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Il limite in filosofia

IL LIMITE IN FILOSOFIA

di Giovanni Mazzallo

La concezione che l’uomo ha sempre posseduto in  merito alla sua capacità di assimilare le intere caratteristiche denotative degli aspetti fenomenologici del reale, per addentrarsi nelle sue dinamiche interne più latenti e profonde, ha più volte dovuto affrontare, nel corso della storia, diversi ostacoli all’apparenza insormontabili che ne hanno minato fin da principio le pretese conoscitive più elevate in tal senso. Lo scoglio più grande è sempre stato rappresentato dal concetto stesso di “limite”, che nel suo manifestarsi all’interno delle argomentazioni filosofiche e scientifiche dalla portata più universale è sempre sembrato assumere un significato di carattere essenzialmente negativo piuttosto che ridefinente. Per “ridefinente” altro non si intende che un elemento imprescindibile nella formulazione delle conoscenze capace di regolare l’enunciazione dei giudizi, la loro strutturazione interna e la loro aderenza quanto più isomorfica possibile allo stato contingente delle cose. Il che non indica che, anche nel caso in cui i sistemi filosofici di carattere spiccatamente metafisico non abbiano a prima vista alcun tipo di collegamento direttamente afferrabile con la realtà, tali sistemi siano privi di senso compiuto; anzi, hanno tanto più senso compiuto quanto più è logicamente consistente la loro costruzione sulle basi di principi, assiomi e assunzioni primitive di tipo ontologico che tentano di spiegare ciò che si fenomenicizza negli aspetti della realtà a partire da un piano di riflessione prettamente speculare e parallelo che non sempre, però, è in grado di proiettare (seppur al solo livello metafisico) un’immagine correlabile a quanto si intende descrivere e spiegare dal suo interno. In questo caso, la funzione del limite è di fondamentale e radicale importanza, poiché permette di individuare non soltanto, in modo più elementare, le eventuali fallacie onto-logiche della rappresentazione metafisica della realtà, ma anche prospettive che possibilmente non erano mai neanche state minimamente accennate all’interno di un dato sistema di pensiero, che pertanto, pur conservando la sua dignità teoretica e il suo valore epistemologico (per quanto concerne il contributo che può riuscire a dare allo sviluppo di un pensiero libero e critico), viene fortemente ridimensionato (indi limitato per l’appunto) per quanto riguarda la sua valenza puramente epistemica. Il limite, quindi, non va inteso in senso negativo in questo senso, ma necessita di essere riammesso in un’accezione chiaramente positiva che lo determini come momento inalienabile connaturato al pensiero filosofico-scientifico stesso (quindi al pensiero tout court), in quanto altro non risulta essere che la concrezione più veritiera e realmente latrice di vera conoscenza depurata e schiarita dei processi cognitivi e conoscitivi del pensiero che adopera lo strumento della ragione verso se stesso, ponendosi quasi come giudice della sua stessa natura che si rende autocosciente dei limiti intrinseci al suo grado di appropinquamento alla conoscibilità del reale, pertanto notando i suoi stessi limiti (e quelli dei suoi giudizi) così da fare di questa presa di coscienza epistemica interna l’incipit di un percorso di ravvedimento e perfezionamento delle catene logiche del ragionamento che potenzi in maniera ottimale i meccanismi di elaborazione, comprensione e, soprattutto, descrizione e spiegazione dei dati senza produrre esiti che siano i punti più deboli da cui diviene possibile falsificare facilmente un certo corpus di conoscenze e la sua stabilità interiore. Un caso evidente è rappresentato certamente dall’idealismo metafisico di Platone che diede per l’appunto avvio, in Occidente, al filone di pensiero della metafisica che avrebbe sempre contraddistinto (stando a Nietzsche) il pensiero filosofico europeo. La scissione compiuta da Platone fra mondo sensibile e mondo intelligibile (la realtà iperuranica delle idee stanti per i principi ontologici supremi della realtà), fra cui poi immette nel Timeo quella terza specie di piano onto-epistemologico della realtà rappresentato dalla chora che diviene il mezzo indifferenziato ed invisibile della realtà di cui le cose sono fatte, in cui le cose stanno e che risulta essere la materia-spazio su cui agisce il Demiurgo per il forgiamento delle cose (della realtà stessa), può arrivare a preludere (come fatto notare da Aristotele nella sua Metafisica) ad un regressus ad infinitum nella ricerca dei principi ultimi della realtà che non si esaurisce mai (in quanto si ricerca vanamente l’origine delle idee, l’origine delle idee che originano le idee e così via all’infinito) che porta ad un livello di astrazione sempre più distaccato dalla realtà sensibile ed empirica di cui invece lo stesso Aristotele dimostra di volersi occupare con l’utilizzo di un metodo scrupoloso di indagine (armonizzante la fisica con la metafisica) che predilige di netto la natura materiale delle cose piuttosto che la loro riduzione subordinata a rappresentazione logico-ontologica del mondo ontologicamente perfetto ed unico e gnoseologicamente inacquisibile delle idee (cui poi lo stesso Platone avrebbe fatto seguire la teoria dei generi sommi e i principi dell’Uno e della Diade). Aristotele, pertanto, facendosi critico della filosofia metafisica platonica e della filosofia fisicalista dei primi pensatori greci precedente, sottolinea la forte limitatività caratterizzante l’intero apparato speculativo che fino a quel momento aveva imperato nella prima fase della nascita della filosofia sul versante occidentale del mondo, e, nel cercare di aggirare tale limite in un orizzonte che non escluda la materialità connotativa della physis da lui investigata, ma che anzi la includa nei contorni di una sistemazione filosofica onnicomprensiva che guardi sia alle cose che alle loro cause in senso e naturalistico e ontologico, ammette che tutto ciò che i filosofi di età più antica avevano saputo fornire era una mera ipostatizzazione di un elemento della natura che veniva ad essere posto sia a causa movente del reale sia a fattore costituente l’ontologicità delle cose presenti in natura, che, a partire da tale elemento, venivano ad essere prodotte, mantenute nella loro integrità e infine distrutte ed assorbite. Difatti, il concetto (prescindendo da Platone) che meglio rappresentava il carattere di eternità di tale concezione dell’universo connesso alla ciclicità della processualità vitale della natura e delle sue manifestazioni era dato dall’apeiron anassimandreo, che stava ad indicare per l’appunto il quantitativamente illimitato e il qualitativamente indefinito stante alla base della formazione del cosmo e dei cieli, che abbracciava i mondi e da cui dipendeva la nascita, l’esistenza e la distruzione delle cose. Tale principio era senza limiti per la sua caratteristica pervasività che ne faceva l’origine suprema e il principio regolatore di ogni cosa, il giusto, solo ed unico elemento ponentesi a principio primo del tutto per il suo essere il trait d’union fra il materiale e l’immateriale, la cui infinità era solo parzialmente riprodotta a livello cosmico-materiale dal moto dei corpi che, in ogni caso, non poteva mai ricombinarsi globalmente a formare il vortice infinito dell’apeiron da cui le cose si formavano per disgiunzione (atto creativo di ingiustizia ontologica) e in cui le cose ritornavano una volta compiuto il loro ciclo esistenziale (atto deperente di ricomposizione ontologica). La ciclicità è l’infinito che si può indurre dalle forme della natura per gli antichi fisicalisti greci, in essa ciò che sarà è già stato e non c’è mai un termine, né un inizio né una fine, senza poter mai avere un punto ben delineato di riferimento per determinare specificatamente la grandezza di un dato fenomeno. L’apeiron è illimitato e per via di questa sua caratteristica essenziale di illimitatezza può rappresentare l’arché del’universo. Aristotele, pur non mancando di riconoscere i vantaggi a livello speculativo di tale concezione (così come la teoria omeomerica degli anassagorei in merito alla distinzione tra infinito potenziale e infinito attuale), non può accettare un’impostazione di pensiero di questo genere che prescinde dalla considerazione delle qualità specifiche delle cose che sono presenti nella realtà empirica della natura e costituisce un suo sistema di pensiero che tenta di unificare quanto più possibile la speculazione filosofica con la ricerca scientifica empirica. La sua fisica, naturalmente, è stata poi superata in età rinascimentale a partire da Copernico, Brahe, Keplero e Galilei, che poterono avvalersi (nella fattispecie quest’ultimo) di strumentazioni all’avanguardia di cui i coevi di Aristotele non potevano disporre (il famigerato cannocchiale ripetutamente bollato come instrumentum diaboli dai seguaci della dottrina aristotelico-tolemaica), ma rimane che quanto da lui teorizzato in sede puramente filosofica, ovverosia una nuova concettualizzazione del problema della ricerca dei principi ultimi della realtà che in lui si riconducono al problema capitale della definizione dell’Essere (come accidente, come vero, come categoria, come atto e potenza), indica che lo sfatamento di un pensiero rivelatosi illusorio e per nulla affidabile nel suo grado di descrizione e spiegazione del reale mediante la scoperta dei suoi limiti conoscitivi consente sia di risolvere le aporie di tale sistema filosofico come problematiche sorgenti da un’errata impostazione di pensiero che possono essere risolte con una formulazione del tutto nuova ed antitetica, sia di problematizzare ancor maggiormente la discussione sul rapporto interstante fra il mondo fenomenico e la mente umana, che non è mai stata risolta in modo assoluto nel corso della storia del pensiero poiché, anche quando la metafisica, con l’avvento della filosofia analitica e della logica del linguaggio e delle scienze, è stata dissolta, la rinuncia totale alla metafisica non ha conseguito il risultato sperato e, anzi, ha reso ancora più laborioso il tentativo di rendere conto di una conoscenza quanto più certa e inoppugnabile possibile, dato che il solo riduzionismo non è bastevole a certificare e a garantire l’assolutezza e la solidità di una conoscenza dal momento che la realtà della materia fenomenica mostra di essere composta di una certa discontinuità intestina che non può più neanche fornire all’uomo le fondamenta salde della comprensione della realtà (spazio e tempo) su cui l’uomo un tempo credeva di poter radicare con piena certezza lo sfondo ontologico delle sue verità epistemiche (di cui però questa stessa epistemicità necessitava pur sempre di essere opportunamente verificata). Lo spazio e il tempo, come mostrato dalla fisica quantistica, non sono più dei dati assoluti, non sono più i parametri assolutamente certi e imperituramente confermati con cui conclamare l’esistenza e la pregnanza filosofica e fisico-sperimentale degli oggetti, degli enti esaminati. Lo spazio e il tempo a dire il vero, in quello che può essere chiamato il vero e proprio scopritore delle colonne d’Ercole del pensiero umano, Kant, sono le forme a-priori della sensibilità, categorie intuitive pure a-priori che sono già date e all’interno delle quali l’uomo trova il ricettacolo delle impressioni sensibili e delle percezioni materiali di cui il suo intelletto diviene il centro mentale unificatore. Lo spazio e il tempo, nel loro stesso carattere di datità a-prioristica che si impone alle conoscenze acquisibili nella realtà per l’uomo poiché tutto ricade in un certo ordine di coesistenza spaziale e ordinamento temporale di successione (per questo Kant è l’esponente più fulgido in ambito filosofico dell’oggettivismo assolutistico newtoniano), rappresentano già in sé, in Kant, il limite stesso delle facoltà conoscitive dell’uomo, la cui conoscenza non potrà mai varcare la soglia del sentiero metafisico  nella speranza di cogliere quell’Assoluto che sin dalla notte dei tempi l’uomo cerca così disperatamente di raggiungere. Kant mostra che tutto ciò che l’uomo può cogliere e potrà mai sperare di cogliere in maniera quanto più certa possibile è costituito  da tutto ciò che non ha per niente di assoluto fintantoché quest’assoluto non ha niente a che vedere con le forme a-priori dello spazio e del tempo che, se in Newton sono essenzialmente aspetti speculari delle proprietà divine che si effondono nel creato (sensorium Dei), in Kant divengono sensorium hominis, che delimita il campo fenomenico (e solo fenomenico) di tutto il conoscibile che l’uomo potrà mai afferrare. Andare oltre i limiti epistemici dello spazio e del tempo, quindi, significherebbe sostanzialmente ricercare i tre principi cardine della metafisica come presunta scienza (l’anima studiata dalla psicologia, il mondo studiato dalla cosmologia, Dio studiato dalla teologia) in cui ricondurre ad ideale unità i molteplici aspetti del dato fenomeno studiato che travalica i limiti empirici già dati dello spazio e del tempo che contengono l’intero conoscibile cui l’uomo potrà mai arrivare. Se lo spazio e il tempo sono i limiti esistenti e contingenti che formano materialmente e plasmano epistemicamente le impressioni, le sensazioni e le percezioni (quindi i fenomeni) conoscibili empiricamente, i concetti dialettici puri della metafisica sono invece soltanto i concetti-limite di carattere regolativo di questa stessa conoscenza che soltanto i concetti-limite di spazio e tempo estetici possono apportare. L’idea di infinito, ad esempio, non è mai realizzata pienamente in natura, ma al contempo, pur non essendo materia di conoscenza (ha carattere evidentemente metafisico), contribuisce a regolare in senso proporzionale l’estensione in termini quantitativi e di validità epistemico-empirica delle conoscenze di carattere matematico e geometrico che poi si riflettono al livello delle conoscenze sulla natura (per Kant matematica e geometria sono scienze matematiche sintetiche a-priori che conferiscono a una conoscenza il suo carattere di scientificità in virtù della loro serrata logica di carattere in Kant, e soltanto in Kant, trascendentale più che formale). Tutto ciò che si conosce è il fenomeno per Kant, le sue proprietà, le sue caratteristiche, le sue apparizioni e parvenze puramente esterne. Nulla può essere dedotto a livello interno, a livello ontologico, a livello noumenico. Il noumeno è il concetto-limite della costituzione onto-logica delle cose cui la conoscenza non può arrivare, ma in base a cui  è però opportuno che si regoli (come già fa spontaneamente con le forme dello spazio e del tempo) per la determinazione delle leggi della natura sulla base dei giudizi sintetici a-priori che valgono come invariabili logici inespugnabili per l’acquisizione delle conoscenze in cui si implementa anche il resoconto dell’esperienza empirica, fornita dalla scienza e dalle sue sperimentazioni. Il limite visto da Kant in modo bifronte per la costituzione e la regolazione delle conoscenze conferma infine l’imprescindibilità della rimarcazione dell’importanza fondamentale dell’evidenziazione del limite conoscitivo poiché, solo dopo essersene resi conto, si può provare a potenziare la riflessione sul perché della sussistenza di tali limiti e sul modo eventuale in cui poterli superare per poter finalmente comprendere la ragione del mistero aleggiante sulla relazione fra il mondo e la realtà. A tal proposito, mai come in tempi moderni la congiunzione salda di filosofia e scienza può tornare tanto utile ai fini di salvaguardare la validità delle capacità conoscitive dell’uomo, perché, se da un lato la scienza è in grado di raggiungere risultati concernenti in modo specifico la realtà più profonda, a livello microscopico, della materia, della natura, non spiegandosi però perché, se la natura microscopicamente mostra certe caratteristiche, macroscopicamente queste stesse sembrano svanire e non essere per nulla presenti, dall’altro è compito della filosofia, dell’esercizio critico della ragione sui fondamenti, gli assunti e le implicazioni fondamentali della scienza sulla realtà e sul modo in cui approcciarsi alla sua comprensione, descrizione e spiegazione, stabilire i limiti, le linee di confine fra un aspetto e l’altro della realtà, fra un settore di competenza e l’altro delle metodologie d’indagine applicate, non occupandosi principalmente unicamente del problema (come spesso fa la scienza), ma mirando direttamente alla risoluzione del problema stesso. Risoluzione che in filosofia non può che passare se non per un’ulteriore problematizzazione approfonditiva del problema consistente nell’interrogarsi non tanto sulle proprietà stechiometriche, quanto sulle proprietà essenziali stesse delle entità prese in oggetto. Se con la classica fisica newtoniana si era teorizzato che lo spazio fosse vuoto, omogeneo assoluto e reversibile–isotropo (come il tempo) e con Einstein si era capito che il tempo stesso è un’illusione data dall’ordine di successione temporale del divenire universale che a livello locale dà la falsa impressione di una possibile tripartizione del tempo (in base alla capacità di memorizzare il presente già trascorso come passato e di individuare un futuro distinguendo il presente istantaneo che si sta vivendo da un presente futuro che deve ancora avvenire), con la meccanica quantistica si è infine capito che la natura stessa, a livello microscopico e non pienamente accessibile per l’uomo, è discontinua perché lo spazio e il tempo stessi sono discontinui, non sono misurabili per mezzo di intervalli regolari e omogenei o di parametri completamente gestibili, in quanto, come stabilito da Heisenberg, quando si misura e si osserva a livello quantistico immediatamente e implicitamente si interferisce con lo stato di una data particella, per cui non è possibile misurare con precisione la posizione e la quantità di moto di una particella (né si può individuare con precisione la collocazione di un elettrone dato il dualismo onda/corpuscolo caratterizzante l’atomo) e vi saranno sempre, come descritto anche dal principio di complementarietà di Bohr, delle forti discordanze fra le misurazioni a livello macroscopico-atomico e quelle a livello microscopico-subatomico. La conoscenza è quindi indeterminata. Se neanche lo spazio e il tempo sono più assolutamente certi, definiti e dati, in quanto gli intervalli spaziali e temporali descritti dalle particelle sono del tutto irregolari e disomogenei, allora in che modo diviene possibile fondare la conoscenza dell’essere umano? In che modo gli stessi spazio e tempo che si vivono a livello macroscopico, nella vita di tutti i giorni, e che però sono determinati (anche se in modo ancora da spiegare) a livello microscopico da uno spazio e da un tempo che non sono per nulla isomorfici a quelli sperimentati empiricamente, possono sia determinare le conoscenze che conferire il suo statuto di autenticità e verità alla realtà che appare all’uomo sempre più un’illusione, un sogno, la riproduzione non-mimetica e distorta delle reali dinamiche quantistiche della natura che disvela una dimensione della realtà (da cui dipende la stessa realtà vissuta) quasi slegata dal reale quotidiano? Sono questi gli interrogativi fondamentali cui porta una concezione non più solo positiva o solo negativa del concetto di limite, che invece va visto nel suo senso prettamente filosofico poiché è solo a partire dalla consapevolezza della presenza di un limite che l’uomo può avventurarsi in una ricerca e in un processo di comprensione ancora più potente ed efficace per cui egli stesso sarà portato a scoprire i mezzi per superare questo stesso limite, quindi a superarlo, di modo che il limite diviene il necessario propellente dell’ingegno umano che lo stimola ed esorta a perfezionarsi ulteriormente senza alcuna sosta. Non si può sapere se un giorno quest’opera di stimolazione incessante porterà mai l’uomo all’acquisizione della verità ultima e definitiva del tutto, ma sta di fatto che senza il limite non si avrebbe la filosofia, poiché la filosofia è coscienza di se stessi, di ciò che si è, si pensa e si può conoscere, e quindi del reale verso cui non smette mai di interrogarsi criticamente divenendo pertanto assimilabile all’immagine platonica del fuoco ardente dentro l’anima di ogni uomo che è l’ardere, la passione che mai smetterà di bruciare della filosofia stessa. Anche per questo una macchina non potrà mai riprodurre le capacità cerebrali di un uomo: l’uomo può escogitare un metodo per superare il limite, una macchina, preprogrammata, anche se isomorfica all’uomo non potrà mai farlo (si pensi al teorema del no-cloning quantistico, se veramente risultasse che il cervello umano si comporta quantisticamente). La gravità quantistica tenta di conciliare la fisica dei quanti (microscopia) con la relatività generale (macroscopia) per mezzo del formalismo di un vasto e complesso apparato matematico. La matematica è forse il solo linguaggio in cui poter cercare di esprimere l’inesprimibile o ciò che non può essere misurato sincronicamente con certezza con l’ausilio di espedienti logici di calcolo che permettono di determinare diacronicamente, anche senza bisogno di osservare, le proprietà fisiche di certi fenomeni  imperscrutabili della realtà (della cui esistenza però, naturalmente, si è certi dal momento che si tratta degli aspetti sfuggenti del reale che l’uomo sa essere presenti poiché scompaiono non appena egli vi si accosti). La matematica sola può, dunque, tentare l’impresa di catturare l’inafferrabile rendendo quanto più deterministico possibile il mondo probabilistico della meccanica quantistica da cui sembra dipendere l’universo come universo essenzialmente quantistico poiché originantesi ovviamente microscopicamente. Ma Godel già dimostrò, con la sua aritmetizzazione della metamatematica, che neanche la matematica può rappresentare un sistema formale completo e coerente poiché si può sempre costruire una proposizione non derivabile all’interno del suo formalismo che, se fosse accettata all’interno del sistema, allora farebbe cadere il sistema stesso in contraddizione, dato che non si possono ammettere all’interno dello stesso sistema due formule fra di loro contraddittorie, pena l’incoerenza del sistema stesso. La matematica stessa, quindi, così come la conoscenza umana, non può poggiare su solidi fondamenti completamente inattaccabili poiché il germe erosivo del limite è sempre in agguato e pronto a colpire non appena si presenta ineluttabilmente l’occasione. Ma è proprio il limite a far sì che si possano gettare le fondamenta stesse della conoscenza, perché un potenziamento delle capacità conoscitive (così come degli strumenti logico-matematici) è sempre possibile e soltanto la filosofia, come scienza prima da cui derivano tutte le altre scienze secondo Aristotele, sia per i limiti di transizione sia per quando si dovesse mai arrivare al limite ultimo del conoscibile, per la sua capacità di auto-riflessione critica (si pensi al tribunale della ragione di memoria kantiana) e meta-critica (la filosofia è tutto ciò che è meta, al di là, come la metafisica) può comprendere e infine superare hegelianamente (ossia tenendo il limite come momento antitetico positivo della logica triadica della fenomenologia della realtà) il limite, senza cui la possibilità tetica stessa della filosofia non avverrebbe, così come l’Aufhebung sintetico definitivo.                                                                                                               




Aggiunto il 09/11/2015 17:03 da Giovanni Mazzallo

Argomento: Filosofia teoretica

Autore: Giovanni Mazzallo



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