Il male in Dostoevskij
di DAVIDE ORLANDI
Indice
Il Male…………………………………………………………………….…….6
1.1 L’uomo sotterraneo………………………………………………………….………6
1.2 La filosofia nel Romanzo.................................................................................7
1.3 La realtà del male..........................................................................................10
1.4 Castigo e redenzione………………………………………………………………16
La Libertà………………………………………………………………………………20
2.1 Il dolore come riscatto del peccato………………………………………………20
2.2
La libertà come
dialettica..............................................................................23
2.3 La libertà come esperienza............................................................................25
Dio……………………………………………………………………………...33
3.1Dio come esperienza originaria.....................................................................33
3.2 Il Grande Inquisitore.....................................................................................37
3.3 Libertà come inizio e come scelta nel pensiero di Luigi Pareyson….………44
Conclusione………………………………………………………………………………………50
Bibliografia………………………………………………………………………………………54
Introduzione
Nikolaj Berdjaev, uno dei maggiori interpreti del pensiero letterario e filosofico di Fëdor Dostoevskij, scrisse di lui: «egli forse, ha imparato poco dalla filosofia, ma molto può insegnarle, e noi ormai da tempo filosofiamo sulle cose ultime sotto il segno di Dostoevskij»1. Dostoevskij non può essere considerato un filosofo nel senso accademico della parola, ma numerosi temi presenti da sempre nel vasto mondo della filosofia possono essere ritrovati e analizzati fra le pagine delle sue opere più importanti. Dall’Idiota a Delitto e castigo, dalle Memorie del sottosuolo ai Fratelli Karamazov, passando per I demoni, si snoda una profonda ricerca filosofica e psicologica degli aspetti più reconditi e indomabili della natura umana. Dostoevskij, attraverso i personaggi delle sue opere, dà espressione ai grandi conflitti dello spirito incarnandoli in figure epocali, dischiudendo così un orizzonte nuovo di pensiero che si lascia alle spalle molte delle tradizionali categorie filosofiche. La sua opera è popolata da figure controverse, portabandiera della dicotomia imperante nell’anima umana; esse rappresentano le innumerevoli facce che caratterizzano la natura sfaccettata dell’uomo. La concezione di Dostoevskij, dimorante nei suoi romanzi, è tesa all’intuizione del destino dell’uomo e del mondo: un’intuizione concettuale, conoscitiva e filosofica. La sua opera racchiude il dinamismo impetuoso della natura umana, elevandola a tragedia interiore di un unico destino umano nei diversi aspetti del suo percorso esistenziale.
In questo mio articolo andrò ad analizzare i diversi connotati filosofici riscontrabili nelle opere dello scrittore russo attraverso l’interpretazione di uno dei maggiori filosofi e interpreti contemporanei del pensiero di Dostoevskij: Luigi Pareyson. Quest’ultimo può essere considerato uno dei maggiori filosofi italiani del XX secolo, le sue ricerche si soffermarono soprattutto sull’esistenzialismo tedesco e in particolar modo sulla figura di Karl Jaspers, sull’ontologia dell’inesauribile, il cui vertice è costituito da Verità e interpretazione (1971) e nell’ultimo periodo del suo pensiero su una filosofia della libertà, culminante nell’opera Ontologia della libertà (1995). La riflessione sulla libertà ha sempre avuto una notevole importanza nel pensiero filosofico di Pareyson, così come l’ha avuta la figura di Dostoevskij, come dimostrano i corsi e i saggi raccolti dopo la sua scomparsa nel volume Dostoevskij del 1993. Lo scrittore russo rimarrà un punto di riferimento fondamentale per il pensiero di Pareyson, soprattutto per quanto concerne i temi della libertà, del male e di Dio, ampiamente scandagliati nell’opera Ontologia della libertà, tanto da essere definito come «filosofo o pensatore da cui la filosofia non può prescindere»2. L’opera di Pareyson contiene una lettura di Dostoevskij articolata e precisa che si concreta in una serie di prospettive largamente dibattute dalla critica e allo stesso tempo costituisce un’interpretazione unitaria del pensiero dello stesso Pareyson. L’interpretazione di Dostoevskij ad opera del filosofo italiano si avvicina e raccoglie quella del filosofo russo Berdjaev, soprattutto per quanto riguarda una visione pneumatologica in cui la libertà, matrice di conflitti esistenziali, attraverso il gioco delle passioni ha a che fare anzitutto con l’essere e solo occasionalmente con la psicologia degli individui. Questa visione è rivolta a un realismo tragico e a una filosofia della tragedia: l’idea della centralità del problema della libertà come facoltà del bene e del male da svolgersi nei suoi risvolti ontologici. Alla luce dell’interpretazione offerta da Pareyson per quanto riguarda una concezione filosofica dell’opera di Dostoevskij, analizzerò i temi fondamentali che ne costituiscono l’ossatura. Innanzitutto prenderò in esame tre momenti fondamentali legati a tre ordini di esperienza del pensiero dostoevskijano: l’esperienza del male, l’esperienza della libertà e l’esperienza di Dio. Questi tre principi costituiscono il cuore del pensiero di Dostoevskij e rappresentano la chiave dell’interpretazione parysoniana di una filosofia della libertà. Al centro di questa interpretazione deve essere posta l’esperienza della libertà; solamente attraverso di essa i termini di bene e di male si mantengono nella loro irriducibilità, pur con tutta l’ambiguità con cui spesso si presentano. La libertà fa vivere e agire i personaggi creati da Dostoevskij poiché essi incarnano un principio che è un tutt’uno con la vita: questo principio è la libertà. Nel primo capitolo di questo mio articolo analizzerò in particolar modo l’esperienza del male e le motivazioni per le quali questa è necessaria per la piena realizzazione della libertà; il male non può esistere senza di quest’ultima poiché è unicamente frutto di una libera scelta e non è generato da un semplice offuscamento di coscienza o da un errore di valutazione. Al contrario, esso può essere infinitamente desiderato, intimamente bramato, al pari di una voluttà che sconvolge tutti i sensi; da ciò si vedrà come la libera adesione al male sia preferibile alla costrizione al bene, poiché in quella si riscontra almeno un elemento positivo: la scelta, sia pure del male. L’esperienza del male è, quindi, intimamente connessa all’esperienza della libertà, come esporrò nel secondo capitolo. Come allude Dostoevskij nel corso di tutta la sua opera, la libertà non è solamente una facoltà dell’anima umana di scegliere il bene e rifiutare il male, ma rappresenta qualcosa di più originario e irrinunciabile, qualcosa che va còlto a livello metafisico ovvero nel cuore stesso dell’essere. La libertà possiede questo carattere originario perché si presenta prima sia del bene sia del male: precede la loro distinzione che, non si dà se non in forza del fatto che il bene è tale in quanto liberamente accolto e il male è tale in quanto liberamente voluto. Da questa possibilità di scelta, nel secondo capitolo esporrò la tesi parysoniana di come alla radice di tutto risiede la libertà e di come, attraverso di essa, tutto è possibile e abissalmente affacciato sugli opposti. Nel terzo e ultimo capitolo, infine, analizzerò l’esperienza della libertà in quanto voluta da Dio; Egli rappresenta il momento culminante dell’esperienza della libertà, il termine a cui tutto deve far capo. Dio, nella concezione di Dostoevskij analizzata e interpretata da Pareyson, viene identificato come un principio ancora più originario e radicale della libertà, a cui la libertà stessa deve ricondursi; poiché esiste un nesso indistruttibile fra quest’ultima e Dio, in cui un termine non può sussistere senza la relazione con l’altro: né Dio senza libertà, né la libertà senza Dio. La relazione fra questi due termini troverà la massima espressione in una delle opere più suggestive di Dostoevskij: La Leggenda del Grande Inquisitore. In essa la libertà e Dio si legheranno in maniera indissolubile attraverso la figura di Cristo, dando vita al coronamento della dialettica dostoevskiana attraverso il rapporto d’esperienza fra male, libertà e Dio. Per concludere il viaggio nella concezione di Dostoevskij tratterò di quanto essa abbia influenzato il pensiero di Luigi Pareyson, soprattutto per quanto riguarda i temi del male e della libertà. Così come nello scrittore russo, anche in Pareyson il male non viene inteso come assenza di essere o privazione di bene, ma viene inteso come una vera e propria realtà: una realtà positiva nella sua negatività. Esso risulta da un atto consapevole di trasgressione e rivolta, di rifiuto e rinnegamento nei confronti di una possibile positività; da una forza negatrice che non si limita a un atto di privazione, ma che, instaurando positivamente un regime di negatività, è un atto negatore e distruttore. Nell’interpretazione di Pareyson il male va dunque inteso nel significato più intenso della ribellione e della distruzione. All’analisi della realtà del male si ricollega la centralità assoluta della libertà; essa viene identificata come inizio assoluto, creatrice della possibilità di scelta fra principio positivo e negativo.
Attraverso Dostoevskij il pensiero di Pareyson discende la spirale del male dove si intrecciano senza speranza i legami fra libertà e Dio, fra peccato e redenzione. Il discorso pareysoniano trascende la semplice esposizione per avventurarsi all’interno di un territorio in cui dialoga apertamente con Dostoevskij come lui stesso ricorda: «è forse possibile esporre e interpretare Dostoevskij senza interloquire continuamente nel discorso? Parlare di lui senza parlare con lui? È questo il tipo di fedeltà che egli richiede; di lui non si può parlare senza diventare in qualche modo uno dei personaggi, che agitano continuamente e nelle più diverse maniere i problemi che sono suoi; senza partecipare attivamente a quella polifonia di uomini e idee in cui consiste la sua opera»3.
Il male
1.1 L’uomo sotterraneo
La vita di Dostoevskij può essere considerata come la chiave per interpretare due dei temi fondamentali che caratterizzano la sua produzione artistica: il tema del parricidio, il quale trova la sua massima espressione nel capolavoro I fratelli Karamazov, e il tema della violenza sulla donna, come nel caso della fanciulla stuprata da Stavrogin nel celebre capitolo espunto dei Demoni, o della ragazza come nel caso di Nastas’ja Filippovna nell’Idiota. Questi due temi artistici traggono spunto in due dei tratti più importanti della vita di Dostoevskij. Innanzitutto il tema del parricidio si ricollega col fatto che Dostoevskij desiderò realmente la morte del padre e successivamente se ne sentì colpevole, «con conseguenze che divennero oggetto di studio da parte di Sigmund Freud»4. In secondo luogo, il tema della violenza sulle donne è certamente riscontrabile nella biografia del romanziere russo, non in misura così orribile come nell’esperienza di Stavrogin ma nella natura degli amori di Dostoevskij ci fu certamente un alone di possessività, un elemento oppressivo e una violenza oscura che si rifletterà in tutte le sue opere. Ed è significativo il fatto che il protagonista delle Memorie del sottosuolo esclami: «amare significa per me tiranneggiare e dominare moralmente. Durante tutta la mia vita non sono riuscito a rappresentarmi un altro amore, anzi qualche volta sono arrivato al punto di pensare che l’amore non consista in altro che nel diritto, liberalmente accordato dall’essere amato a colui che ama, di tiranneggiarlo. Nelle mie fantasticherie di sottosuolo io non immaginavo l’amore se non come una lotta: lo cominciavo sempre con l’odio e lo finivo con l’assoggettamento morale» 5.
Le Memorie del sottosuolo rappresentano il terrore supremo dell’uomo, la disperazione di chi rinnega i più nobili ideali dell’idealismo umanitario e «schilleriano , dopo essersi reso conto che essi non servono che a nascondere la verità a discapito di un’ipocrita fratellanza universale; con questo termine Dostoevskij intende tutto ciò che è elevato e bello»6. Questi ideali, che all’inizio riempivano di entusiasmo l’anima di Dostoevskij, dopo averne scoperto la menzogna di fondo non fanno che procuragli orrore e disgusto. Per lo scrittore russo, l’uomo deve essere accettato e ascoltato così come si presenta nella realtà, senza il velo dell’inganno e della menzogna, perché le grandi idee possono celare sotto una maschera splendente, un volto di oscurità. Le Memorie del sottosuolo impongono la ricerca di una verità e di una sincerità assoluta che possano portare alla luce la crudeltà e la meschinità del genere umano; dopo quest’opera, il delitto e il castigo diverranno il fondamento estetico di tutto il pensiero dostoevskijano.
1.2 Filosofia nel romanzo
La filosofia di Dostoevskij bisognerà cercarla nella sua arte, perché solamente nella sua arte potrà dispiegare il suo immenso potenziale. I temi della filosofia di Dostoevskij sono individuabili nell’esito artistico ch’egli ha saputo dare alle proprie idee e al loro movimento speculativo. L’arte di Dostoevskij, definita come un «realismo superiore»7, è già di per sé un’ interpretazione del reale. I personaggi dei romanzi di Dostoevskij infatti, sono collocati in un determinato ambiente o società ed egli il più delle volte ne descrive le caratteristiche fisiche principali ma il lettore stranamente non se ne accorge, anzi, risulta addirittura infastidito da questo cambio repentino che passa dal descrivere la natura profonda della personalità ad un superficiale interesse per i tratti somatici o i capi d’abbigliamento. Questo avviene perché, immergendoci tra le pagine di Dostoevskij, tutto ciò che è visibile o veduto si muta immediatamente in fantasma, che a sua volta si innalza a forma di una realtà superiore che oscura la visuale delle cose immediatamente visibili. Analogamente tutti i personaggi creati dal suo genio vivono in uno spazio e in un tempo molto diverso da quello reale, ma più consono alla loro esistenza spirituale e profonda. Per Dostoevskij, spazio e tempo sono forme intime e spirituali che rendono reale e visibile il mondo esteriore e fisico; nelle sue opere essi cessano di essere determinazioni del reale, di una realtà fisica, e si mutano in enti spirituali, in luoghi di dolore e tragedia, decisivi per un intero destino.
I personaggi di Dostoevskij, quindi, benché socialmente collocati e inseriti in uno spazio e in tempo determinato, vivono in una realtà superiore, in un empireo di spiritualità. Essi non fanno mai niente nel senso proprio del termine, sono estranei a professioni lavorative e a impegni sociali, ma cosa più importante, non cessano mai di dialogare tra loro e attraverso questa interazione vivono esperienze decisive per la loro esistenza. Nikolaj Berdjaev, uno dei filosofi russi più conosciuti in occidente e uno tra i più celebri interpreti del pensiero di Dostoevskij, scrive che «la preoccupazione fondamentale di quest’ultimo, l’unico tema a cui tutto il suo lavoro tende, è l’uomo e il suo destino. L’uomo è identificato come un microcosmo, come il centro dell’essere, un sole intorno a cui tutto si muove. Nell’uomo è celato il mistero dell’universo e risolvere l’enigma dell’uomo vuol dire necessariamente risolvere il problema di Dio»8. Nel pensiero filosofico di Dostoevskij rientrano tutti gli elementi formali e stilistici delle sue opere ed è per questo che è un grandissimo artista e allo stesso tempo grandissimo filosofo, egli è uno dei più grandi metafisici russi. Le sue opere racchiudono in sé la forza dirompente della tragedia, esse sono tragedie in forma di romanzi. Rappresentano la tragedia interiore di un unico destino umano, di un unico spirito umano che svela i propri aspetti in momenti diversi del percorso esistenziale. I pensieri degli eroi dei suoi romanzi non rappresentano solamente opinioni, ma sono irradiazioni d’idee viventi, le loro vite non sono biografie ma destini. Le idee di Dostoevskij sono indissolubilmente legate al destino dell’uomo, del mondo e di Dio, sono destini dell’essere. I personaggi delle sue opere più che individui sono idee personificate e in continuo movimento. Scrive Berdjaev: «l’intera opera di Dostoevskij è la soluzione di un grande problema di idee. Raskol’nikov è un’idea; Stavrogin è un’idea e anche Kirillov. Tutti i suoi eroi sono letteralmente assorbiti dalle idee: ne sono ebbri. Le idee sono immanenti alla sua arte: egli ne concepisce l’esistenza in modo soltanto artistico. Egli concepisce idee originali ma sempre in movimento, dinamiche, nel loro tragico destino»9. Questa ragione testimonia la falsità dell’affermazione per cui la grandezza di Dostoevskij consista nel carattere psicologico dei suoi romanzi. Nelle sue opere va ricercato fondamentalmente non la psicologia ma la ‛pneumatologia’, ovvero la prospettiva di una realtà spirituale dell’uomo, la tragicità del suo destino e la sua possibilità di bene e di male. Nelle figure dostoevskijane si sintetizzano indissolubilmente tempo ed eternità, sono idee personificate, non individui temporali e transitori. Le vicende di questi personaggi sono proiettate su uno sfondo esterno; proiettando la narrazione su questo sfondo eterno ne scaturisce una metastoria.
Nei Demoni tutta la vicenda ruota attorno alla figura tenebrosa di Stavrogin; egli è un uomo completamente morto interiormente ma che sa destare la vita a coloro che gli stanno intorno. Dalla sua creatività posta sotto il segno della distruzione nascono sempre nuove idee che, in ultima analisi, culminano con la distruzione degli altri e di se stesso. Il tema centrale del romanzo è la decifrazione dell’enigma di Stavrogin. Contrapposta alla figura avvolta nelle tenebre di Stavrogin, nell’Idiota, invece, la figura luminosa del principe Myskin illumina chi gli sta intorno. Se i tenebrosi sono i personaggi enigmatici che tutti cercano di decifrare, i luminosi invece penetrano e indovinano gli altri. Il principe Myskin comprende ogni sfumatura dell’anima dell’uomo e rivela ognuno a se stesso. I Demoni e l’Idiota rappresentano la dicotomia dell’anima umana attraverso i due protagonisti, Stavrogin e il principe Myskin. Nei Fratelli Karamazov luce e oscurità duellano in uno scontro senza fine all’interno dell’animo dei quattro fratelli. Nel suo assoluto capolavoro, Dostoevskij fa emergere le figure di Ivan e Dmitrij; il primo, che crede in Dio, ma nega la creazione capovolgendo la religiosità nell’ateismo e nella follia. Il secondo, peccatore incallito ma credente in Dio e nel bene, muta il peccato in dolore accettando l’espiazione di una colpa non commessa. Tutti gli eroi di Dostoevskij s’identificano con lui stesso, con i molteplici aspetti del suo essere e con la sua esperienza dolorosa. Dal punto della qualità artistica le opere di Dostoevskij non sono propriamente ‛romanzi’, nonostante racchiudano vere e proprie vicende di vita, amore e morte, ma veri e propri ‛trattati filosofici’ in quanto danno luogo a veri e propri ‛destini’, esplicati in riflessioni ultime sul valore e sulla libertà dell’esistenza umana. «I romanzi di Dostoevskij sono allora pervasi dalla forza dinamica delle idee, la parola più usata in tutta l’opera della scrittore russo»10. Il termine ‛idea’ ha per Dostoevskij due significati nettamente opposti tra loro: nel primo caso è rappresentata come il ‛seme celeste’, ovvero come la presenza di Dio nel cuore dell’uomo; nel secondo invece è il risultato dell’uomo ormai decaduto, suggestionato da forze demoniache, sfocianti in ideologie e illusioni. La dualità delle idee rappresenta l’espressione più profonda della concezione di Dostoevskij sulla natura dialettica della realtà e sull’esercizio umano della libertà. La differenza tra idee divine e idee demoniache rimanda al duplice senso della libertà riportata nella Sacra Scrittura ovvero, libertà che entra nel mondo per mezzo della verità e libertà come volontà di trasgredire la norma, godere del frutto proibito e identificarsi con Dio. Tutta l’opera di Dostoevskij è caratterizzata dalla continua tensione di questi due opposti di libertà e il significato ultimo del destino umano si decide nel cuore dell’uomo, campo di battaglia della lotta tra bene e male.
La realtà del male
Da quanto detto poc’anzi si evince che l’esperienza fondamentale di Dostoevskij è la constatazione della realtà del male. Egli si scaglia contro l’ottimismo idealistico e positivistico dell’Ottocento che considera il male solamente come elemento dialettico destinato al superamento ed esalta la realtà del male come carattere ineludibile e incontrovertibile su cui si basa l’intera tragicità della condizione umana. Una cosa è certa, il concetto che Dostoevskij ha del male è assolutamente antinomico. Egli voleva conoscere il male e in questo lo si può paragonare a uno gnostico; la natura del male è interna e metafisica, non esterna e sociale. Dostoevskij è forse il primo pensatore a riuscire nell’intento di pensare fino a fondo quella radicalità del male che Immanuel Kant aveva solamente nominato. L’autore della Critica della ragion pura espone le sue tesi riguardanti il male radicale nell’opera La religione dei limiti della semplice ragione; il male radicale kantiano s’identifica con l’anteporre il particolare all’universale, scambiare il proprio volere particolare con l’imperativo categorico, elevare a massima universale il volere particolare. In quest’opera Kant parla di male diabolico in quanto esso è inconcepibile, inconcepibile alla ragione che un essere umano scelga il male sapendo che è male. Attraverso l’indagine operata nelle Memorie del sottosuolo, a differenza di Kant, Dostoevskij mira a porre in evidenza la realtà del male, in quanto spoglia l’uomo di quell’elemento di spiritualità edulcorata per esaltare la deliberata malvagità dei suoi istinti. L’armonia dell’universo non può garantire la condotta irreprensibile dell’uomo; all’universalità della ragione il soggetto può preferire la distruzione e nessun mito ottimistico può contestate la presenza di una realtà demoniaca nella vita dell’uomo. L’azione malvagia ad opera dell’individuo non è opera di ignoranza, ma può essere frutto della deliberata volontà dell’uomo di compiere il male. Conoscenza del bene e volontà di compiere il male sono caratterizzate da un rapporto simultaneo che trova la sua massima espressione nei Fratelli Karamazov. I fratelli sono il simbolo dell’intera umanità, unione di spirito angelico e distruzione demoniaca, slanci caritatevoli e cadute nell’abisso, anelito di salvezza e lenta capitolazione. Esemplificativa è la descrizione che Alesa Karamazov fa della sua famiglia: «I miei fratelli si perdono e mio padre anche. E perdono anche gli altri con loro. È la ‛forza fangosa dei Karamazov’, una forza fatta di fango, bruta, violenta. Non so nemmeno se al di sopra di questa forza aleggi lo Spirito divino. So soltanto che anch’io sono un Karamazov» 11. Da ciò si evince che, il male non rappresenta solamente la debolezza e la fragilità dell’uomo, ma qualcosa di molto più potente e imponderabile perché è sintesi di un’effettiva realtà demoniaca e di un’assoluta volontà di arbitrio. Il mondo umano è soggiogato da una positiva volontà di male che instaura un regime positivo di realtà negativa, ovvero il risultato di una realtà diabolica completamente padrona dei propri mezzi e la decisione di una libertà senza limiti, sciolta da ogni vincolo legislativo e morale. Il male, di conseguenza, non è altro che il frutto della volontà e della libertà dell’uomo, che deliberatamente e nel pieno possesso delle sue facoltà compie l’azione malvagia, traendone compiacimento e godimento.
Innanzitutto, il male può scaturire dalla trasgressione della norma, sia essa morale o sociale. Il male, in questo caso, assume l’aspetto di una deliberata infrazione, che implica l’affermazione della libertà illimitata e arbitraria avente il preciso intento di trasgredire alla norma. Si tratta di una ribellione che, nelle opere di Dostoevskij, assume significati diversi a seconda dei personaggi, ma è soprattutto nelle figure di Raskol’nikov e di Stavrogin, che essa dispiega tutto il suo potere distruttivo; la ribellione porta al delitto, il delitto al dolore e quest’ultimo alla distruzione di sé e degli altri. La prima figura, il primo caso di delitto è quello di Raskol’nikov, eroe di Delitto e castigo. Egli non è di per sé malvagio, possiede una natura generosa verso la famiglia e gli emarginati, crede in Dio e infine accetta di costituirsi alla giustizia. Ciò non di meno, egli prova un odio smisurato nei confronti della condizione umana; Raskol’nikov decide di compiere il delitto, di estirpare una vita umana per mettere alla prova la propria libertà illimitata, egli trasgredisce alla norma morale per dimostrare a se stesso di essere al di là del bene e del male. Egli uccide la vecchia usuraia per dimostrare, non al mondo ma soprattutto a se stesso, di appartenere a quella ristrettissima cerchia di esseri eccezionali, di uomini superiori, ai quali ogni azione, ogni atto criminoso è permesso. Il popolo non può far altro che obbedire ed essere soggiogato dal dominio dei governanti, invece questi esseri eccezionali sono al di sopra del popolo, al di sopra del governo, in un empireo di pura libertà e superiorità. L’omicidio compiuto da Raskol’nikov, doveva appunto rappresentare il lasciapassare per quest’Olimpo di esseri eccezionali, trasgressori di una norma che non si addice alla caratura di figure così preminenti. Emblematiche le sue parole che riassumono il perché ha ucciso: «Non ho ucciso per aiutare mia madre, sciocchezze! Non ho ucciso per avere i mezzi e il potere e per diventare un benefattore dell’umanità! Sciocchezze! Ho ucciso e basta: ho ucciso per me stesso, per me solo. Non era tanto il denaro che mi occorreva, quanto un’altra cosa. Avevo bisogno di sapere, e di saperlo subito, se io ero un uomo oppure un pidocchio come tutti; se sarei stato capace di trasgredire o no; se avrei avuto il coraggio di chinarmi e di prendere, oppure no; se non ero che un essere tremebondo, o se avevo il diritto»12. Il peccato di Raskol’nikov risiede nell’infrazione della legge e nell’affermazione di sé; egli però, dopo aver compiuto il delitto, si rende conto di essere stato capace solamente di uccidere ma di non essere riuscito a scavalcare la legge morale: egli non è riuscito a collocarsi nell’empireo degli uomini superiori. Attraverso il suo gesto, egli si rende immediatamente conto di aver ucciso anche se stesso, di non aver acquistato il diritto di appartenere a quella ristretta cerchia di esseri eccezionali a cui tutto è permesso, superiori alla stessa norma morale. Il suo atto di libertà illimitata nega se stesso, facendolo precipitare in un baratro di sensi di colpa, facendolo sentire un «pidocchio»13, come lo stesso Pareyson afferma. Chi vuole oltrepassare la condizione umana non riuscendo a sopportarne il peso, finisce per esserne completamente schiavo, ancor di più di chi umilmente la accetta e vi si sottomette. La ribellione di Raskol’nikov è plateale, egli vuole affermare se stesso e la propria libertà illimitata macchiandosi della colpa del delitto, vuole ergersi al di sopra del bene e del male per non essere più soggiogato da alcuna legge o norma. Se egli vuole sciogliere le catene che lo tengono soggiogato e innalzarsi a superuomo, la figura di Stavrogin mostra una radicalizzazione ancora maggiore nel perseguire la via del male. Il protagonista dei Demoni, infatti, mostra una ribellione ancora più profonda e oscura rispetto a quella di Raskol’nikov. La rivolta di Stavrogin contro ogni tipo di legge culmina nell’indifferenza e nel nulla, non ha uno scopo prestabilito perché ha ormai oltrepassato il punto di non ritorno, giungendo a non distinguere più ciò che è giusto da ciò che è sbagliato. Egli rappresenta la radicalità del male che, dopo aver annientato ogni cosa che gli sta intorno, annienta anche se stessa in una fiammata di indifferenza e sperimentazione. Stavrogin rappresenta la natura superiore che Raskol’nikov non era riuscito ad essere, ma non per questo la sua libertà illimitata lo preserva dalla rovina e dall’annientamento. L’indifferenza e la noia portano il suo cuore a mutarsi in deserto arido e vuoto, dove bene e male diventano indistinguibili l’uno dall’altro come egli stesso afferma: «formulai per la prima volta in vita mia questo severo pensiero dentro di me: che non conosco e non sento né il bene né il male, e che non solo ne ho perduto il senso, ma so che il male e il bene in realtà non esistono nemmeno (e ciò mi faceva piacere), e non sono altro che pregiudizi; stava in me l’essere libero da qualsiasi pregiudizio, ma, raggiunta quella libertà mi sarei perduto»14. Egli è un semplice spettatore della distruzione di coloro che gli stanno intorno e infine di sé medesimo, poiché l’indifferenza porta con sé il peccato più grave, distruttore della vita interiore, ovvero l’accidia da cui deriva un gusto perverso per la sperimentazione estetica. Le persone che ruotano intorno alla vita di Stavrogin sono viste non come persone amate, bensì come semplici cavie, oggetti di sperimentazione, produttrici del piacere di una nuova esperienza. Esse vengono usate come contenitori in cui Stavrogin riversa le sue idee: nichilismo, titanismo ateo, nazionalismo religioso; egli osserva come queste idee che aveva coltivato ma a cui non aveva mai aderito portano alla dissoluzione le persone, custodi di queste idee medesime. All’interno di questi esperimenti dettati dalla noia si annida anche un germe d’insincerità, di menzogna che non sfugge a chi possiede lo sguardo limpido e sincero, come ad esempio la moglie sciancata dello stesso Stavrogin. Lei non riconosce più in lui il bel principe di cui si era innamorata, ma scorge dietro al quel velo di apparente calma e tranquillità, il suo sosia ovvero la sua stessa malvagità personificata e oggettivata. La libera volontà di Stavrogin non è altro che una grande forza inoperosa e abbandonata a se stessa, in quest’uomo la forza originaria non si dimostra ma si ripiega su se stessa, avvizzisce, generando azioni che in realtà non portano a nulla. La personalità di Stavrogin collima col suo spirito di negazione, che non è nient’altro che lo spirito del demonio. La sua forza che in origine era positiva, ma che un’oscura decadenza l’ha mutata in energia negativa, porta alla distruzione degli altri e di sé. Ogni persona che entra in contatto col suo spirito finisce per uccidere o per uccidersi e l’itinerario spirituale dello stesso Stavrogin, soffocato dal proprio sdoppiamento, culmina in una fiammata di autodistruzione. Da questo si deduce che la libertà illimitata che vuole affermare solamente se stessa trasgredendo a ogni legge o norma conduce all’assoluta incapacità di distinzione tra bene e male. La libertà senza freni può condurre sia al piacere della trasgressione, sia all’assoluta estasi per la violazione di una legge. «Nasce qui la perversione vera e propria» afferma Pareyson «per cui si fa il male non solo per deliberata volontà di infrangere la legge, ma anche per il piacere di questa consapevole e volontaria trasgressione: far il male per il male, offendere per il gusto di offendere, essere felice di commettere delitti»15. Nelle sue opere, Dostoevskij evidenzia in modo particolare due aspetti di perversione. Innanzitutto la perversione avente la maschera della profanazione, perché trasgredire a una legge per il semplice piacere di trasgredirla ha lo stesso impatto della violazione di un qualcosa di sacro, ed è appunto con questo spirito che i ‘demoni’ compiono il sacrilegio. Il secondo aspetto della perversione è rappresentata per Dostoevskij dal male, supremo, assoluto, senza possibilità di redenzione, nel quale molti biografi hanno visto un riflesso, seppur attenuato, della vita stessa dell’autore: la violazione dell’innocenza. Il carattere puro e incorrotto dell’innocenza rappresenta per i malvagi e i perversi un’attrattiva irresistibile, un qualcosa che va assolutamente violato e profanato. In molte opere di Dostoevskij la violazione dell’innocenza si cela tra le pagine, pronta a colpire e a trascinare nel fango vittime innocue, spaurite, colpevoli solamente di essersi trovate sulla strada dello spirito demoniaco. Ne è un esempio l’infelice Lizaveta Smerdjascaja, muta, stracciona e mendicante, violata da padre Karamazov che non vede in lei che la donna, vista come oggetto torbido e sensuale da profanare. Bensì la perversione più ripugnante è compiuta da Stavrogin nei confronti della povere adolescente Matresa, l’unica figura che gli tornerà in mente per assillarlo di rimorsi fino alla morte. Nella sua innocenza e disperazione, Matresa crede che la colpa della violazione non sia da attribuire ad altri che a se stessa, crede di essere stata lei stessa a «uccidere Dio»16 e in preda alla disperazione si impicca in un ripostiglio. La crudeltà suprema nasce, quindi, dall’attentato alla violenza sui bambini perché, come dice Pareyson: «Si tratta di un vero e proprio attentato all’ordine dell’universo, d’una sfida all’esistenza di Dio, d’una intenzionale e consapevole introduzione del demoniaco nel mondo, della dimostrazione più completa dell’insanabile realtà del male nelle azioni dell’uomo. Non per nulla Ivan Karamazov può accettare Dio, ch’egli sa che non esiste, ma non può accettare il mondo, che sa benissimo che esiste: infatti non si può accettare un mondo in cui esiste la sofferenza dei bambini, la sofferenza degli innocenti, cioè di coloro che non sono colpevoli di nulla»17; a questo riguardo Dostoevskij sentenzia: «se esiste la sofferenza dei bambini per opera dell’uomo, bisogna dire che l’uomo è veramente il diavolo. Se il diavolo non esiste, cioè se lo ha creato l’uomo, l’ha creato a propria immagine e somiglianza »18. La perversione, intesa come deliberata volontà di compiere il male, sfocia inesorabilmente nell’abiezione di sé. L’abiezione consiste nella voluttà di denigrarsi, di compiacersi della propria bassezza morale fino a sfociare in un vero e proprio rituale esibizionistico. La stessa cosa si presenta in Stavrogin; la perfidia con cui viola l’adolescente gli procura una voluttà perversa, portandolo a degradarsi sempre più. Ma il prototipo di questo genere di abiezione è rappresentato dalla figura più turpe e ignobile mai uscita dalla penna di Dostoevskij, il padre Karamazov. Egli è completamente schiavo della sensualità e della carne al punto da violare, per puro piacere lussurioso, una creatura muta e relegata ai margini della società come Lizaveta Smerdjascaja. Egli si abbandona a confessioni spudorate riguardo ai suoi vili piaceri solamente per abbandonarsi con tutto se stesso in nuove infamie, indossando la maschera del giullare egli si pone al di sotto dell’umiliazione, declinando ogni responsabilità nei confronti della legge morale.
L’azione del male nell’uomo non può che essere un’azione disgregatrice che porta alla completa dissoluzione della personalità. La scissione interiore ad opera del male è rappresentata per la prima volta da Dostoevskij nel Sosia. Per effetto dell’azione malvagia, insinuatasi nell’animo dell’uomo, la personalità si duplica, si divide in due: da una parte l’anima onesta in cui lo stesso «io» vorrebbe riconoscersi, dall’altra gli aspetti più oscuri e turpi dell’individuo stesso, il suo alter ego. L’alter ego non è un semplice prodotto della mente umana, si tratta del male personificato che risiede nel cuore di ciascun individuo; quest’ultimo non può sfuggirgli perché rappresenta una parte del suo io, la fuga da se stesso è impossibile perché nessuno può chiudere gli occhi alla presenza del male nella propria anima. Attraverso la disgregazione della personalità il sosia prende il sopravvento, facendo nettamente prevalere l’aspetto negativo, il quale si personifica nella figura del male assoluto, il demonio. La potenza del negativo, assumendo i tratti caratteristici del demonio, porta l’anima dell’uomo alla dissoluzione. Dostoevskij, attraverso l’analisi dello sdoppiamento, condanna senza remore l’ateismo, visto come trionfo assoluto del male; la sua potenza è presenza reale e costante nel cuore dell’uomo che, attraverso lo sdoppiamento di quest’ultimo, porta alla completa disgregazione della sua personalità.
1.4 Castigo e redenzione
L’azione del male porta alla dissoluzione e alla disgregazione della personalità perché esso è essenzialmente negazione. Il diavolo, visto con gli occhi del Grande Inquisitore rappresenta «il grande spirito, lo spirito intelligente e terribile, lo spirito dell’autodistruzione e del non essere»19. La concezione di Dostoevskij riguardo alla realtà del male non può essere definita né ottimistica, perché egli non nega la presenza dello spirito del male nel cuore dell’uomo, ma neanche pessimistica, in quanto egli non afferma nemmeno la sua insuperabilità. A detta di Pareyson, la concezione di Dostoevskij è essenzialmente tragica, in quanto, pur affermando in ultima analisi la vittoria del bene, la vita dell’uomo si svolge sotto l’insegna della lotta tra bene e male. L’uomo non può aspirare a un raggiungimento del bene se non attraverso un lungo e doloroso passaggio attraverso le spire del male. Secondo Dostoevskij, Dio non è l’autore del male, così come non lo è l’uomo; il primo, pur avendo permesso la diffusione del male nel mondo, non è responsabile della sua presenza nell’anima dell’uomo. Quest’ultimo invece, pur avendo all’interno del suo essere una parte votata al male, non ne è l’autore. Questo perché il male non è semplice diminuzione di bene, un momento dell’essere destinato al superamento e soprattutto non è un limite inerente alla finitezza umana o un prodotto dell’ambiente. A questo proposito, Berdjaev sostiene che «Dostoevskij ha lottato tutta la vita contro una concezione esteriore del male»20; egli insorgeva soprattutto contro la teoria positivista umanitaria che giustificava il male e il delitto come frutto dell’ambiente sociale, ripudiando in tal modo il castigo. Secondo Dostoevskij, questa dottrina nega la profondità della natura umana e la libertà dello spirito umano; se l’uomo fosse solamente un riflesso passivo dell’ambiente sociale in cui vive, allora non potrebbero esistere né i concetti stessi di uomo e di Dio, né la distinzione tra bene e male. Una tale degradazione dello spirito umano suscita lo sdegno di Dostoevskij, per questo egli è pronto a sostenere le pene più rigorose, in quanto esse corrispondono alla natura libera dell’uomo. Di conseguenza il male è insito nella più profonda e interiore natura dell’individuo, per questo Dostoevskij afferma la necessità di una pena in corrispondenza di ogni delitto. Attraverso la crudeltà della pena lo scrittore russo vuole proteggere la dignità umana; poiché è indegno per un essere libero, sgravarsi dal fardello della responsabilità riversandolo sull’ambiente. I sostenitori della severità della pena possiedono una concezione molto più esatta sulla natura del delitto in quanto esalta la dignità dell’individuo, in quanto ammette l’atto malvagio come reale e volontario. La presenza del male attesta l’esistenza di una profondità intima nell’uomo, ovvero la personalità, perché solamente quest’ultima è in grado di produrre il male e risponderne. Questo avviene poiché il male non può essere frutto di una causa impersonale, ma dovrà sempre rifarsi alla personalità, all’individualismo dell’uomo. La benevolenza e la compassione nei confronti dei peccatori si possono attuare solamente attraverso il perdono cristiano, riconoscendo che siamo tutti peccatori: il peccato è ciò che accomuna ogni singolo individuo del genere umano. Si può dire allora, secondo Pareyson, che: «il teatro della lotta tra bene e male può essere visto come la sede di un processo di rigenerazione e rinascita per il quale il delitto, diventando castigo, porta alla resurrezione e il male, mutandosi in dolore, porta alla redenzione»21. Come si è detto poc’anzi, Dostoevskij attesta la realtà del male nella natura intima dell’uomo. Questa concezione, però, non risolve il male in una semplice assenza di bene né si attesta un dualismo di principi opposti, per cui il male sarebbe un Dio negativo, altrettanto potente di quello positivo. Pareyson è assolutamente convinto che questo pessimismo metafisico sia assolutamente in disaccordo col sentimento tragico della vita professato da Dostoevskij. Lo stesso Pareyson afferma infatti che: «solo il bene esiste veramente, il male non possiede una realtà vera e propria: l’essere è, ma il non essere non è affatto. Il bene e l’essere sono pienezza di vita, completezza, realtà totale, mentre il male è negazione e tendenza all’annientamento, all’inesistenza, al nulla»22. Ne consegue che il male è una presenza costante che aleggia sul mondo e in nessun modo può essere ignorato. Se il male non può essere semplicemente identificato come la personificazione malvagia di Dio, non per questo corrisponde alla semplice assenza di bene e di essere, a una mera privazione ontologica. Lo spirito del male risiede in un principio ribelle a Dio stesso, al bene e all’essere: non può identificarsi, in senso manicheo, con un principio opposto al bene poiché tutte le sue forze non basterebbero comunque per intaccare l’assoluto; né può essere inteso semplicemente come privazione di bene poiché, al contrario, si tratta di un positivo rifiuto del bene stesso. Di conseguenza, sentenzia Pareyson: «il male è negazione dell’assoluto: ma non può esserlo sul piano dell’assoluto, perché in quel piano esso non è un principio che possa vincerlo o che possa avere la sua stessa potenza: sul piano dell’assoluto il male, lungi dal poter superarlo o contrastarlo, è destinato a essere contrastato e vinto dall’assoluto medesimo»23. L’assoluto in quanto tale, infatti, non possiede nulla che lo limiti o lo neghi: al suo cospetto, il male rappresenta lo spirito di negazione e di non essere. Non potendo operare sullo stesso piano dell’assoluto, il male opererà sul piano della realtà finita in quanto, ontologicamente, il male non è nulla e per poter esistere necessita di un appiglio ontologico: l’essere. Il male può insediarsi solamente nell’essere finito, sottraendogli la realtà, per poter esercitare la propria forza negativa. Assumendo il controllo e trovando rifugio nell’essere finito il male diventa realtà: una realtà fittizia e parassitaria, sempre legata indissolubilmente all’essere, visto come forma di sostentamento. All’interno dell’essere, il male opera per mezzo della sua forza di negazione simile a una vera e propria malattia, portandolo inevitabilmente alla distruzione e alla morte; esercitando la propria forza di negazione annulla la presenza dell’assoluto nel finito. L’obbiettivo primario del male si identifica con la sottrazione dell’assoluto all’essere finito, assumendo i tratti del bene che non gli competono. All’interno di quest’usurpazione di ruoli in cui il male assume i tratti del bene, Pareyson evidenzia il nesso che «congiunge necessariamente l’ateismo col male. L’ateismo non è una pura affermazione teorica dell’inesistenza di Dio, ma rappresenta una vera propria condotta di vita in senso pratico»24. Il male stesso produce l’ateismo negando l’esistenza dell’assoluto nel finito, distruggendo l’idea stessa di Dio e sua volta l’ateismo è produttore di male, in quanto sostituisce il finito all’assoluto, annientando ogni forma di legge morale. Insinuandosi nell’essere finito, il male assume i contorni dell’ateismo, distruggendo l’idea di Dio e annullando lo statuto metafisico e morale dell’uomo; così facendo l’uomo stesso è messo al posto di Dio. Se Quest’ultimo non esiste più, se l’uomo stesso diventa Dio allora tutto è permesso. Attraverso il suo principio di negazione il male prende possesso dell’essere finito, distruggendo in lui ogni forma di moralità e conducendolo alla distruzione; nel suo destino di negazione tocca il fondo dell’abisso della sua nullità.
Come Pareyson ha più volte affermato nell’Ontologia della libertà, il male non possiede una realtà autonoma, ma deve sempre cercare appoggio nella realtà del finito attraverso un’esistenza parassitaria; attraverso la negazione esso distrugge ogni frammento di assoluto e infine distrugge se stesso. Questo perché se il male porta l’essere finito alla distruzione, ciò accade in quanto esso stesso tende alla distruzione di sé, vale a dire al completo annientamento. Pareyson mette in luce con molta chiarezza questo concetto implicito nelle opere di Dostoevskij: «il male proviene dal proprio non essere e ritorna ad esso; come principio di negazione e del nulla, non potendo accedere all’assoluto, rivolge la propria attenzione contro l’essere creato e i suoi principi d’esistenza; e infine aspira all’onninegazione. Avendo negato tutto, giunge al punto di negare anche se stesso. È quanto intende dire Dostoevskij quando afferma che il male è lo spirito dell’autodistruzione e del non essere. L’esistenza originaria dell’assoluto riduce eternamente questo principio della negazione al silenzio ontologico, in base al quale esso è il nulla. Non è che un segno immaginario e irreale, neutralizzato dal fatto d’esser necessariamente ripiegato su se stesso: esso esiste sotto forma del nulla, esiste come inesistente, perché per esso significa negare se stesso; se si può dire che il male esiste, esiste soltanto per essere annullato. L’essere assoluto si afferma, il non essere assoluto si nega. Il momento ideale dell’autonegazione del male prepara il momento reale della sua scomparsa definitiva dal mondo creato che si afferma nel bene»25. Da ciò si deduce che l’autodistruzione del male presuppone il cominciamento dell’azione del bene, il suo annullamento è già instaurazione del bene, l’inizio di quest’ultimo può manifestarsi solamente come autodistruzione del male. Nelle più oscure profondità del male si opera il capovolgimento: il male travalicando i propri limiti si trasforma necessariamente in bene e ciò accade in modo così tragicamente paradossale che, secondo Dostoevskij, il senso della vita è da ricercare unicamente nella sua enigmaticità.
2. La libertà
2.1 Il dolore come riscatto del peccato
Secondo la lettura che Pareyson offre di Dostoevskij, il cuore dell’uomo rappresenta la sede della lotta tra il principio del bene e il principio del male e se rarissimi sono i casi in cui la bontà prevale, la sua stessa vita votata al peccato ha una possibile apertura al bene. Il riscatto dal peccato e la conseguente rigenerazione sono possibili per l’uomo solamente attraverso il dolore; solo quando nel peccato stesso si profila il castigo, solo quando la colpa genera sofferenza comincia l’opera della redenzione e la nascita dell’uomo nuovo. Quest’ultimo, per redimersi dal male, deve trarne l’esperienza del dolore, da cui in seguito sgorgherà la felicità; solamente attraverso la sofferenza lo spirito umano può purificarsi e ritrovare la propria integrità. Come scrive Pareyson: «Dostoevskij non teme né il peccato né il delitto, purché attraverso il dolore l’uomo possa comprendere la natura del male, e capovolgerne il destino di perdizione in annuncio di salvezza»26. Il momento decisivo del destino umano si identifica con il raggiungimento dell’insopportabilità del dolore, in cui la legge della redenzione è chiamata a succedere alla legge della negazione. In questo travagliato processo che il destino umano intraprende, Pareyson evidenzia tre punti molto importanti. Innanzitutto, «perché il dolore sia fecondo bisogna ch’esso sia la colpa stessa trasformatasi in tormento, il delitto stesso voltosi in castigo di sé»27. Il dolore rivela e rigenera solamente se inteso come risultato dell’autodistruzione del male: l’esperienza stessa di quest’ultimo, condotta sino in fondo, rivela all’uomo che il male non è altro che negazione. La sofferenza è parte integrante di questo processo, in quanto rappresenta il momento in cui il male stesso si consuma e si distrugge. In secondo luogo mette in rilievo le peculiarità della sofferenza: essa pur rappresentando già il castigo interiore, non si identifica ancora come rimorso e pentimento: «disperazione e pentimento sono due cose completamente diverse, perché la disperazione può essere cattiva e implacabile e cioè costituisce la sofferenza che accompagna il peccato senza saperlo lavare, mentre invece il pentimento è la sofferenza che già supera e cancella la colpa, cioè è l’atto che conferisce alla tortura morale, fatalmente inerente al peccato, la sua forza redentrice»28. La disperazione, quindi, sparge sull’uomo un manto di cupa angoscia attestando che l’uomo non è stato in grado di trionfare sul male; al contrario, il pentimento tortura e strazia l’anima dell’uomo, ma porta con sé il lieto annuncio dell’elevazione al di sopra dell’impotenza del proprio io con la conseguente vittoria sul peccato. In terzo luogo, la figura di Dio risiede sia nella disperazione che nel pentimento, in quanto la sua presenza è attestata dalla sofferenza, ma chi nella disperazione ne rifiuta l’aiuto sarà perduto per sempre. Solamente chi invocherà Dio nel pentimento potrà ottenere la salvezza, in quanto la sua presenza nel pentimento stesso è strettamente vincolata all’adesione dell’uomo per il raggiungimento della felicità. Ne conseguirà che il male non solamente contiene in sé un carattere positivo, ma è persino necessario per la realizzazione del bene. Esso cela nella sua natura un valore positivo, in quanto attraverso il dolore assume un connotato benevolo; la tragica esperienza del male ha le possibilità di arricchire l’anima dell’uomo permettendogli di accedere ad una natura superiore. Attraverso quest’esperienza l’uomo opera un rito di passaggio per incrementare la propria vita spirituale, ripudiando un ritorno a uno stato più elementare, forse meno tragico, ma infinitamente più povero di ricchezza interiore. L’intera opera di Dostoevskij è caratterizzata da questa positività dell’esperienza del male: l’idea che il passaggio attraverso le oscure profondità del male sia necessario per il raggiungimento del bene. A questo proposito Pareyson ricorda infatti che: «il vero bene non è identificato con l’innocenza, ignara del peccato, bensì con la virtù, ch’è la vittoria sul peccato; ma al passaggio dall’innocenza alla virtù sembra indispensabile e necessaria l’esperienza reale del male»29. Ma sostenere che il peccato sia indispensabile significa forzare il passaggio dal male al bene, intrappolandolo in una dialettica univoca, annullando in tal modo il ruolo decisivo della libertà umana, ovvero ciò che Dostoevskij intende assolutamente evitare. Il male, inteso allo stesso tempo come negatività e positività, perderebbe ogni tratto della sua natura ambigua se fosse costretto in una dialettica della necessità: solamente attraverso l’azione della libertà può dispiegare appieno il fascino ambiguo che gli è proprio: «Dostoevskij è infatti uno dei più profondi analizzatori dell’ambiguità, cioè della complessità dei comportamenti, della compresenza di motivazioni contrarie in uno stesso atto, delle sottili ambivalenze dei sentimenti, di quella che è stata chiamata la 'polarità della natura umana'»30. I motivi che muovono le azioni umane sono infinitamente più complessi di come appaiono in prima istanza e molto raramente si delineano con precisione; nel medesimo atto sono spesso compresenti motivazioni diverse e contrarie, cospiranti insieme al medesimo risultato. Come ricorda Berdjaev, «risiede in questa ambiguità dello spirito umano l’impossibilità di distinguere con precisione dov’è il Cristo e dov’è l’Anticristo»31; la distinzione tra principio positivo e principio negativo comincia ad affievolirsi sempre più al punto che è quasi impossibile combattere il male, ancor di più quando quest’ultimo assume le fattezze del bene. «Ogni cosa è doppia, equivoca, ambigua, suscettibile di interpretazioni opposte, al punto che l’Anticristo assume le sembianze del Cristo» prosegue Pareyson «e solo gli occhi di chi non ha ceduto alla menzogna imperversante sanno riconoscerlo sotto la maschera insospettabile del bene»32. Nell’opera di Dostoevskij, la tendenza a non riuscire più a distinguere il bene dal male trova la sua massima espressione nell’ambivalenza dei sentimenti e nell’antinomicità e contraddittorietà della bellezza. Negli eroi dostoevskiani coesistono sensazioni talmente intense e opposte da generare l’orribile compresenza della passione e dell’odio, portatrici di delitto e distruzione. Così come la bellezza, dea dell’ambiguità, che in egual misura semina salvezza e perdizione. La bellezza, circonfusa da un alone di enigmaticità, per un verso può salvare: «Essa rappresenta l’armonia dell’universo, l’ordine assoluto in cui ogni cosa trova il suo posto e la sua stabilità ontologica; è la consonanza perfetta di uomo, natura di Dio, per cui l’uomo comunica direttamente con la sua radice vivificante, conciliato sul piano cosmico, spirituale, metafisico, religioso con l’essere, e consapevole della divinità dell’universo così armonizzato»33. Eppure per un altro verso può anche nutrire le passioni più demoniache e perverse dell’uomo, conducendolo attraverso una spirale bruciante e distruttiva. Dmitrij Karamazov esalta i caratteri drammatici e antinomici della bellezza, come capaci di portare all’estasi di fronte all’ideale celeste della Madonna, o alla degradazione sotto la potenza infernale di Sodoma. Nella concezione di Dostoevskij la bellezza spalanca un baratro nel cuore dell’uomo e si pone al di là del bene e del male, ma il male stesso può appropriarsi dei caratteri della bellezza annullando la distinzione tra i due principi.
2.2 Libertà come dialettica
Al problema del male si ricollega in Dostoevskij il problema della libertà. Il male appare inscindibile dalla libertà poiché esso è inesplicabile senza quest’ultima. Senza questo legame necessario con la libertà non esisterebbe la responsabilità del male e di conseguenza la responsabilità di quest’ultimo ricadrebbe su Dio. Dostoevskij, scrive Berdjaev: «più profondamente di ogni altro ha compreso che il male è figlio della libertà. Ma ha compreso pure che senza libertà non c’è il bene. Anche il bene è figlio della libertà. A ciò si ricollega il mistero della vita, il mistero del destino umano. La libertà è irrazionale e perciò può creare sia il bene sia il male. Ma ricusare la libertà per il fatto che può produrre il male, significa produrre un male ancora più grande»34. Da ciò si deduce che, per Dostoevskij, il problema fondamentale dell’uomo e del suo destino è innanzitutto il problema della libertà: «se i personaggi di Dostoevskij vivono come vivono, e agiscono come agiscono, ciò è dovuto al fatto che essi incarnano un principio che è un tutt’uno con la vita e che la filosofa ha disconosciuto. Questo principio è la libertà»35. A detta di Berdjaev, la libertà non è solamente una facoltà dell’anima (la facoltà di scegliere il bene e rifiutare il male) e non rappresenta neppure un valore, perché essa s’identifica con qualcosa di più originario, qualcosa che va colto a livello metafisico prima ancora che a livello psicologico e cioè nel cuore stesso dell’essere. La libertà determina il destino dell’uomo e il suo doloroso errare. Essa rappresenta le fondamenta su cui si appoggia l’intera opera di Dostoevskij e la chiave della sua concezione. L’uomo, attraverso la ribellione comincia ad affermare la propria libertà: egli è pronto a patire tutte le sofferenze che il mondo può infliggergli pur di sentirsi libero ma contemporaneamente egli è alla ricerca della libertà ultima, della libertà estrema.
Il principio duplice, ovvero la natura ambigua dell'anima umana, si rivela esso stesso esposto a doppia possibilità: da un lato può essere racchiuso in una dialettica che istituisce i termini necessari in momenti contrari, rendendo indifferente ogni distinzione; dall''altro può essere dispiegato in una dialettica in cui i termini contrari si ergono a oggetto d'una inconsapevole scelta di libertà, mettendo a nudo la loro natura antinomica e contraddittoria. In questa distinzione sono realmente contrapposte due concezioni del mondo: da un lato la dialettica della necessità, ovvero una filosofia della ragione che media e concilia e che porta all'attenuazione del carattere duplice della natura umana, conducendolo ad un impoverimento nell'ambiguità e nell'indifferenza; dall'altro una dialettica della libertà, ovvero una filosofia che sceglie e decide, che esaspera quello stesso carattere portandolo all'esaltazione e alla contraddizione. L’essenza della concezione di Dostoevskij vive di questa opposizione: «egli rientra nella tendenza verso gli estremi che caratterizza i russi, e per la quale essi stessi si sono divisi, nel passato, in apocalittici e nichilisti; la stessa tendenza eccessiva, lo stesso bisogno di portare ogni cosa all’estremo, li spingono verso questi due poli, al punto ch’ essi sono giunti all’estremo della religione e all’estremo dell’ateismo, portando nei due casi la soluzione sino in fondo, in modo che l’una non è in sostanza che il capovolgimento dell’altra, e l’ateismo non è in fondo che la religione rovesciata»36. Per Dostoevskij, l’ateismo il più delle volte sfocia solamente nell’indifferenza, ma l’ateo vero è colui che professa la blasfemia: egli vuole uccidere Dio attraverso la negazione della sua esistenza perché è consapevole che l’esistenza di quest’ultimo non è solamente un problema di teologia ma bensì un problema di vita; come scrive Pareyson: «è in questo senso ch’egli va da un estremo all’altro: non potendo credere è ateo e in tal modo realizza il detto del Vangelo che afferma che chi non sceglie Cristo è contro Cristo»37. In questo senso fra il credente e l’indifferente non c’è assolutamente nulla in comune, a differenza dell’ateo che è molto più vicino a Dio di quanto non sia l’indifferente; egli condivide col credente lo stesso problema e diverge da lui solamente per quanto riguarda la soluzione. Malgrado le loro soluzioni siano diametralmente opposte, ateo e credente sono molto più vicini di quanto non sia l’indifferente, e in questo senso è molto più facile il passaggio dall’ateismo alla fede che non il passaggio dall’indifferenza alla fede e viceversa. La dialettica della necessità porta con sé l’annullamento tra bene e male, tra ateismo e fede; mentre la dialettica della libertà spalanca un orizzonte di scelta ponendo un’alternativa, così da offrire anche al peccatore più incallito una possibilità di salvezza e redenzione. Secondo Pareyson «la dialettica della libertà assicura che l’esperienza della libertà è assai più profonda dell’esperienza del male, ed essa sola è indispensabile al cammino verso il bene; e che lo stesso male è tale solo se prodotto dalla libertà, allo stesso modo che solo dalla libertà dipende che la sofferenza del male riesca a riscattarlo attraverso la libera esperienza del pentimento e la libera invocazione del perdono divino»38. Per questo motivo con la libertà, essendo intima all’uomo, ne va del senso dell’essere; la scelta tra bene e male spetta unicamente all’uomo, il quale è chiamato a prendere posizione come se da lui dipendesse il suo stesso destino.
2.3 Libertà come esperienza
L’elemento fondamentale della filosofia di Dostoevskij, ciò a cui tutto si ricollega, consiste nel concepire l’esperienza della libertà come l’esperienza più profonda dell’uomo, condizione di tutte le altre. Innanzitutto la libertà è sia strumento di bene che strumento di male; non esiste il bene se non come frutto di una libera scelta in quanto, se ottenuto con la forza, esso si rovescia immediatamente nel suo opposto come ad esempio nella giustizia imposta con la forza. Frutto di una libera scelta però è anche il male, che non deriva unicamente da un offuscamento di coscienza ma, al contrario, può essere deliberatamente e intimamente voluto e scelto, simile a una brama interiore bruciante nel profondo, impossibile da ignorare. Pareyson ritiene che: «non vale l’obiezione per cui il male si presenta a chi lo fa, o è da lui presentato, nella forma del bene. Questa non è un’attenuante, ma un’aggravante, poiché alla libera scelta del male si aggiunge la menzogna. Semmai si potrebbe sostenere che la libera scelta del male è preferibile alla costrizione al bene. In essa c’è almeno un elemento positivo: la scelta, sia pure scelta del male, che può dar luogo a un’abiura, a un inizio di conversione»39. Attraverso l’analisi dell’opposizione tra bene e male, Pareyson evidenzia come il bene possa essere negato in due modi: o dalla scelta del male o dall’imposizione del bene. La scelta del male riguarda la decisione della libertà arbitraria, la quale consiste appunto nella libertà di scegliere il bene o il male. Essa non è di per sé malvagia, ma scegliendo il male cade inevitabilmente nel peccato, causa di distruzione della libertà stessa; ad essa, tuttavia, rimane ancora la scelta del bene come possibilità di riscatto e di redenzione. Al contrario della deliberata adesione al male, l’imposizione del bene è l’eliminazione assoluta della libertà primaria, sostituita dalla necessità. Attraverso questa necessità si nega la libertà del male ma allo stesso tempo, essa porta anche alla negazione della libertà del bene poiché negando l’intera libertà primaria la distinzione tra bene e male viene annullata. Ciò implica non soltanto l’eliminazione della libertà in generale, ma anche l’eliminazione del bene stesso poiché esso non è tale se non è libero. Secondo Pareyson: «la libertà primaria non si può negare come se fosse soltanto una libertà formale: la libertà di scelta tra bene e male è libertà materiale, cioè essa interviene non soltanto a qualificare l’atto del suo esercizio, ma anche a costituire l’oggetto della sua scelta: cioè a costituire come l’oggetto ch’essa sceglie liberamente come tale».40 Da un lato dunque, la scelta del male annulla il bene ma annulla la libertà; dall’altro l’imposizione del bene annulla la libertà ma annulla anche il bene. La libertà cattiva e la necessità buona sono egualmente dannose perché non soltanto annullano ciò che volevano sopprimere, ovvero il bene e la libertà, ma anche ciò che volevano salvare, cioè la libertà e il bene. Alla necessità buona non rimane alcuna àncora di salvezza, poiché il bene non è solo raggiunto ma è negato; la libertà cattiva invece, riscontrando il fallimento avvenuto a causa della scelta del male, può tornare all’esercizio della libertà del bene per riscattare la colpa. Ciò che è veramente necessario per la realizzazione del bene non è dunque l’esperienza del male, ma unicamente l’esperienza della libertà intesa come libertà primaria, originaria: libertà di scegliere tra bene e male, tra ribellione ed obbedienza. Chi ha compiuto il processo di liberazione dalla schiavitù del peccato scegliendo deliberatamente il bene ha realizzato la libertà nel bene, «la quale non sarebbe tale se non fosse preceduta e condizionata dalla libertà del bene, cioè dalla libertà di scegliere liberamente il bene piuttosto che il male»41. La libertà della scelta del bene implica necessariamente anche la possibilità della scelta del male e risiede appunto in questo la tragedia della libertà. Nella concezione filosofica di Dostoevskij la libertà non è il bene: la libertà è libertà. La libertà viene prima del bene e del male, ovvero prima della loro distinzione, che non ha luogo se non dal fatto che il bene è bene in quanto liberamente scelto, così come non avviene se non poiché il male è male in quanto intimamente voluto. L’originarietà della libertà dipende proprio da questo suo carattere di anticipazione rispetto alla distinzione tra bene e male: «alla radice di tutto c’è la libertà, e dunque tutto è possibile, tutto è abissalmente affacciato sugli opposti. E questa è la tragedia della vita, la vita come tragedia»42.
«Da un punto di vista filosofico» scrive Pareyson «l’interpretazione più corrente di Dostoevskij è senza dubbio quella pessimistica: di un Dostoevskij per il quale l’esperienza fondamentale e decisiva è quella del male»43, inteso non soltanto come la fragilità e la debolezza dell’uomo ma come l’instaurazione positiva di una realtà negativa; egli però non considera il male come una realtà irrimediabile e in questo l’aspetto escatologico prevale su quello gnostico. La concezione filosofica di Dostoevskij non può sicuramente rientrare in una corrente ottimistica perché non minimizza affatto la realtà del male, ma nemmeno in una corrente pessimistica, poiché non afferma neanche l’insuperabilità del male, anzi proclama la vittoria escatologica del bene. Essa è essenzialmente una concezione tragica che pone la vita dell’uomo sul campo di battaglia della lotta tra bene e male. Bene e male rappresentano, per Dostoevskij, un passaggio dialettico obbligato per la vita dell’uomo, innanzitutto perché quest’ultimo non ha altra possibilità di giungere al bene se non portando sino all’estremo il processo autodistruttivo del male e poi perché il bene non è tale se non include in sé la stessa realtà o possibilità del male. Per un verso, quindi, il male è dialettico in quanto l’autodistruzione di sé è già inizio dell’instaurazione del bene, per l’altro verso dialettico è anche il bene, il cui carattere dipende dalla consapevolezza della possibilità di compiere il male. Il paradosso della condizione umana risiede nell’esperienza del male come negazione della vita, ma allo stesso tempo come affermazione dell’uomo nella vita e nell’essere; l’uomo deve far sì che il male non si fossilizzi al suo momento distruttivo, ma deve comprenderne la natura attraverso il dolore sino a capovolgerne il destino di perdizione. Nella concezione di Dostoevskij l’esperienza del male è decisiva poiché tenta di convogliare l’intera l’esistenza dell’uomo in una dialettica con cui si tenta di esorcizzare la potenza demoniaca e distruttrice, «ma, se l’intento di Dostoevskij è che questa dialettica di bene e di male non sia una vicenda cosmica, bensì una tragedia umana, anzi la tragedia dell’uomo, bisogna ch’essa sia interamente impiantata nella libertà»44. L’interpretazione pessimistica di Dostoevskij, di conseguenza, dovrà fondersi con l’idea secondo cui l’esperienza fondamentale dell’esistenza umana s’identifica con un’esperienza ancora più profonda e radicale di quella del male: l’esperienza della libertà. Per lo scrittore russo né il bene né il male sono necessari, entrambi sono frutto della libertà e senza libertà non esisterebbero né il bene né il male; solamente l’esperienza della libertà dà un significato al male e alla sua vicenda così come solamente la libertà può rivelarne l’esperienza. Essa sollecita il male a dichiarare la libertà che lo precede, e di cui esso è un abuso, ed esige l’annuncio della libertà che lo segue e che sarà in grado di riscattarlo. Nelle opere di Dostoevskij, la realtà del male è frutto della libertà e più precisamente di una libertà illimitata e arbitraria che si identifica come atto di trasgressione e ribellione mutandosi in realtà positiva di male. Le conseguenze di un abuso della libertà si riscontrano soprattutto nelle figure centrali di Delitto e castigo, dei Demoni e dei Fratelli Karamazov. In esse la ribellione assume l’aspetto d’una titanica esaltazione di sé al di là di ogni norma o si esprime nell’indifferenza, portatrice di disgregazione nel nulla. In Raskol’nikov la ribellione assume la forma del titanismo e attraverso la propria libertà, il personaggio vuole dimostrare che la libertà stessa è tale solamente se sciolta da ogni legge; egli non vuole uccidere una persona, quello che gli importa al di là di ogni norma è uccidere un principio. Attraverso questo atto di libertà arbitraria, però, egli si accorge di essere stato capace solamente di uccidere non soltanto la vecchia usuraia ma anche se stesso, senza intaccare minimamente il vero oggetto del delitto: la legge alla base della libertà. Raskol’nikov sopprimendo una vecchia insignificante, sopprime anche se stesso ma dopo il delitto, il quale era solo un esperimento, perde la sua libertà e rimane schiacciato dalla sua impotenza. Smarrendo la sua orgogliosa coscienza, egli comprende che è facile uccidere un essere umano ma ciò non procura alcun sollievo, non dona nessuna forza straordinaria, non eleva l’uomo all’empireo degli eletti ma lo priva unicamente della sua energia spirituale. Il delitto compiuto da Raskol’nikov dimostra che la libertà illimitata e arbitraria, abbandonata a se stessa, finisce per distruggersi: si nega in quanto si sottomette alla legge da cui voleva affrancarsi. La libertà come arbitrio annienta se stessa, trapassa nel suo opposto, dissolve e perde l’immagine dell’uomo. La libertà di Kirillov, che ha desiderato essere Dio, culmina in una terribile e sterile rovina; egli considera l’arbitrio come un dovere sacro da venerare e da affermare per far sì che l’uomo raggiunga uno stato superiore. Kirillov «è un uomo puro, libero da passioni e basse tendenze, e in lui vi sono tratti di santità senza grazia. Ma anche l’uomo più puro che ha respinto Dio, e che ha desiderato diventare lui stesso un Dio, è condannato alla rovina»45. Egli rappresenta l’immagine di un’ossessione intorpidita, ripiegata su se stessa ma al cui interno si svolgono dolorosi processi di rinascita; poiché sulla via di deificazione dell’uomo la libertà umana si perde, smarrendo l’uomo stesso: smarrimento a cui va incontro Ivan Karamazov. La sua ossessione arbitraria e la sua sete di rivolta rappresentano la vetta in cui culmina la via della libertà senza grazia; essa in quanto arbitrio e umana autoaffermazione deve necessariamente sfociare non solo nella negazione di Dio, del mondo e dell’uomo ma della libertà stessa: la libertà distrugge se stessa.
Dall’esperienza della libertà però, acquista il suo vero significato anche il principio dialettico del bene. Nella condizione umana, l’esperienza tragica del male innalza l’uomo a un grado di ricchezza morale superiore, ma ciò non significa che il male sia indispensabile e necessario per la realizzazione del bene. Ciò di cui il bene non può fare a meno per realizzarsi nella sua pienezza è l’esperienza della libertà poiché: «per fare consapevolmente il bene, basta aver esperito le possibilità del male, cioè, appunto, la libertà; la libertà infatti implica la possibilità del male senza la necessità della sua reale esperienza: sta dunque nella libertà, e non nel male compiuto, il maggior valore della virtù rispetto all’innocenza»46. Il cammino del male è dunque irreversibile, ma ciò non significa che il processo di realizzazione del bene sia univoco o inevitabile; l’uomo deve farsi carico delle conseguenze scaturite dall’azione del male e d’ora in poi per lui il bene non è più possibile se non attraverso la lente del male. Ciò rappresenta l’unico cammino possibile dell’uomo verso la libertà, che può portare sia all’esito redentore del bene sia all’epilogo distruttivo del male. Come scrive Pareyson, per Dostoevskij il male possiede una natura doppia per cui è al tempo stesso negazione e positività, ma questa duplicità solo nell’esercizio della libertà può rintracciare quel campo d’azione che è proprio della natura tormentata dell’uomo. Il male non è l’unico principio avente una natura doppia e antinomica, anche la libertà stessa è ambigua: anzi, fra tutte le cose umane essa è forse la più ambigua di tutte. Il carattere di questa ambiguità va ricercato nella sua originarietà; essendo originaria essa non presuppone nulla, nemmeno la ragione, che possa offrirle un criterio di distinzione tra bene e male. Si tratta della libertà che, ignorando preventivamente che cos’è il bene e che cos’è il male «decide essa stessa che cos’è bene e che cos’è male, e quindi sta alla base tanto dell’atto più infame e cattivo quanto dell’atto più buono e sublime»47. La libertà così intesa, in quanto radicale, primordiale e originaria si congiunge alla libertà dei demoni e di conseguenza si concepisce come libertà assoluta, illimitata, arbitraria, qual è appunto la ribellione dei demoni. «La cosiddetta pericolosità di Dostoevskij» scrive Pareyson «consiste certamente in questa conclusione: che la libertà tanto abbandonata a se stessa, quanto regolata da un criterio ch’essa sola deve e può accettare, è sempre in qualche modo illimitata»48; il pericolo più grande in cui incorre la libertà consiste nel voler correggere gli inconvenienti insiti in essa mediante una limitazione esterna, mediante una costrizione imposta che capovolgerebbe il bene in male e la verità in falsità. È meglio imporre il bene pur di evitare il male o permettere il male salvaguardando così il principio della libertà? Per Dostoevskij è di gran lunga meglio permettere la realizzazione del male così da salvare la libertà, piuttosto che imporre il bene per evitare il male, poiché il bene imposto non è mai bene ma è male e perché la libertà primaria non è soltanto libertà del male ma anche libertà del bene. Sotto l’insegna di costrizione del bene, Dostoevskij accomuna movimenti apparentemente lontani ma molto più vicini di quanto potrebbe apparire a prima vista: la chiesa temporale e l’utopia socialista. La prima riguarda la correzione dell’opera del Cristo che, secondo il programma del Grande Inquisitore, piuttosto che proseguire il messaggio lasciato da Gesù ha preferito abbracciare la triplice tentazione del demonio nel deserto, sfruttando il miracolo, il mistero e la verità come mezzi d’imposizione della verità; la seconda riguarda l’organizzazione della felicità sulla terra che vuole erigere un regno di perfezione tralasciando l’imperfezione e la colpa che attanaglia l’anima dell’uomo. Entrambe le libertà trascurano quella originaria e corrompono la speranza escatologica, in quanto fanno prevalere la verità e la felicità a discapito della libertà e della responsabilità portando a compimento, senza volerlo, la realizzazione del male completo, «perché hanno dimenticato che la verità genuina non solo non teme il dubbio, ma conosce la possibilità dell’errore e ne traversa il campo, e che la vera felicità non solo non ignora la miseria umana, ma emerge dall’abisso di sofferenza e di colpevolezza che ne costituisce il fondo»49. Codeste libertà hanno in sé qualcosa di esaltante e di sinistro allo stesso tempo e rappresentano le grandi ideologie che illudono e tradiscono l’uomo poiché sono protagoniste del dramma dell’intera umanità, di cui vogliono essere il rimedio, non riuscendo a esserne che il segno. Dostoevskij oppone un netto rifiuto a questi falsi ideali ma allo stesso modo rifiuta categoricamente anche la libertà illimitata e arbitraria di cui si fanno portavòce i demoni, perché essa porta alla distruzione, in particolar modo di se stessa: questa libertà riconduce il proprio esercizio all’annientamento di sé. I falsi ideali che pretendono di governare e sottomettere l’uomo ovvero il ribelle titanismo dei demoni, il deliberato cinismo dei correttori di Cristo e l’ostinazione degli organizzatori della felicità, conducono ad un esito unanime, quello di annientare tanto il bene quanto la libertà, disconoscendo in tal modo la reale condizione dell’uomo. Influenzato da queste false ideologie l’uomo diviene preda di un orgoglio smisurato, pretendendo di sostituirsi a Dio; egli pretende di affermare se stesso negando Dio, per diventare egli stesso «Superuomo o uomo-Dio»50 e in questo la concezione di Dostoevskij la si può accostare all’opera di un altro grande filosofo della libertà, Friedrich Nietzsche. Ambedue comprendono che l’uomo è terribilmente libero e nella sua tragicità la libertà impone un fardello doloroso aprendo così il cammino verso il Dio uomo o il superuomo, poiché fermarsi unicamente al semplice uomo non è più possibile. Secondo il pensiero di Berdjaev: «Nietzsche vuole superare l’uomo, visto come un’onta e un’infamia, per poter dirigersi verso il superuomo; in quest’ultimo i caratteri dell’uomo sono considerati unicamente come mezzi per l’affermazione di un essere superiore e vengono poi soppressi come impotenza e nullità: il superuomo è un idolo davanti a cui l’uomo crolla, divorando lui e tutto ciò che è umano»51. Ma Dostoevskij, prima di Nietzsche, ha constatato che la distruzione dell’uomo conduce sulla via della sua divinizzazione ed è appunto questa la fondamentale diversità che separa i due pensatori, poiché lo scrittore russo conosce la lusinga della divinizzazione avendo studiato nei suoi recessi più profondi le vie dell’arbitrio umano ma allo stesso tempo scorge anche la luce di Cristo, nella quale si confondono le tenebre della divinizzazione. A differenza di Nietzsche, posseduto dall’idea di divinizzazione per cui l’idea del Superuomo distrugge il carattere determinante dell’uomo, nel pensiero di Dostoevskij l’uomo non viene annientato, rimanendo ben saldo fino alla fine: nell’uomo Dio l’uomo perisce ma nel Dio uomo egli si salva. Da questo processo di divinizzazione che potrebbe culminare con la distruzione dell’uomo stesso, egli se ne salva solamente riconoscendo la propria misura umana ovvero ammettendo l’esistenza di Dio, per quanto ciò gli possa risultare quasi impossibile e non immune da tormentosi dubbi, poiché: «solo il Cristianesimo salva l’idea dell’uomo, conservandone in eterno l’immagine. L’esistenza dell’uomo presuppone l’esistenza di Dio, l’uccisione di Dio è l’uccisione dell’uomo. Sulla tomba di due idee sublimi, Dio e l’uomo, si erge l’immagine di un mostro, che uccide entrambi, l’immagine dell’uomo Dio futuro, del Superuomo, dell’Anticristo»52. Nell’ideale di Nietzsche i contorni dell’uomo e di Dio sfumano sino a costituire un ignoto superuomo, in quello di Dostoevskij, Dio non divora mai l’uomo e l’uomo non scompare in Dio ma rimane fino alla fine; poiché Dio è l’unico essere che può sovrastare l’uomo senza opprimerlo, l’unico capace di farlo sottostare a determinate leggi senza per questo sopprimere la sua libertà, anzi esigendola e confermandola nella sua natura e nel suo esercizio.
3. Dio
3.1 Dio come esperienza originaria
L’esperienza della libertà, pur così fondamentale, non è identificabile per Dostoevskij con l’esperienza originaria: vi è per lui un’esperienza ancora più originaria e profonda, ovvero l’esperienza di Dio. L’esperienza divina assume i caratteri del supremo illuminando tutte le altre, essa rappresenta il momento cruciale e decisivo per quanto riguarda l’uomo e il suo destino poiché: «nessun autore moderno ha saputo rappresentare come Dostoevskij il carattere decisivo del problema di Dio, problema che non riguarda solamente un’affermazione teorica, da cui dipenda la compiutezza di un sistema filosofico, ma è una questione di vita, da cui dipende l’intera condotta dell’uomo, anzi il destino stesso dell’umanità»53. Attribuire a Dio il compito di limitare la libertà significa renderla ancora più illimitata di quanto non sia già originariamente; Dio stesso richiede la libertà, vi si affida interamente ed esige di essere messo in questione da quella: «questa è la tragedia dell’uomo, nel senso che ogni sua decisione diventa così una scommessa, e la suprema delle sue affermazioni, quella da cui tutto dipende, è fatta interamente a suo rischio e pericolo»54. Dio, acuendo il senso della problematicità dell’uomo, rende ancora più illimitata la libertà umana, la consapevolezza dell’eguale possibilità del termine positivo e del termine negativo facendo sì che non ci sia positività se non attraverso la tortuosa via della negatività. Da questo punto di vista la libertà come ribellione e arbitrio non è altro se non la continuazione della libertà originaria e illimitata voluta da Dio e rivendicata dal Cristo, il quale prolunga la tendenza alla ribellione innata nell'uomo, la stessa libertà che gli uomini useranno contro Cristo stesso come arma. Ribellione e ateismo dimostrano di essere dirette conseguenze della libertà originaria, ma non sono né l'unica conseguenza né il solo esercizio possibile, in quanto Dio rende la nostra libertà ancora più illimitata; non nell'ottica del puro arbitrio, dal quale non può scaturire che distruzione e negazione, ma attraverso la presa di posizione della responsabilità, così da far germogliare nell'uomo la consapevolezza che ogni decisione presa rientra nel campo della scommessa e della scelta compiuta a proprio rischio. Dalla libertà originaria e illimitata scaturiscono dunque due forme di libertà: la libertà dell'arbitrio e la libertà della scommessa; le quali, pur sembrando originariamente tanto simili da confondersi l'una nell'altra, sono quanto c'è più di dissimile e distante. L'unico mezzo in possesso dell'uomo per poter accedere a Dio è da riscontrare unicamente nella libertà, quella stessa libertà originaria dalla cui limitatezza egli estrapola la possibilità del puro arbitrio e della deliberata ribellione, entrambe cause dell'autodistruzione dell'individuo; ma una volta ch'essa ha liberamente riconosciuto Dio «cambia totalmente aspetto, non nel senso che sia definitivamente superata la possibilità distruttiva dell'arbitrio e della rivolta, la quale rimane anzi perpetuamente sullo sfondo, ma nel senso che Dio le offre ormai una legge che, se vista nel suo senso proprio, e non come limite esterno, è al tempo stesso il principio e la guida della libertà, che ne viene insieme stimolata e sorretta, suscitata e governata, trasportata e nutrita»55. Da ciò si deduce che solamente Dio può essere considerato come legge e fondamento della libertà, un fondamento tanto più sicuro e tanto più saldo in quanto Egli vi si affida completamente, giungendo in ultima analisi persino a esserne contestato e negato pur di salvaguardarne il diritto e l'esercizio. Il carattere originario e radicale della libertà assume così un significato sostanzialmente diverso dal puro arbitrio, facendosi portavoce di un senso d'obbedienza primigenia e profonda. Attraverso l’analisi di Berdjaev prima e Pareyson poi, in tutta l’opera di Dostoevskij sono rintracciabili due tipi di libertà: la prima, iniziale, e la seconda, finale; fra queste due libertà si snoda il cammino dell’uomo, pieno di pene e tormenti, avente come destinazione lo sdoppiamento: «già sant’Agostino nella sua lotta contro il pelagianismo insegnava che ci sono due libertà: la libertas minor e la libertas maior»56. Per lui la libertà minore si identifica con la libertà iniziale, che è libertà di eleggere il bene ed è legata alla possibilità di peccare; la libertà ultima, maggiore, è la libertà nel bene, ovvero in Dio; Per sant’Agostino esistono, di conseguenza, due libertà: la libertà di scegliere il bene o il male e la libertà nel bene, oppure la libertà irrazionale e la libertà della ragione; le parole evangeliche che identificano la conoscenza della Verità come il raggiungimento della libertà si riferiscono alla seconda libertà, ovvero quella di Cristo. Quest’ultima s’identifica con la conquista della sublime libertà dello spirito poiché essa rende libero l’uomo, ma egli deve accettare liberamente la verità, non può esservi condotto costrittivamente e con violenza. Cristo concede all'uomo la libertà ultima ma l'uomo stesso deve accettare liberamente Cristo poiché nella sua libera accettazione è riscontrabile la pienezza della dignità e della fede cristiana come atto di libertà. Per Dostoevskij l'esistenza di Dio è indissolubilmente legata all'idea di libertà in quanto quest'ultima non esiste senza Dio né Dio esiste senza il presupposto della libertà; essa è così strettamente legata all'idea di Dio che la sua negazione non può che sfociare nell'ateismo poiché senza l'essere supremo non ci può essere una distinzione tra principio del bene e principio del male e tutto sarebbe permesso. Agli occhi di Dostoevskij l'ateismo rappresenta la maggior insidia per la libertà poiché nelle sue manifestazioni più coerenti culmina necessariamente nel suicidio: ne è un esempio Kirillov, il quale, negando Dio come fondamento della libertà e ergendosi egli stesso a superuomo, dà vita a un legame tra ateismo e suicidio in base all'idea che l'esistenza di Dio e la libertà umana si escludono a vicenda. Agli occhi di Pareyson: «affermazione della libertà assoluta dell'uomo, negazione dell'esistenza di Dio, divinizzazione dell'uomo, culminano tutte nel suicidio, cioè nell'atto gratuito e assolutamente arbitrario con cui l'uomo afferma la propria libertà illimitata e verifica col sacrificio della propria esistenza l'inesistenza di Dio»57. La tragedia di Kirillov consiste nel fatto che ciò che doveva rappresentare l'affermazione della sua libertà, ovvero l'ateismo, è invero la negazione di quella stessa libertà, cioè il suicidio. Egli vuole esaltare l'inesistenza di Dio dando una prova pratica dell'ateismo, ma la sua pionieristica esaltazione porterà il suo corpo e il suo spirito all'autodistruzione. Sennonché lo stesso ateismo possiede i caratteri della duplicità e dell'ambiguità: può essere l'anticamera dell'inferno oppure il penultimo gradino; poiché: «l'ateo assoluto sta nel penultimo gradino della fede perfetta (e non si sa se andrà più su o no), mentre l'indifferenza non ha nessuna fede»58. Il raggiungimento di Dio è dunque molto più breve partendo dall'ateismo che non dall'indifferenza, perché l'indifferente è egualmente lontano sia dal credente che dall'ateo, situato su un piano completamente diverso da quell'opposizione. Nella sua ambiguità l'ateismo può consolidarsi come esperienza definitiva oppure dispiegarsi in un'affermazione superiore, ma ciò non riguarda un passaggio necessario che sopprimerebbe la violenza negatrice e il carattere problematico dell'affermazione di Dio; esso rappresenta un oggetto di scelta, che ha la fede in Dio come alternativa. L'adesione all'ateismo è frutto della libera scelta dell'uomo, il quale sa che «la sua realtà e il suo destino sono costituzionalmente negativi; ciò non impedisce all'affermazione di Dio che ne faccia esperienza di riemergere corroborata e rafforzata. Esso è coinvolto nell'avventurosa peripezia della libertà, sempre tesa fra l'esperienza del male e l'esperienza di Dio e sempre divisa fra le opposte ma inseparabili possibilità della negazione e della scommessa, del rifiuto e del consenso, della ribellione e dell'obbedienza»59. Da questo punto di vista Dio è, per Dostoevskij, il punto di riferimento fondamentale: solamente sul suo sfondo l'uomo è in grado di contemplare i due abissi che lo circondano, quello del supremo ideale e quello della più inesorabile decadenza. In Dio risiede l'esperienza fondamentale dello spirito umano, la quale per un verso incarna l'esperienza della libertà e del male, per l'altro s’incarna concretamente in esse; solamente il Dio vivente è in grado di fornire all'uomo la possibilità di scelta tra bene e male, senza imporgli che non sia lui stesso ad assumersene il rischio e la responsabilità. Senza la presenza di Dio il principio positivo e quello negativo non potrebbero dispiegare tutta la loro forza e: «Dostoevskij non oltrepasserebbe il livello d'un qualunque pessimista o d'un qualunque anarchico, ricondotte al problema di Dio come decisivo per il destino dell'uomo la meditazione sul male e quella sulla libertà fanno di Dostoevskij un vero e proprio filosofo della tragedia umana»60. Alla presenza di Dio il male acquista un carattere enigmatico e profondo e solo alla sua presenza l'onnicolpevolezza umana e il perdono universale rinsaldano il legame tra gli spiriti umani, così da far scaturire il dovere di prendere su di sé le colpe e le sofferenze degli altri e il dovere di perdonare il prossimo. Nella sua luce la libertà acquista un senso decisivo per il destino dell'uomo poiché il potere illimitato di scelta in cui essa consiste diviene ancora più imponderabile nei sui effetti quando abbia a oggetto addirittura Dio stesso. Dopo essere stato accolto da un consenso di libertà, Dio è in grado di offrirle un campo d'azione ancora più vasto oltre che un valido limite e una solida norma; ma ciò può avvenire solamente concedendosi totalmente ad essa, lasciandola libera di accettarlo o persino di rifiutarlo; Dio si adagia fra le braccia della libertà, rischiando addirittura di essere contestato e respinto ma esigendo «che sia essa stessa a compromettersi per o contro di Lui, senz'alcun suggerimento e alcuna spinta, giacché solo in tal modo essa è veramente libertà, tale quale Egli non può non volerla e apprezzarla»61 . Attraverso la presenza di Dio la scelta illimitata della libertà si muta in un dilemma preciso e perentorio riguardante il destino dell'uomo nella sua totalità, ma questo non è per Dostoevskij una verità consolante; l'esistenza di Dio non sopprime affatto il male imperante nell'animo umano, ma ne accerta in maniera ancor più sensibile la presenza: non rassicura la libertà, ma ne acuisce il tormento sino allo spasimo.
3.2 Il Grande Inquisitore
I legami indissolubili che legano i concetti di male, libertà e spirito divino trovano la loro massima espressione nella Leggenda del Grande Inquisitore. Essa rappresenta il coronamento della dialettica di Dostoevskij; tra le sue pagine la concezione religiosa positiva e il problema fondamentale della libertà e dello spirito divino trovano la loro massima espressione. La Leggenda è una fantasia letteraria composta dalla mente di Ivan Karamazov e raccontata presso una sordida locanda al fratello Alesa; la singolarità e l'unicità di questa composizione, che rappresenta una vera e propria lode alla figura del Cristo, è da ricercarsi nella sua attribuzione alla figura atea per eccellenza di Ivan Karamazov. Essa rappresenta un enigma poiché molto è lasciato all'intuizione della libertà umana, ma la leggenda sulla libertà deve rivolgersi unicamente alla libertà stessa. La scena è ambientata nel sud della Spagna durante il periodo oscuro della Grande Inquisizione; nel tempo di maggior violenza e crudeltà ad opera della Chiesa Cattolica, Cristo torna per la seconda volta sulla Terra in forma umana. «Nell'anima dell'ateo ribelle Ivan Karamazov» scrive Berdjaev «si forma la lode a Cristo. Il destino dell'uomo lo attrae fatalmente o verso il Grande Inquisitore o verso Cristo. Bisogna scegliere. Non c'è una via di mezzo. Una via di mezzo non è che uno stato transitorio, in cui non si sono chiariti i termini estremi»62. Nel sistema del Grande Inquisitore l'arbitrio conduce alla negazione e alla perdita di libertà, essa può essere trovata solamente nella figura silenziosa di Cristo poiché, nella Leggenda, l'idea religiosa positiva non trova espressione nella parola. Egli rimane nell'ombra tutto il tempo, non proferisce parola ma ascolta solamente quelle che gli scaglia contro il Grande Inquisitore; il silenzio del Cristo rappresenta l'ineffabilità della libertà. La verità di quest'ultima, nella Leggenda, è trattata sempre in forma velata in quanto si manifesta solo ed esclusivamente come opposta alle idee del Grande Inquisitore e risplende luminosa attraverso le obiezioni che le pone quest'ultimo. Prosegue Berdjaev, «questo tenere celato in un velo Cristo e la sua verità è artisticamente di particolare efficacia. È il Grande Inquisitore che argomenta e si sforza di convincere. Ha a sua disposizione una forte logica, una forte volontà, protesa ad attuare un piano determinato. Ma la dolcezza di Cristo, il suo mite silenzio convincono e conquistano con più forza che tutta la forza delle argomentazioni del Grande Inquisitore»63. Nella Leggenda si ergono e si urtano faccia a faccia due principi universali: la libertà e la violenza, la fede nel senso della vita e la sfiducia in esso, l'amore divino e la compassione atea per gli uomini, Cristo e l'Anticristo. Dostoevskij assume l'idea avversa a Cristo in una forma velata e disegna un ritratto nobile e commovente della figura del Grande Inquisitore: egli «è uno di quei martiri oppressi da una grande tristezza e ardenti d'amore per l'umanità, è un asceta libero dai bassi desideri dei beni materiali. È un uomo dell'idea»64. Tuttavia egli cela dentro di sé un segreto che lo attanaglia, che lo porta alla sofferenza: l'incredulità in Dio, l'incredulità nel senso del mondo, nel cui nome la sofferenza acquista un ruolo di assoluto rilievo. Il Grande Inquisitore ha ormai perduto la fede e ha compreso che la stragrande maggioranza degli uomini non è in grado di sopportare il peso della libertà rivelata da Cristo; poiché il cammino verso di essa rappresenta una via tortuosa e irta di pericoli. Il suo raggiungimento implica un errare doloroso e tragico e solo chi è in possesso di un eroismo smisurato può aspirare di ottenerla: essa è superiore alle forze di un essere così insignificante e meschino come l'uomo. Da ciò si deduce che il Grande Inquisitore, oltre a non riporre la benché minima fiducia nell'opera di Dio, ne ripone ancor meno in quella dell'uomo: Dio e l'uomo rappresentano gli stessi aspetti della medesima fede. Il Cristianesimo infatti, richiede non solo la fede in Dio ma soprattutto la fede nell'uomo, esso rappresenta la fede del Dio-uomo; se la si perde in uno la si perde necessariamente anche nell'altro. Il Grande Inquisitore nega prima di tutto l'idea del Dio-uomo, ovvero l'affinità e l'unione del principio divino con quello umano della libertà. Questa negazione rappresenta il fallimento dell'uomo nel superamento delle sue forze spirituali, della sua libertà spirituale e della sua vocazione a una vita superiore poiché questa prova avrebbe rappresentato l'espressione di un grande rispetto dell'uomo stesso, il riconoscimento della sua natura spirituale superiore. Ma l'uomo rinuncia alla libertà cristiana e di conseguenza alla distinzione tra bene e male; egli infatti non è in grado di portare sulle spalle il fardello del suo dolore e quello di tutta la restante umanità. Non sopportando il suo dolore e quello degli altri il raggiungimento della libertà è impossibile, com’è impossibile la conoscenza del principio del bene e quello del male. Davanti all'uomo, non sentendosi all'altezza di un simile compito, si pone un dilemma: libertà, oppure felicità, benessere e assestamento della vita; libertà col dolore o felicità senza libertà. La stragrande maggioranza degli uomini opta per la seconda via poiché la prima è il cammino dei pochi eletti; imboccando il percorso che porta alla felicità senza libertà, l'uomo rinuncia alle grandi idee di Dio, dell'immortalità e della libertà, precipitando tra le braccia di un amore falso e ateo per gli uomini, in un gorgo di false compassioni e ansie di assestamento sulla Terra senza Dio. Il Grande Inquisitore insorge contro Dio nel nome dell'uomo, anche del più meschino; insorge contro Dio perché ha creato un mondo pieno di dolore e ha imposto all'uomo il peso della libertà illimitata e della responsabilità senza il suo consenso. Egli non crede più in Dio, così come non crede più nell'umanità, e se la vita universale non possiede più un senso superiore non vi è altra strada che l'ordinamento dell'umanità terrena secondo le sue leggi. Per cancellare il dolore che opprime l'esistenza umana, il Grande inquisitore vuole imporre un ordine in cui non vi siano più sofferenze né responsabilità, ma neppure libertà; egli vuole giungere alla creazione di un formicaio basato unicamente sul principio della necessità e dell'annullamento della libertà di spirito. La rivolta contro Dio deve portare necessariamente alla soppressione della libertà, così come la rivoluzione che ha alla base l'ateismo, deve condurre al dispotismo illimitato e codesto principio sta anche alla base dell'inquisizione cattolica; esso annienta la libertà dello spirito, creando sfiducia in Dio e nell'uomo. La libertà è caratterizzata da uno spirito aristocratico riservato a pochi eletti, essa non è compatibile con la felicità degli uomini; Cristo ha onerato l’individuo di una libertà che travalica le sue forze agendo come se non lo amasse. L'atto d'amore più autentico sarebbe stato quello di privarlo della libertà come l'Inquisitore stesso proclama: «invece di toglier la libertà agli uomini, Tu l'aumentasti loro ancor di più. Forse hai dimenticato che la tranquillità, persino la morte sono più grate all'uomo della libera scelta nella scienza del bene e del male? Non v'è nulla di più seducente della libertà della sua coscienza, ma non c'è neppure nulla di più tormentoso. E invece di porre delle salde fondamenta per la tranquillità della coscienza umana una volta per sempre, Tu preferisti tutto ciò che v'è di insolito, di ipotetico e di indeterminato, tutto ciò che è al disopra delle forze umane, e perciò agisti come se non li amassi affatto»65. Per rendere felici gli uomini, quindi, bisogna acquietarne la coscienza togliendo loro la libertà di scelta; solo gli eletti sono in grado di sopportarne il peso per seguire colui che ha desiderato il libero amore dell'uomo. Le preoccupazioni e i pensieri del Grande Inquisitore vanno a coloro che non possono sopportare la prova della libertà poiché essi non cercano tanto l'amore di Dio quanto i miracoli; in questo aspetto si nota tutta la sfiducia che l'Inquisitore prova nei confronti della natura umana. Nonostante questo egli prende le difese della debolezza umana e in nome dell'amore per gli uomini toglie loro il dono della libertà, che li carica di sofferenze. Cristo riceve le stesse accuse rivolte dai socialisti ai cristiani: «libertà e pane terreno in abbondanza sono incompatibili tra loro perché mai, mai gli uomini potranno mettersi d'accordo. Si accorgeranno pure che non potranno mai essere liberi perché sono deboli, viziosi, insignificanti e riottosi. Tu promettesti loro il pane celeste, ma potrebbe questo essere paragonato dalla schiatta umana, debole, eternamente viziosa ed eternamente ingrata, con il pane terreno? E se dietro a Te, nel nome del pane celeste, ne andranno a migliaia, che avverrà dei milioni di esseri, che non avranno la forza di trascurare il pane terreno per quello celeste? […] No, a noi sono cari anche i deboli. In nomi del pane terreno si ribellerà a Te lo spirito della terra e si batterà con Te e Ti vincerà e tutti gli andranno dietro. In luogo del tuo tempio si ergerà un nuovo edificio, si innalzerà di nuovo la terribile torre di Babele»66. Il socialismo ateo, accusando il cristianesimo di non aver donato la felicità agli uomini, predica la religione del pane terreno dietro al quale andranno a milioni, a dispetto della religione del pane celeste riservata a pochi eletti. Il Cristianesimo non ha saziato gli uomini perché non ammette la costrizione sulla libertà dello spirito umano, sulla libertà di coscienza; esso si rivolge alla libertà umana e da questa attende che la volontà di Cristo sia compiuta. Per il socialismo ateo questo problema non si pone, poiché vuole eliminare questo tragico problema della libertà, vuole soffocare il principio irrazionale della vita in nome della felicità e della sazietà degli uomini. Il Grande Inquisitore promette di liberare gli uomini dalle terribili conseguenze che possono derivare da una decisione libera e personale; egli abbandona i superbi per ritornare dagli umili e donargli la felicità perché non pochi degli uomini superbi credono in Dio, soprattutto quelli che provano disprezzo verso i propri simili. Essi scelgono di inchinarsi solamente davanti a Dio perché così facendo vengono salvati dal peso dell'umiliazione; per poter attuare il piano dell'Inquisitore bisogna estirpare l'idea stessa di Dio dalla mente umana, solo così si può ottenere quel vagheggiato formicaio sociale fondato sulla costrizione. Nella Leggenda, in particolare nelle tre tentazioni respinte da Cristo nel deserto, Dostoevskij traccia il quadro di un'utopia sociale in cui l'uomo continua incessantemente a vaneggiare di una futura utopia sociale. Nelle tre tentazioni «è predetta tutta la storia umana futura e appaiono le tre immagini in cui si uniranno tutte le insolubili contraddizioni storiche della natura umana sulla terra»67. Esse rappresentano la radicale differenza di pensiero tra Colui che vuole rendere l'uomo libero ma infelice, e colui che lo vuole soggetto alla costrizione ma tranquillo e appagato. Cristo respinge le tre tentazioni in nome della libertà dell'individuo, Egli non vuole che lo spirito umano sia reso schiavo dal pane, dal miracolo e dal regno della terra; il Grande Inquisitore, al contrario, vi si concede senza esitazione in nome della felicità e della tranquillità dell'uomo rinunciando alla libertà. Innanzitutto accetta la tentazione di mutare le pietre in pani poiché: «tu rifiutasti l'unica bandiera assoluta che ti era offerta per costringere tutti a inchinarsi davanti a te senza discutere: la bandiera del pane terrestre; e la rifiutasti in nome della libertà e del pane celeste»68; egli risolve tutti i problemi dell'ordinamento terreno degli uomini attraverso l'accettazione delle tre tentazioni. Il Grande Inquisitore infatti custodisce un segreto: egli non è con Cristo ma è contro di lui, il suo spirito appartiene al non essere e al principio di negazione. Codesto spirito, che baratta Cristo con l'Anticristo, compare sotto vari aspetti nel corso della storia; il Cattolicesimo, nel suo sistema di teocrazia papale per Dostoevskij è una dei tanti aspetti dello spirito del Grande Inquisitore. Nel suo destino storico, il Cristianesimo ha sempre tentato di rinunciare alla libertà dello spirito perché non vi è niente di più complicato per l'umanità cristiana che il mantener fede alla propria libertà; il maggior tormento dell'uomo è da rintracciare nella sua possibilità di libertà. Egli deve ricercare la propria realizzazione solamente attraverso la negazione del cristianesimo ma ciò avviene anche all'interno del Cristianesimo stesso in quanto la teoria dell'autorità, che ha una parte fondamentale all'interno di esso, è un continuo rinnegare la libertà di Cristo, il mistero del Dio crocefisso. Scrive infatti Berdjaev: «il mistero della libertà cristiana è appunto il segreto del Golgota, il segreto della Crocefissione. La verità, crocefissa sulla croce, non sforza alcuno, non costringe alcuno. La si può solo scoprire e accogliere liberamente. La verità crocefissa si rivolge alla libertà dello spirito umano»69. Da ciò si deduce che, ogniqualvolta ci si è sforzati di mutare la verità cristiana rivolta alla libertà dello spirito in verità autoritaria, coercitiva dello spirito, si è tradito il mistero fondamentale del cristianesimo; quando la vita religiosa viene sottomessa dal principio di autorità viene tradito il mistero della Crocefissione e innalzato a forza coercitiva di questo mondo. Imboccando questa via la Chiesa assume sempre i paramenti dello Stato e l'ordinamento ecclesiastico si erge a ordinamento giuridico; la vita della Chiesa si sottomette a norme giuridiche costrittive attraverso la razionalizzazione della verità di Cristo. La razionalizzazione di questa verità rappresenta il passaggio dalla libertà all'imposizione, per questo Dostoevskij rimane sempre fedele alla verità della Crocifissione, alla religione del Golgota, cioè alla religione della libertà. Nonostante questo però, il cristianesimo adottato da Dostoevskij assume nuove sfumature e caratteri sebbene rimanga fedele alla sua eterna verità. Come scrive ancora Berdjaev, «egli, nella sua concezione di libertà cristiana, esce dai confini dell'ortodossia storica. Alla coscienza puramente ortodossa egli è più accettabile che a quella cattolica, ma anche l'ortodossia conservatrice dovrebbe spaventarsi dello spirito rivoluzionario di Dostoevskij, della sua sconfinata libertà di spirito»70. Lo spirito delle idee del Grande Inquisitore, infatti, può manifestarsi in egual modo sia all'estrema destra che all'estrema sinistra, trovando estimatori sia fra i rivoluzionari che fra le file dei conservatori. Il suo regno bandisce la religione poiché si riferisce non al Cattolicesimo, ma al socialismo ateo e materialistico; attraverso di esso l'uguaglianza è raggiungibile unicamente sulla via del dispotismo. Il socialismo abbraccia le tre tentazioni respinte da Cristo nel deserto, rinunciando alla libertà di spirito in nome della felicità e della sazietà di milioni di uomini. In primo luogo si lascia corrompere dal mutamento delle pietre in pane ma tale adesione avviene a un prezzo terribile: la perdita della libertà dello spirito umano. Il socialismo accetta con gioia questa perdita poiché il suo sistema, in quanto religione opposta al Cristianesimo come il sistema del Grande Inquisitore, si fonda sulla sfiducia nella verità e nel senso della vita. «Ma se non c'è Verità e non c'è un Senso, allora rimane solo un motivo elevato: la compassione per la massa umana, il desiderio di darle una felicità insensata nel breve istante della vita terrena»71. Il Grande Inquisitore prova una smisurata compassione per gli uomini ma è sedotto dal male che si è impossessato della veste del bene: tale è il potere dell'Anticristo. Esso non rappresenta un male antico e evidente ma un male nuovo, raffinato e insidioso che si manifesta sempre attraverso le sembianze del bene. Nel male anticristiano si scorge sempre una somiglianza con il principio del bene perché rimane sempre il pericolo di una confusione e di uno scambio; l'immagine di Cristo comincia a non essere più percepita distintamente e a confondersi con quella dell'Anticristo. Dall'incapacità di distinguere tra bene e male comincia lo sdoppiamento del bene stesso e la nascita degli uomini con duplici pensieri. La totalità della dialettica di Dostoevskij è racchiusa in questa incapacità di distinguere il principio positivo da quello negativo; essa è fondata sull'opposizione Dio-uomo e uomo-Dio, Cristo e Anticristo. L'idea dell'uomo-Dio raggiunge la sua massima intensità in una figura per certi versi simile a quella del Grande Inquisitore: Kirillov; in essa viene posto l'ultimo problema del destino umano. Dice Kirillov: «verrà il nuovo uomo, felice e superbo. Colui al quale sarà indifferente vivere o non vivere, quegli sarà il nuovo uomo. Chi vincerà il dolore e la paura sarà Dio egli stesso. E l'altro Dio più non sarà...Dio è il dolore della paura della morte. Chi vincerà il dolore e la paura, diventerà Dio egli stesso. Allora vi sarà una nuova vita, vi sarà un nuovo uomo, tutto sarà nuovo...l'uomo sarà un Dio e si cambierà fisicamente. Anche il mondo si cambierà, anche le opere si cambieranno, e i pensieri e tutti i sentimenti...Chi osi uccidersi è un Dio. Adesso ciascuno può far sì che non ci sia più Dio e che non ci sia più nulla»72. Egli non crede in una vita eterna futura ma in una vita eterna presente così da poter salvare l'uomo e donargli l'immortalità; perciò attraverso un libero atto di arbitrio si uccide offrendosi come vittima. La morte di Kirillov e la morte di Cristo crocefisso rappresentano due concezioni diametralmente opposte; la morte del primo non è il Golgota che conduce alla salvezza poiché essa è tesa all'affermazione della volontà individuale e all'arbitrio illimitato, quella del secondo afferma la volontà del Padre conducendo alla salvezza. Cristo è crocefisso dal mondo che lo ha condannato, Kirillov si uccide da sé, il primo ottiene la vita eterna in un altro mondo mentre il secondo vorrebbe eternare la vita presente. Attraverso la figura di Kirillov, Dostoevskij vuole mostrare gli estremi confini e limiti della divinizzazione dell'uomo, sfociante nella catastrofe interiore dell'idea dell’uomo-Dio. Anche Kirillov, come il Grande Inquisitore, possiede dei caratteri puri e ascetici poiché l'esperimento di entrambi si svolge in un clima di sconcertante purezza ma «tutto il cammino dell'uomo in Dostoevskij, il cammino dello sdoppiamento, conduce alla deificazione dell'uomo. E si rivela intima perniciosità della deificazione per l'immagine dell'uomo»73.
Dostoevskij riversa la totalità delle sue idee religiose positive e la sua singolare concezione del cristianesimo prima di tutto nella Leggenda. In essa «l'immagine velata di Cristo è affine allo Zarathustra nietzschiano. Il medesimo spirito di libertà superiore, la medesima altezza vertiginosa, la medesima aristocrazia dello spirito»74. L'identificazione della figura di Cristo con la libertà dello spirito, accessibile solo a pochi, prima di allora non si era mai avverata poiché questa libertà è attuabile solamente se Cristo stesso rinuncia a ogni dominio sulla terra; la volontà di dominio priva della libertà sia colui che domina che coloro sui quali si domina. Nella Leggenda Cristo conosce unicamente il dominio dell'amore ovvero l'unico compatibile con la libertà ed è per questo che la religione da lui professata può essere identificata come quella dell'amore e della libertà, del sentimento reciproco fra l'uomo e Dio e Dio e l'uomo.
La Leggenda del Grande Inquisitore rappresenta la vetta del pensiero religioso di Dostoevskij e una delle massime riflessioni sulla libertà umana; essa influenzerà profondamente buona parte del pensiero filosofico, politico e religioso del XX secolo. Lo stesso Berdjaev dirà: «ho sempre diviso gli uomini in uomini di Dostoevskij e uomini estranei al suo spirito. Ogni volta che lo rileggevo, mi si rivelava sotto aspetti sempre nuovi. In gioventù mi impressionò profondamente il tema della Leggenda del Grande Inquisitore. Il mio primo Cristo fu il Cristo della Leggenda. L'idea della libertà è stata sempre fondamentale per la mia intuizione e concezione religiosa del mondo, e in tale intuizione iniziale della libertà ho trovato in Dostoevskij la mia patria spirituale»75. Da questa dichiarazione d'intenti si può facilmente intuire quanto la sua concezione sia stata fondamentale per lo sviluppo del pensiero del filosofo russo. La riflessione sulla libertà umana operata da Dostoevskij influenzerà una moltitudine di pensatori successivi, in particolar modo sarà una notevole fonte di ispirazione per il pensiero di Luigi Pareyson, uno dei massimi interpreti contemporanei del pensiero dello scrittore russo. Lo stesso Pareyson definirà Dostoevskij come «maestro e compagno di tutta una vita»76 e come colui che più di ogni altro filosofo ha compreso la realtà e il problema del male. Muovendo dal pensiero tragico di Dostoevskij, Pareyson ritiene che la filosofia non si sia mai interessata propriamente al problema della libertà, del male e di Dio, ma si sia interessata a questi problemi solamente da un punto di vista razionalistico, facendone idee razionali. Da un lato essa ha identificato Dio con la massima espressione della ragione, dall'altro ha rappresentato il male come privazione di essere rispetto a questo stesso Dio razionale e infine ha pensato la libertà come prospettiva finita rispetto a una prospettiva infinita. Pareyson in una delle sue ultime conferenze dice: «di essere stato a lungo scandalizzato dal fatto che dopo la Seconda Guerra mondiale, dopo la catastrofe di negatività avvenuta in questo squarcio di secolo, le filosofie, nell’immediato dopoguerra, perlopiù non si interessassero ai problemi che si erano presentati a ogni esistenza singola o anche collettiva, ma invece si occupassero di sottili questioni magari di metodologia scientifica o di analisi linguistiche»77. Nell’ultima parte del suo pensiero egli, prendendo le mosse dal pensiero di Dostoevskij, elabora un’ontologia della libertà: è l’essere stesso a essere libertà, non solamente l’uomo; l’essere viene identificato con la libertà del principio, con la libertà in cui consiste la realtà stessa. La libertà così intesa è al tempo stesso inizio e scelta: «a ogni livello essa con diverso vigore e intensità sgorga impetuosamente e si divide duplicemente, cioè afferma se stessa e insieme decide un’alternativa»78. La nascita di quest’alternativa è simultanea con quella della libertà perché la libertà è inizio primo e puro cominciamento; essa si origina da sé poiché l’inizio della libertà è da identificarsi con la libertà stessa: «essa è un tal cominciare che non cessa di cominciare, non nel senso d’un perpetuo ricominciare, ma nel senso d’un puro scaturire da se stessa»79; la libertà quindi non può che provenire dalla libertà poiché non presuppone che se stessa: è auto imposizione assoluta. Essendo imposizione assoluta, essa è preceduta unicamente da se stessa e la libertà precedente è identica in tutto e per tutto a quella successiva: la loro identità è la libertà stessa nel suo cominciamento e nel suo darsi all’infinito. Per Pareyson, quindi, la libertà può essere pensata dalla filosofia unicamente in modo paradossale in quanto la libertà in cui consiste la realtà è inscindibilmente inizio e scelta; essa corrisponde all’inizio assoluto in quanto non c’è nulla che la preceda ma contemporaneamente essa è scelta, scelta di essere se stessa. Il fatto che la libertà possa identificarsi con l’inizio di tutto non esclude che possa anche essere scelta, ma questa scelta non implica che la si rivolga verso qualcosa che precede la libertà stessa, altrimenti non sarebbe più inizio: «se la libertà fosse scelta di qualcosa anziché qualcos’altro, almeno questo qualcosa dovrebbe precederla, e allora non sarebbe più inizio. Invece la libertà è inizio. È questo il paradosso. Il pensiero non può sostenere questo paradosso tuttavia può pensarlo in quanto paradosso: la libertà come inizio e scelta insieme»80. Allo stesso modo della libertà, anche il concetto di Dio non viene preceduto da nulla, senza che ciò porti a una duplicazione di Dio; come la libertà pone se stessa attraverso un atto di autoposizione, così Dio non solo si origina da sé, ma consiste appunto in questa sua propria originazione. Come scrive Pareyson, «Al più alto livello Dio e libertà coincidono in questo loro puro originarsi, in questa loro originazione da sé a sé. E questa è la libertà originaria, che come dire la libertà divina: non Dio come essere dotato di libertà né come essere sommamente libero, ma Dio come libertà lui stesso, come libertà piena, originaria, assoluta»81. Il carattere distintivo della libertà consiste dunque nell’istantaneità del suo inizio; è a quest’istantaneità che allude Pareyson quando parla del nulla della libertà: se essa è puro inizio, prima di essa non c’è che il nulla, essa sorge improvvisa senza ricollegarsi a nulla che la preceda. L’inizio della libertà non scaturisce da niente se non da se stessa e il nulla della libertà «sono le tenebre squarciate dal lampo che l’accende»82. Il nulla della libertà si riferisce a questa sua posizione iniziale ovvero a questo suo non derivare da niente se non da se stessa, a questo suo manifestarsi all’improvviso come una lingua di fuoco nel buio. Il concetto di nulla collegato alla libertà è significativo poiché pone quest’ultima in rapporto con la negatività del non essere; dire che la libertà è preceduta dal nulla significa affermare che essa confina col proprio non essere. L’istantaneità del cominciamento può essere pensata unicamente come uscita dal non essere e la libertà è concepibile esclusivamente come una frontiera di negazione; essendo puro inizio essa possiede un passato di non essere, ma esso non è mai stato presente e non può esserlo se non nello stesso presente istantaneo della libertà. Dal carattere istantaneo d’inizio e scelta scaturisce il punto più inquietante di tutta la problematica della libertà poiché, come puro inizio, essa non cessa mai di cominciare e possiede un passato di non essere che non è mai stato presente. Il cominciamento della libertà, in questo senso, implica già una scelta in virtù del fatto che essa potrebbe affatto cominciare e rimanere racchiusa nel non essere oppure non affermarsi: «nella stessa istantaneità dell’inizio è delineata e contenuta l’alternativa: la libertà può uscire dal non essere o restarvi, può affermare se stessa o ricadere nel suo nulla. La libertà è per se stessa la libertà della scelta e la scelta della libertà: simultaneamente inizio e scelta»83. Nell’atto stesso di cominciare, la libertà si sdoppia, mantenendo questo carattere di duplicazione lungo tutto il percorso del suo esercizio; ciò avviene poiché la sua affermazione ha valore solamente in presenza della possibilità che il suo cominciamento non avvenga affatto: la realizzazione della libertà non può compiersi senza la possibilità contraria. Essa è scelta non solo in virtù del fatto che può affermarsi o negarsi, ma soprattutto nel senso che trae il suo sostentamento dalla possibilità di non negarsi o da quella di distruggersi, portando con sé il suo carattere distruttivo. Come nel pensiero di Dostoevskij, anche nella visione di Pareyson la libertà è di per sé duplice, ambigua, ancipite; attraverso il carattere di duplicità essa si sdoppia in libertà positiva e libertà negativa, portando alla nascita di due termini fortemente intrecciati fra loro: realtà e possibilità, positività e negatività. La duplicità di possibilità e realtà è caratterizzata dal fatto che la simultaneità di inizio e scelta non rende mai la libertà neutrale e indifferente; non è pensabile che prima della scelta vi possa essere un momento neutrale improvvisamente interrotto dall’entrata in scena della libertà: «essa è un atto di realizzazione che ha luogo sullo sfondo della possibilità alternativa non realizzata»84. I due termini che si disegnano a causa della libertà sdoppiata sono, appunto, alternativi in quanto la realizzazione dell’uno è accompagnata sempre dalla possibilità di attuazione dell’altro. Per quanto riguarda la sfera della positività e della negatività, in essa la libertà non è mai tale senza il presupposto di negazione che l’accompagna; essa non può essere tale se non racchiude in sé il non essere da cui emerge, la possibilità del suo contrario e lo sdoppiamento in libertà positiva e negativa. Ma la negazione non si riduce al non essere in cui la libertà rischia perennemente di uscirne fuori o ricaderne; poiché la scelta implica sempre la possibilità contraria che potrebbe essere preferita, quel carattere di non essere accresce il proprio contenuto di negazione diventando principio di negazione attivo e operoso. «L’alternativa come possibilità è negazione assai più intensa del mero non essere confine iniziale, perché è opposizione attiva, annientamento operoso, positiva distruzione»85. La libertà, avvolta dal non essere, lo trasforma in un nulla operoso e positivo, in negatività positiva, ovvero trasforma il termine 'nulla' potenziandolo di significato: il nulla attivo non è altro che il concetto di male. La libertà potenzia il nulla trasformandolo in male, che la libertà positiva può sconfiggere e soggiogare a discapito di quella negativa che invece precipita e si perde. Una volta passato attraverso la travolgente forza della libertà, il non essere muta radicalmente pelle divenendo un nulla operoso ed energico; col solo fatto di preferire l’essere al non essere o il non essere piuttosto che l’essere, la libertà fonda sia il principio dinamico della positività e quindi del bene, sia la negatività annichilente del nulla e del male. Pareyson approfondisce e chiarisce ulteriormente la questione in questi termini: «la libertà è circondata dal suo nulla, è per così dire fasciata dal non essere; ma in virtù della scelta che agisce preferendo o scartando, che erige la possibilità a sfondo delle proprie realizzazioni e insieme la neutralizza nell’atto di lasciarla nello stato di possibilità non realizzata, questo suo confine negativo non tarda a convertirsi in un vero e proprio contatto col nulla, in una profonda e radicale esperienza col negativo, che solo una filosofia della libertà – non una filosofia dell’essere – riesce in qualche modo a illustrare»86. Nel pensiero di Pareyson, quindi, non è l’essere che è in contatto col nulla, poiché se lo si considera da un punto di vista metafisico, non può che essere in relazione con il non essere; al contrario della libertà, in cui non c’è altro essere se non la positività che la libertà stessa preferisce a discapito del nulla. Il contatto originario fondamentale, dal quale si genera tutto, è da ricercarsi nel contatto originario fra libertà e nulla; non può esserci positività se i due termini non entrano in contatto fra loro, così come non può esserci se la libertà non fa esperienza dell’abisso di negazione. «La libertà» ricorda infatti Pareyson «è positiva solo se ha costeggiato il baratro del nulla e l’abisso del male, solo se si presenta come vittoria del bene sul male. La libertà è positiva solo se si afferma contro la negazione, solo se conosce la possibilità negativa, solo se ha sgominato e sconfitto la negatività»87. È unicamente il carattere della scelta che distingue una filosofia dell’essere da una filosofia della libertà. Lo stesso Pareyson afferma che per l’assenza di una libertà come scelta, la filosofia dell’essere è caratterizzata unicamente da un’incessante positività la quale non lascia posto al nulla, riducendo così il male a essere privazione, rendendo gli stessi concetti di male e di nulla del tutto estranei e enigmatici. Nella filosofia della libertà, invece, il nulla non viene relegato a concetto periferico e superficiale ma viene elevato a carattere centrale e profondo, «compagno inseparabile dell’essere con cui condivide l’abissalità»88. In questa filosofia tutto si gioca sulla possibilità di ciò che sarebbe o non sarebbe potuto essere, solo ciò che è positivo potrebbe o non sarebbe potuto essere negativo, così come è veramente reale solo ciò che è realizzato al cospetto di una presenza contraria da poterlo rendere solamente possibile; «merita il nome di essere solo ciò che avrebbe potuto essere nulla, di bene solo ciò avrebbe potuto essere male»89. Attraverso la sua filosofia della libertà, Pareyson recupera la lezione del suo maestro Dostoevskij per poter far prevalere la forza dirompente della libertà come unica condizione caratterizzante il destino dell’uomo.
Conclusione
Attraverso questo articolo ho cercato di analizzare i diversi aspetti di carattere filosofico che si possono riscontrare nelle opere di Fëdor Dostoevskij alla luce dell’interpretazione data da Luigi Pareyson, offrendo infine una panoramica della concezione pareysoniana riguardo ai temi fondamentali trattati dallo scrittore russo: il male, la libertà e Dio.
Tutti i personaggi che popolano le opere di Dostoevskij s’identificano con lui stesso, con la sua vita, coi diversi aspetti del suo essere, con la sua esperienza dolorosa. I suoi romanzi rappresentano delle vere e proprie tragedie in cui il protagonista indiscusso è l’uomo e il suo destino, protagonista di una tragedia interiore che svela i diversi aspetti del suo percorso esistenziale. La concezione filosofica di Dostoevskij è da ricercarsi proprio all’interno della tragedia interiore che vivifica i suoi personaggi; solamente attraverso di essa la sua filosofia potrà dispiegarsi con tutta la sua implacabile forza. L’interessamento al destino e al problema dell’uomo determina la struttura artistica dei romanzi di Dostoevskij, così come gli elementi formali, strutturali e stilistici della sua opera rientrano interamente nel sistema dei suoi pensieri filosofici. Nel primo capitolo, infatti, ho analizzato il primo di questi pensieri che ha ossessionato l’opera di Dostoevskij lungo tutto il suo corso: l’esperienza della realtà del male. Il male, per Dostoevskij, rappresenta una realtà effettiva e ineludibile che conferisce all’uomo un carattere eminentemente tragico; attraverso i suoi personaggi egli mira a sottolinearne la realtà poiché il male costituisce la franca malvagità dell’uomo e dei suoi istinti. L’azione malvagia non è frutto d’ignoranza ma rappresenta il puro gusto di compiere il male poiché conoscenza del bene e azione cattiva possono essere simultanee: il fatto di conoscere l’ideale non solo non rende impossibile commettere il male, ma anzi è maggiore istigazione e tentazione. Questa mescolanza di principio positivo e negativo è rappresentata dai Karamazov, che per Dostoevskij sono il simbolo dell’umanità intera, impastata di bene e soprattutto di male, demoniaca e angelica insieme. Secondo Dostoevskij, quindi, il male non è una semplice attenuazione o diminuzione di bene, ma ne è una negazione reale e positiva nel senso di una deliberata infrazione e inosservanza. È una rivolta contro l’essere, una violazione della positività, un oltraggio al bene, una disobbedienza alla legge. Il male rappresenta una realtà effettiva nella vita dell’uomo che conferisce al suo destino quel carattere di tragedia imminente che caratterizza l’intera produzione dostoevskiana. Il concetto di male, però, non è l’unica realtà che caratterizza il destino dell’uomo poiché esso rappresenta una scelta tesa al libero arbitrio dell’anima umana; ciò che caratterizza questa scelta si identifica con un altro concetto chiave della concezione di Dostoevskij: la libertà. L’esperienza della libertà rappresenta il centro della filosofia di Dostoevskij così come l’esperienza più profonda dell’uomo, condizione di tutte le altre. Essa rappresenta l’unico mezzo veramente necessario per poter giungere alla realizzazione del bene e al conseguimento della salvezza. La libertà primaria è la facoltà di scegliere liberamente fra bene e male poiché entrambi sono frutto della libertà stessa, senza di essa non ci sarebbe il male, ma neanche il bene. La realtà del male scaturisce solamente dalla libertà e più precisamente da una libertà illimitata e arbitraria. Essa rappresenta un atto di ribellione, una volontà positiva di compiere il male: esemplare in tal senso la vicenda di Raskol’nikov, di Stavrogin e dei demoni. Dall’esperienza della libertà, però, acquista il suo vero significato anche il concetto di bene; ciò che è necessario a quest’ultimo non si identifica con l’esperienza del male ma con quella della libertà: per aderire consapevolmente al bene bisogna aver esaurito le possibilità di compiere il male attraverso la libertà. Essa, infatti, implica la possibilità del male senza la necessità della sua reale esperienza. L’uomo non può ignorare la realtà del male poiché il raggiungimento del bene non può essere compiuto se non attraverso di essa; ma questo rappresenta l’unico cammino possibile della libertà nella sua duplice scelta: l’esito redentore del bene o l’esito distruttivo del male.
L’esperienza della liberà, pur così fondamentale, non è ancora per Dostoevskij l’esperienza originaria a cui tutto deve fare riferimento; per lo scrittore russo vi è un’esperienza ancora più originaria e profonda: l’esperienza di Dio. Essa rappresenta l’esperienza suprema, condizione di tutte le altre, decisiva per il destino dell’uomo. Dio è, per Dostoevskij, il punto di riferimento, Egli solo è in grado di fornire all’uomo una nozione del bene e del male, senza imporgli che non sia lui stesso ad assumersene il rischio e la responsabilità. Come esperienza primaria, Dio per un verso include quelle della libertà e del male, per l’altro si incarna concretamente in esse; l’inseparabilità di questi tre fondamentali problemi rappresentano l’esperienza veramente totale e decisiva per il destino dell’uomo. Alla presenza di Dio il male appare nella sua vera portata, acquistando un senso misterioso e profondo, così come alla sua presenza la libertà ottiene un peso decisivo per il destino dell’uomo. Nella concezione di Dostoevskij la connessione di questi termini inseparabili, ovvero male, libertà e Dio trova la sua massima realizzazione nella Leggenda del Grande Inquisitore. Nella Leggenda Dostoevskij rappresenta gli uomini come incapaci di sopportare il terribile peso della libertà che Cristo ha donato loro; questo perché la libertà di Cristo è come quella dei demoni: illimitata. Essa ignora ogni limite e legge se non quelli che ha volontariamente accettato, non si arresta neppure di fronte a Dio stesso, rivendicando il diritto di metterlo in discussione poiché come sostiene Pareyson: «non sarebbe Dio quello che le contrastasse questo diritto e non ne sollecitasse l’uso. Egli stesso vuol mettersi nel pericolo ben consapevole del rischio che corre esigendo che la risposta umana alla sua domanda sia assolutamente libera. Egli si pone in condizione di poter condannare la ribellione solo in quanto non la impedisce, giacché essa è l’unico sfondo su cui possa prendere risalto e valore l’obbedienza»90. Nessuno vorrà negare che è meglio il male libero piuttosto che il bene imposto poiché il bene imposto porta con sé la propria negazione in quanto vero bene è solo quello che si compie liberamente, avendo la possibilità di compiere anche il male; mentre il male libero ha in sé il proprio correttivo, ovvero la libertà, dalla quale un giorno potrà scaturire il bene libero. La libertà viene ad essere principio di affermazione e al contempo principio di perdizione, assumendosi la responsabilità di mettere in discussione ogni legge e adottarne una solo se liberamente accolta. La Leggenda si eleva a suprema celebrazione della libertà umana donata da Dio all’uomo con tutte le conseguenze che questo dono porta con sé: la possibilità in egual misura di compiere il bene piuttosto che il male, l’accettazione dell’amore di Cristo o una lenta capitolazione negli abissi oscuri, il libero abbraccio della fede o la prostrazione ai piedi dell’Anticristo.
Infine, attraverso l’indagine sulla libertà operata da Dostoevskij, Pareyson prende le mosse per elaborare la teoria di come essa sia allo stesso tempo inizio e scelta. La nascita di un’alternativa è simultanea alla libertà stessa poiché quest’ultima è inizio primo e puro cominciamento; si origina da sé perché la sua nascita non può che provenire dalla libertà stessa, essendo a un tempo inizio e scelta. Come per Dostoevskij, anche per Pareyson al centro di tutto risiede la libertà: è solo grazie alla sua energia che prevale la positività quando essa si afferma contro la possibilità del nulla attivo e del male distruttivo, ma è per la stessa energia della libertà che pur davanti alla possibilità del bene qualcuno preferisce realizzare il male con le conseguenze distruttive che ne conseguono. Attraverso la libertà sorge il bene così come può sorgere il male e ciò accade per il solo fatto che essa non si afferma se non in presenza di una forza contraria che potrebbe essere preferita. La stessa energia che anima il principio positivo anima allo stesso tempo quello negativo ed è per questo che tanto l’uno quanto l’altro possiedono un così possente vigore, creatore di imponderabili conseguenze. Alla luce del pensiero dostoevskijano, Pareyson spiega come il male, per mezzo della libertà, «sia così forte e potente nel mondo: la sua energia si manifesta sia nel fatto che la libertà esige per la positività del bene la possibilità del negativo, donde il nulla come minaccia che può essere incombente e il male come pericolo che può diventare incalzante; sia nell’atto di preferire alla possibilità del bene quella del male, quando qualcuno riesca a realizzarlo come scelta negativa, deleteria e morale»91. Nel concludere, grazie a Dostoevskij Pareyson ha elaborato un pensiero tragico attraverso un’ontologia della libertà, «ha pensato l’abissalità della libertà, umana o divina indissolubilmente, l’abissalità della libertà che è la realtà stessa. Se noi quindi pensiamo che l’abissalità della libertà è lo stesso specchio in cui possiamo vedere irriflessivamente il nostro volto più interiore, e se noi osiamo e vogliamo gettare lo sguardo nelle abissali profondità della libertà, quelle forse che abbiamo pure e inquiete in noi, se facciamo questo, io credo, noi possiamo ancora essere allievi di Pareyson»92 .
Bibliografia
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1 N. Berdjaev, La concezione di Dostoevskij, Einaudi, Torino 2002, p. 23.
2 L. Pareyson, Dostoevskij, Einaudi, Torino 1993, p. 8.
3 Ivi, p. 10.
4 L. Pareyson, Dostoevskij, cit., p. 5.
5 F. Dostoevskij, Memorie dal sottosuolo, Mondadori, Milano 2008, p. 20.
6 N. Berdjaev, La concezione di Dostoevskij, cit. , p. 19.
7 L. Pareyson, Dostoevskij, cit., p. 13.
8 N. Berdjaev, La concezione di Dostoevskij, cit., 41.
9 Ivi, p. 27.
10 L. Pareyson, Dostoevskij, cit., p. 20.
11 Ivi, p.29.
12 Ivi, p.32.
13 Ibidem.
14 F. Dostoevskij, I demoni, Mondadori, Milano 2010, p. 400.
15 L. Pareyson, Dostoevskij, cit., p. 45.
16 Ivi, p. 47.
17 Ivi, p. 48.
18 F. Dostoevskij, I fratelli Karamazov, Einaudi, Torino 2005, p. 320.
19 Ivi, p. 336.
20 N. Berdjaev, La concezione di Dostoevskij, cit., p. 68.
21 L. Pareyson, Dostoevskij, cit., p. 62.
22 L. Pareyson, Ontologia della libertà, Einaudi, Torino 2000, p. 166.
23 L. Pareyson, Dostoevskij, cit. p. 66.
24 Ivi, p. 67.
25 Ivi, p. 68.
26 Ivi, p. 104.
27 Ibidem.
28 Ivi, p. 105.
29 Ivi, p. 108.
30 Ivi, p. 109.
31 N. Berdjaev, La concezione di Dostoevskij, cit., p. 59.
32 L. Pareyson, Dostoevskij, cit., p. 110.
33 Ivi, p. 113.
34 N. Berdjaev, La concezione di Dostoevskij, cit., p. 67.
35 Ivi, p. 9.
36 Ivi, p. 20.
37 L. Pareyson, Dostoevskij, cit., p. 117.
38 Ivi, p. 118.
39 S. Givone, Dostoevskij e la filosofia, Editori Laterza, Bari 2006, p. 5.
40 L. Pareyson, Dostoevskij, cit., p. 119.
41 Ivi, p. 118.
42 N. Berdjaev, La concezione di Dostoevskij, cit., p. 13.
43 L. Pareyson, Dostoevskij, cit., p. 125.
44 Ivi, p. 128.
45 N. Berdjaev, La concezione di Dostoevskij, cit., p. 60.
46 L. Pareyson, Dostoevskij, cit., p. 130.
47 Ivi, p. 132.
48 Ivi, p. 133.
49 Ivi, p. 134.
50 N. Berdjaev, La concezione di Dostoevskij, cit., p. 44.
51 Ivi, p. 45.
52 Ibidem.
53 L. Pareyson, Dostoevskij, cit., p. 135.
54 Ibidem.
55 Ivi, p. 136.
56 Ivi, p. 50.
57 Ibidem.
58 F. Dostoevskij, I demoni, p, 500.
59 L. Pareyson, Dostoevskij, cit., p. 139.
60 N. Berdjaev, La concezione di Dostoevskij, cit., p. 66.
61 L. Pareyson, Dostoevskij, cit., p. 140.
62 N. Berdjaev, La concezione di Dostoevskij, cit., p. 147.
63 Ivi, p. 148.
64 F. Dostoevskij, I fratelli Karamazov, cit., p. 349.
65 F. Dostoevskij, I fratelli Karamazov, cit., p. 337.
66 Ivi, p. 338.
67 N. Berdjaev, La concezione di Dostoevskij, cit., p. 153.
68 F. Dostoevskij, I fratelli Karamazov, cit., p. 339.
69 N. Berdjaev, La concezione di Dostoevskij, cit., p. 154.
70 Ivi, p. 156.
71 Ivi, p. 157.
72 F. Dostoevskij, I demoni, cit., p. 400.
73 N. Berdjaev, La concezione di Dostoevskij, cit., p. 160.
74 Ibidem.
75 Ivi, p. 3.
76 L. Pareyson, Ontologia della libertà, cit., p. 167.
77 F. Tomatis, Pareyson. Vita, Filosofia, bibliografia, Morcelliana, Brescia 2003, p. 54.
78 L. Pareyson, Ontologia della libertà, cit., p. 254.
79 Ibidem.
80 F. Tomatis, Pareyson. Vita, filosofia, bibliografia, cit. , p. 56.
81 L. Pareyson, Ontologia della libertà, cit., p. 255.
82 Ibidem.
83 Ivi, p. 256.
84 Ivi, p. 257.
85 Ivi, p. 258.
86Ivi, p. 259.
87 Ibidem.
88 Ibidem.
89 Ibidem.
90 Ivi, p.467.
91 Ivi, p.261.
92 F. Tomatis, Pareyson. Vita, filosofia, bibliografia, cit., p.67.
Aggiunto il 03/11/2018 00:33 da Davide Orlandi
Argomento: Ermeneutica filosofica
Autore: Davide Orlandi
Cari lettori , oggi vi propongo un mio piccolo ma sostanzioso articolo sulla necessità religiosa e sul materialismo. Sottolineo come sempre che questa è un’indagine filosofica del tutto opi
«A chi mi domanda che cosa abbia fatto Hegel io rispondo che ha redento il mondo dal male perché ha giustificato questo nel suo ufficio di elemento vitale» [Benedetto Croce]
ESSERE E NULLA NELLA CITTA’ DI ELEA Non si può non rimanere ammirati di fronte allo spett