l’Assoluto dovrebbe interessarci veramente.

Ma, in genere, ci si accontenta di risposte ridotte; anzi, questo rassegnato riduzionismo diviene sinonimo di spiccato senso critico, se non, addirittura, di consapevolezza intelligente.

E, allora, a proposito dell’Assoluto, con ostentata saggezza e presunta maturità, si dichiara: non facciamo domande infantili!

Ma, d’altra parte, è proprio della filosofia essere l’infanzia dell’intelletto, perché, come scrive Leszek Kolakowski, essa è “come Peter Pan, non matura mai”. (pag. 100).

 

2 . Così Ludwig Wittgenstein: “Non come il mondo è, è il Mistico, ma che esso è”. (prop. 6.44).

È nel puro esistere del mondo che, allora, si rivela l’Assoluto, e che può essere colto nel sentire mistico – anche per Aristotele la filosofia nasce dalla meraviglia –.

Nel sentire mistico si svela un’anteriorità, una primordialità che non può essere solo di natura sensibile, ammesso e non concesso che si sappia già cosa significhi natura sensibile.

Michel Meyer, ricordando la reminiscenza platonica, scrive: “Grazie al contatto col sensibile, si apprende qualcosa, vale a dire che cos’è, ma non è da esso che tale sapere procede. Il ricordo fa apprendere che cos’è il sensibile come qualcosa di anteriore”. (pag. 119)

Sentire questa anteriorità, sentire che il mondo è, questo sentire mistico è, appunto, quel rivelarsi dell’Assoluto che, costituendone l’ambito, apre alla possibilità stessa della domanda filosofica.

Così Maurice Merleau-Ponty: “Nessuna domanda va verso l’Essere: sia pure per il suo essere di domanda, essa l’ha già frequentato, ne ritorna”. (Il visibile e l’invisibile, pag. 143).

 

3 . Vale la pena di recuperare quel sentire mistico che, originantesi dalla pura esistenza del mondo, può aprire a quell’Assoluto, che la filosofia interroga, attraverso La Lettera di Hugo von Hofmannsthal.

In questa splendida e celebre Lettera, immaginariamente scritta da Lord Chandos a Francesco Bacone, l’autore esprime con insuperata maestria il sublime del puro e semplice esistere delle cose.

Accorgersi di questo o, meglio ancora, della sublimità della loro pura esistenza, significa non riuscire più ad accostarsi al mondo con lo sguardo disincantato e semplificatorio dell’abitudine e, quindi, vuol dire perdere “la facoltà di pensare o di parlare con coerenza di una qualsiasi di quelle (cose)”. (pag. 13).

Lo stupore che proviene dal sentire mistico implica non solo la difficoltà di comprendere razionalmente l’Assoluto che così si rivela, ma addirittura conclude nell’impossibilità di dirLo.

Nel sentire mistico, dunque, anche le “cose da nulla” rivelano l’Assoluto: “un annaffiatoio, un erpice abbandonato sul campo, un cane al sole, un misero camposanto, uno storpio, una piccola casa colonica” (pag. 19) …, e ancora… “la più misera delle creature, un cane, un topo, un insetto, un melo stento, una carrareccia che si snoda tortuosa sul colle, un sasso ricoperto di muschio”… (pag. 25), tutto ciò è qualcosa. “Tutto, tutto ciò che esiste, tutto ciò di cui mi rammento, tutto quello che sfiorano i miei più confusi pensieri mi sembra essere qualcosa”. (pag. 25).

 

4 . “Ammutolito coesistere panico” (pag. 71), così Aldo Masullo intitola un suo magistrale e penetrante saggio sulla Lettera di Hofmannsthal.

Per Masullo è solamente attraverso la corporeità vissuta del soggetto patico che, al di là del linguaggio verbale, pubblico e istituzionalizzato, si può recuperare quella “naturalità del vincolo cosmico” (pag. 74) che altrimenti andrebbe perduta.

Questo contatto totale con la natura comporta, tuttavia, l’impossibilità di dirlo, ed è, appunto, sul problema della dicibilità o meno della pura esistenza dell’Assoluto che Masullo approfondisce la sua interpretazione critica della Lettera di Hofmannsthal.

E scrive in proposito: “L’indicibilità della cosa semplicemente esistente non è l’ ‘oscenità’ o l’ ‘astrazione’ dell’ottusa separatezza particolaristica, ma è l’aprirsi della paticità corporea vivente, provocata dalla ragione idealizzante, al contatto con la totalità dell’esistere, dunque con l’essere. Solo questo aprirsi rende l’indicibilità, paradossalmente, tema del dire filosofico”. (pag. 76).

 

5 . La ragione filosofica o, come la chiama Masullo, ragione idealizzante, nel suo aprirsi all’Assoluto, è ben consapevole del paradosso in cui viene a trovarsi, quello appunto di dover dire l’indicibile.

Già Wittgenstein, in proposito, conclude il suo Tractatus con la celeberrima proposizione: “Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere”. (prop. 7).

Ma, poi, si sa come lo stesso Wittgenstein non abbia rispettato questo suo precetto.

D’altronde, si deve sempre fare i conti con la trappola logica dell’auto-referenza, per la quale raccomandare il ‘silenzio assoluto’ significa violare, con la raccomandazione, questo stesso comandamento. (Kolakovski, pag. 51).

Ma non può essere solo una necessità logica, quasi fosse un nodo perverso della razionalità umana, quella che ci impone, comunque, di pensare all’Assoluto.

Masullo, nel concludere il suo acuto saggio, sottolinea come “il muto sentimento partecipativo della semplice animalità” venga messo fuori gioco dalla memoria che, come coscienza culturalmente formata e simbolicamente comunicativa e come “vita spesa nella ragione, può permettere alla tacita partecipazione di essere cosmica”. (pag. 82).

 

6 . E ancora, la ragione che si apre all’Assoluto, per Alfred North Whitehead, “è un tropismo verso la luce che invita, verso il sole che tramonta, verso la finalità delle cose, e verso il sole che nasce dalla sua origine”. (pagg. 69-70).

Per Karl Jaspers “essa (ragione) non può tralasciare nulla di ciò che esiste, nulla trascurare, nulla escludere. Essa è in se stessa apertura illimitata”. (Ragione e antiragione nel nostro tempo, pag. 58).

Infine, Francis Herbert Bradley, contestando i pregiudizi ostili alla metafisica, scrive: “Devo invece suggerire al mio contraddittore di aprire bene gli occhi e di voler considerare quella che è la natura umana. È veramente possibile astenersi da qualsiasi forma di pensiero della totalità? Non intendo dire soltanto che ad ognuno di noi non può in ultima analisi non presentarsi, coscientemente o no, una qualche idea, sia pur grossolana, della realtà nel suo insieme. Intendo dire che, per svariati motivi, anche l’uomo comune è spinto a porsi degli interrogativi ed a riflettere: il mondo e la sua posizione all’interno del mondo rappresentano infatti per lui un oggetto naturale di riflessione e probabilmente lo saranno sempre. Sì che quando la poesia, l’arte e la religione avranno cessato di interessare, o quando non si occuperanno più dei massimi problemi e della loro soluzione; quando il senso del mistero e il senso dell’incantamento non porteranno più la mente a vagare senza meta e ad amare ciò che nemmeno lei conosce; quando, in breve, il crepuscolo avrà perduto il suo incanto, allora anche la metafisica non avrà più valore”. (pagg. 141-42).

Certo, qui Bradley, con l’intento di mostrare il profondo radicamento della metafisica nella natura umana, ha dato libero sfogo più alla sua vena poetica che al suo più consueto e stringente argomentare logico; ma, del resto, anche Hofmannsthal sottolinea la necessità di “pensare con il cuore”. (pag. 25).

 

7 . Movimento spontaneo (tropismo), apertura illimitata, ineludibile pensiero della totalità: con queste espressioni la ragione filosofica ci introduce al problema di come pensare all’Assoluto.

E, allora, chiediamoci: quale può essere il senso del risalto che anche le ‘cose da nulla’ assumono nel sentire mistico, come se potessero sembrare, quasi per incanto, più vere?

Se ciò dovesse dipendere esclusivamente da una loro (eventuale) assoluta ed irripetibile individualità – ciò che Giovanni Duns Scoto denominava “ecceità” (haecceitas) – alla ragione filosofica, forse, non resterebbe altro che limitarsi e risolversi in una pura e semplice ricognizione fenomenologica di fronte ad una molteplicità sterminata quanto mai varia, caotica e dispersiva.

Come, ancora poeticamente, scrive Albert Camus: “Dal vento della sera alla mano che si posa sulla mia spalla, ogni cosa ha la propria verità. È la coscienza che la rende comprensibile, con l’attenzione che le presta”. (pag. 41).

Una comprensibilità che finirebbe poi per non essere altro che l’estremamente variegato e indefinito risaltare delle cose, e la coscienza una sorta di “lanterna magica”, dove, “tutte le immagini sono privilegiate” (pag. 41), in modo tale che non vi potrebbe essere “una sola idea che spieghi tutto, ma una infinità di essenze, che darebbero un senso a una infinità di oggetti”. (pag. 42); insomma,  per Camus: “dire che tutto è privilegiato è lo stesso che dire che tutto è equivalente”. (pag. 43).

 

8 . Ma se, invece, fossero proprio il coesistere panico e il vincolo cosmico l’origine e il senso del risalto ontologico che le cose assumono nel sentire mistico, allora sensatamente alla ragione filosofica si prospetterebbe il compito di pensare questa unità comprensiva di tutte le cose e, perciò, in questo senso, lo sforzo di pensare all’Assoluto.

Giustamente, allora, Bradley scrive: “Il variegato spettacolo del molteplice fenomenico deve in qualche modo raggiungere una sua unità e coerenza, visto che non può trovar posto se non nella realtà e che la realtà non può ospitare la contraddizione”. (pag. 285).

Per Bradley, pensare l’Assoluto significa percorrere fino in fondo e condurre perciò alle estreme conseguenze logiche e ontologiche quei criteri di coerenza, unità e incontraddittorietà che, esprimendo una radicale coerenza teoretica, rivelano con ciò stesso l’idea di Assoluto.

Infatti, scrive ancora il filosofo inglese: “Tutto ciò che appartiene al mondo dei fenomeni è in qualche modo reale e l’Assoluto deve racchiudere in sé perlomeno tanta ricchezza quanta se ne riscontra nel relativo; inoltre l’Assoluto non è una pluralità, non vi sono cioè reali indipendenti. L’universo è uno nel senso che le sue differenze esistono armoniosamente in una totalità al di fuori della quale non vi è nulla”. (pag. 290).

Sulla questione del nulla, poi, basti ricordare quanto scrive Jaspers: “Il nulla assoluto può essere solo in virtù della possibilità dell’essere, e già questa possibilità è l’essere, davanti al quale io ammutolisco perché naufraga il tentativo di pensare il nulla assoluto. […] È l’essere ancora del tutto indeterminato, che certo è nulla, ma nel senso dell’infinita pienezza della possibilità. Nel silenzio mi accerto, in maniera unica, dell’impossibilità del non-essere assoluto”. (Metafisica, pagg. 140-41).

‘Niente può’, infine, il nulla (nemmeno seriamente dubitare!) di fronte alla pura esistenza dell’Assoluto quale si rivela nel sentire mistico!

 

9 . La pura esistenza (il ‘che è’) dell’Assoluto, che il sentire mistico coglie, trova nell’idea della unità coerente e onnicomprensiva la possibilità di essere pensata in un ‘come è’ (dell’Assoluto).

Tuttavia, che nell’Assoluto si distingua tra il ‘che’ e il ‘come’ del suo ‘essere’, può avere senso solo per il pensiero e, dunque, per l’apparire finito (astratto) dell’Assoluto stesso.

La paradossalità che, nel pensare l’Assoluto, assume il rapporto finito-infinito viene così efficacemente espressa da Merleau-Ponty: “Il paradosso di un essere totale che è dunque sin dall’inizio tutto quello che noi possiamo essere e fare, e che, tuttavia, non sarebbe quello che è senza di noi, poiché ha bisogno di aumentare se stesso col nostro proprio essere”. (Elogio della filosofia, pag. 15).

D’altra parte, trovandoci nell’ambito dell’Assoluto, come non porre in questione lo stesso senso del ‘pensare l’Assoluto’, e, pertanto, chiederci cosa significhi pensarLo – se non chiederci, molto più semplicemente, ‘cosa significhi pensare’ – (cfr. Martin Heidegger)?

E, poi, il pensiero rivolto all’Assoluto non aspira forse a raggiungere quella stessa unità onnicomprensiva, la quale ricomprendendolo (il pensiero si intende), in qualche modo dovrebbe, allo stesso tempo, sublimarlo?

Per questo il pensiero dell’Assoluto è anche necessitato a pensare (in qualche modo) l’Assoluto come Altro da se stesso (pensiero).

Scrive, infatti, Bradley: “Nel nostro Assoluto il pensiero può quindi vedere senza alcuna incongruenza il suo Altro. L’intera realtà sarà semplicemente l’oggetto pensato fino in fondo, il che significa pensato in maniera tale da produrre il trascendimento del puro pensiero, così come sarà, a pari titolo, una forma perfettamente attuata di sentire in grado di restituirci con gli interessi, nella sua immediatezza, ognuna delle caratteristiche andate perdute nella dissociazione della totalità originariamente presente”. (pagg. 330-31).

 

10 . Così Blaise Pascal: “Il supremo passo della ragione sta nel riconoscere che c’è un’infinità di cose che la sorpassano. È ben debole, se non giunge a riconoscerlo”. (pag. 56).

La ragione filosofica, nel pensare all’Assoluto, è costretta ad auto-trascendersi in “una più alta esperienza”. (Bradley, pag. 318).

La priorità e l’imprescindibilità dell’Assoluto, rispetto alla possibilità stessa di pensarLo, vengono decisamente ribadite anche da queste affermazioni di Alan Watts: “Non esiste un punto dal quale la conoscenza dell’infinito possa cominciare, se non dall’infinito stesso”. (pag. 54); e ancora, “l’infinito non è accessibile né a prove né a dubbi, in quanto entrambi possono riferirsi soltanto ad oggetti conosciuti. In qualità di Realtà ultima, non esiste punto di vista esterno da cui partire per dubitarne o per provarlo. Siamo quindi costretti a prenderlo così com’è”. (pagg. 57-58).

Ma, allora, il pensiero dell’Assoluto o, il che è lo stesso, la conoscenza della Realtà infinita, che Watts propone in questa sua dottrina della Suprema Identità, non può giammai limitarsi ad essere puro pensiero o mera conoscenza, senza diventare, invece, realizzazione: le cose e gli oggetti sono ciò che sono solo perché partecipano dell’infinita esistenza e coscienza.

Per questo “il vero fine dell’uomo è la realizzazione dell’Identità Suprema di atma e di Brahma, del sé e dell’infinito”. (pag. 85).

 

Bibliografia:

F.H.Bradley, Apparenza e realtà, Milano 1884

A.Camus, Il mito di Sisifo, Milano 1980

M.Heidegger, Che cosa significa pensare?, Milano 1979

H.von Hofmannsthal, Lettera di Lord Chandos, Pordenone 1992

K.Jaspers, Ragione e antiragione nel nostro tempo, Firenze 1978

K.Jaspers, Metafisica, Milano 1995

L.Kolakowski, Orrore metafisico, Bologna 1990

A.Masullo, Filosofie del soggetto e diritto del senso, Genova 1990

M.Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile, Milano 1969

M.Merleau-Ponty, Elogio della filosofia, Roma 1984

M.Meyer, Problematologia, Parma 1991

B.Pascal, Pensieri, Torino 1967

A.Watts, La Suprema Identità, Vicenza 1993

A.N.Whitehead, La funzione della ragione, Firenze 1978

L.Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, Torino 1978

 




Aggiunto il 23/09/2018 12:33 da Alfio Fantinel

Argomento: Filosofia teoretica

Autore: Alfio Fantinel



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