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Il "Tempo" nelle Confessioni di S.Agostino

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                                                                       Il “Tempo” nelle Confessioni di S. Agostino

di Michele Strazza

 

Nelle Confessioni di S. Agostino, opera scritta alla fine del IV secolo, in cui l’autore descrive le tappe della sua conversione e la sua ricerca della Grazia divina, particolare spazio è riservato al problema del tempo. Di esso Agostino si occupa nell’undicesimo libro dei tredici di cui è composta l’intera opera e lo fa all’interno del discorso sulla creazione.

Egli parte dalla insidiosa domanda, formulata dai filosofi pagani, in primis manichei e neoplatonici, su cosa facesse Dio ‘prima’ di creare il cielo e la terra?

Dio – afferma Agostinoha creato il mondo non da una materia qualsiasi, ma dal nulla. Dal racconto della Genesi, infatti, si evince che egli creò anche la sostanza, non soltanto l'ordine e la disposizione delle cose. Nel momento stesso in cui Dio ha iniziato la creazione si è formato anche il tempo, egli è dunque l'iniziatore di ogni tempo. Così scrive Agostino:


Se qualche spirito leggero, vagolando fra le immagini del passato, si stupisce che tu, Dio che tutto puoi e tutto crei e tutto tieni, autore del cielo e della terra, ti sia astenuto da tanto operare, prima di una tale creazione, per innumerevoli secoli, si desti e osservi che il suo stupore è infondato. Come potevano passare innumerevoli secoli, se non li avessi creati tu, autore e iniziatore di tutti i secoli? Come sarebbe esistito un tempo non iniziato da te? e come sarebbe trascorso, se non fosse mai esistito? Tu dunque sei l'iniziatore di ogni tempo, e se ci fu un tempo prima che tu creassi il cielo e la terra non si può dire che ti astenevi dall'operare. Anche quel tempo era opera tua, e non poterono trascorrere tempi prima che tu avessi creato un tempo. Se poi prima del cielo e della terra non esisteva tempo, perché chiedere cosa facevi allora? Non esisteva un allora dove non esisteva un tempo[1].

In queste riflessioni, originate dal commento ai primi versetti della Genesi, Agostino opera quasi una “cucitura” tra la prima parte dell’opera, dedicata al racconto del vissuto dell’autore, e questa incentrata sulla creazione del mondo. Crea, cioè, un collegamento tra storia personale e storia del mondo. Dio – dice Agostino - è eterno, nel senso che è senza tempo. Per lui non esisteva un prima e un dopo, ma solo un eterno presente:

Ma non è nel tempo che tu precedi i tempi. Altrimenti non li precederesti tutti. E tu precedi tutti i tempi passati dalla vetta della tua eternità sempre presente; superi tutti i futuri, perché ora sono futuri, e dopo giunti saranno passati. Tu invece sei sempre il medesimo, e i tuoi anni non finiscono mai. I tuoi anni non vanno né vengono; invece questi, i nostri, vanno e vengono, affinché tutti possano venire. I tuoi anni sono tutti insieme, perché sono stabili; non se ne vanno, eliminati dai venienti, perché non passano. Invece questi, i nostri, saranno tutti quando tutti non saranno più. I tuoi anni sono un giorno solo, e il tuo giorno non è ogni giorno, ma oggi, perché il tuo oggi non cede al domani, come non è successo all'ieri. Il tuo oggi è l'eternità. Perciò generasti coeterno con te Colui, cui dicesti: "Oggi ti generai". Tu creasti tutti i tempi, e prima di tutti i tempi tu sei, e senza alcun tempo non vi era tempo. Non ci fu dunque un tempo, durante il quale avresti fatto nulla, poiché il tempo stesso l'hai fatto tu; e non vi è un tempo eterno con te, poiché tu sei stabile, mentre un tempo che fosse stabile non sarebbe tempo[2].

Riflessioni simili saranno, poi, espresse nel De civitate Dei dove Agostino sosterrà che non si può parlare di creazione «nel tempo», perché non può esserci tempo prima che esista la creatura mutabile, ma si deve parlare di creazione col «tempo»[3].

Sempre nel De civitate Dei, di fronte ai filosofi pagani che affermavano l'immutabilità divina, la quale, senza mutare, non può aver prima non creato e poi creato, Agostino controbatterà che «Dio sa agire nel riposo e riposare nell'azione. Ad opera nuova può applicare un piano non nuovo ma eterno». Parlare di un «prima» e di un «dopo» non ha senso per Dio che, avendo «una sola, immutabile, eterna volontà» fece in modo «che le cose create non fossero prima quando non erano e fossero dopo quando cominciarono ad esistere»[4].

Ritornando alle Confessioni, il vescovo di Ippona, partendo dall’eternità di Dio, dal suo essere sciolto da ogni concetto di tempo, in quanto suo creatore e iniziatore, elabora la sua affascinante teoria del tempo. Egli innanzitutto si chiede che cosa sia il tempo e fornisce una risposta singolare. Egli dice: «Se nessuno me lo chiede, lo so; se cerco di spiegarlo a chi me lo chiede, non lo so». L’unica cosa che per lui sembra essere acquisita è la presenza di un passato e di un futuro. Infatti «senza nulla che passi, non esisterebbe un tempo passato; senza nulla che venga, non esisterebbe un tempo futuro; senza nulla che esista, non esisterebbe un tempo presente»[5].

Ma subito dopo egli stesso mette in dubbio tale affermazione, perché come farebbero ad esistere il passato e il futuro «dal momento che il primo non è più, il secondo non è ancora? ». E anche lo stesso presente – egli dice -  se fosse sempre presente, senza tradursi in passato, non sarebbe più tempo, ma eternità: «Se dunque il presente, per essere tempo, deve tradursi in passato, come possiamo dire anche di esso che esiste, se la ragione per cui esiste è che non esisterà? Quindi non possiamo parlare con verità di esistenza del tempo, se non in quanto tende a non esistere»[6].

Di qui le perplessità di Agostino. Il passato e il presente, in definitiva, non esisterebbero. Il primo, infatti, non è più esistente, mentre il secondo non esiste ancora. Ma anche il presente, in fondo, è solo un momento che si traduce in passato e, in quanto tale, esso non esiste. Però, dice Agostino:

parliamo di tempi lunghi e tempi brevi riferendosi soltanto al passato o al futuro. Un tempo passato si chiama lungo se è, ad esempio, di cento anni prima; e così uno futuro è lungo se è di cento anni dopo; breve poi è il passato quando è, supponi, di dieci giorni prima, e breve il futuro di dieci giorni dopo. Ma come può essere lungo o breve ciò che non è? Il passato non è più, il futuro non è ancora. Dunque non dovremmo dire di un tempo che è lungo, ma dovremmo dire del passato che fu lungo, del futuro che sarà lungo. Signore mio, luce mia, la tua verità non deriderà l'uomo anche qui? Perché, questo tempo passato, che fu lungo, lo fu quando era già passato, o quando era ancora presente? Poteva essere lungo solo nel momento in cui era una cosa che potesse essere lunga. Una volta passato, non era più, e dunque non poteva nemmeno essere lungo, perché non era affatto. Quindi non dovremmo dire del tempo passato che fu lungo: poiché non troveremo nulla, che sia stato lungo, dal momento che non è, in quanto è passato. Diciamo invece che fu lungo quel tempo presente, perché mentre era presente, era lungo. Allora non era già passato, così da non essere; era una cosa, che poteva essere lunga. Appena passato, invece, cessò all'istante di essere lungo, poiché cessò di essere[7].

E, dopo le considerazioni sulla misurazione del tempo passato e di quello futuro, il vescovo di Ippona parla della durata del tempo presente, giungendo alle stesse conclusioni esposte per i due tempi precedenti:

Consideriamo dunque, anima umana, essendoti dato di percepire e misurare le more del tempo, se il tempo presente può essere lungo. Che mi risponderai? Cento anni presenti sono un tempo lungo? Considera prima se possano essere presenti cento anni. Se è in corso il primo di questi cento anni, esso è presente, ma gli altri novantanove sono futuri, quindi non sono ancora. Se invece è in corso il secondo anno, il primo è ormai passato, il secondo presente, tutti gli altri futuri. Così per qualsiasi anno intermedio nel numero dei cento, che si supponga presente: gli anteriori saranno passati, i posteriori futuri. Perciò cento anni non potranno essere tutti presenti. Considera ora se almeno quell'unico che è in corso sia presente. Se è in corso il primo dei suoi mesi, tutti gli altri sono futuri; se il secondo, il primo è ormai passato, gli altri non sono ancora. Dunque neppure l'anno in corso è presente tutto, e se non è presente tutto, un anno non è presente, perché un anno si compone di dodici mesi, e ciascuno di essi, qualunque sia, è presente quando è in corso, mentre tutti gli altri sono passati o futuri. Ma poi, neppure il mese in corso è presente: è presente un giorno solo, e se il primo, tutti gli altri sono futuri; se l'ultimo, tutti gli altri sono passati; se uno qualunque degli intermedi, sta fra giorni passati e futuri[8].

Il presente, allora, si ridurrebbe ad un solo giorno. Ma anche un solo giorno non potrebbe chiamarsi presente:

Ecco cos'è il tempo presente, l'unico che trovavamo possibile chiamare lungo: ridotto stentatamente alla durata di un giorno solo. Ma scrutiamo per bene anche questo giorno, perché neppure un giorno solo è presente tutto. Le ore della notte e del giorno assommano complessivamente a ventiquattro. Per la prima di esse tutte le altre sono future, per l'ultima passate, per qualunque delle intermedie passate le precedenti, future le seguenti. Ma quest'unica ora si svolge essa stessa attraverso fugaci particelle: quanto ne volò via, è passato; quanto le resta, futuro. Solo se si concepisce un periodo di tempo che non sia più possibile suddividere in parti anche minutissime di momenti, lo si può dire presente. Ma esso trapassa così furtivamente dal futuro al passato, che non ha una pur minima durata. Qualunque durata avesse, diventerebbe divisibile in passato e futuro; ma il presente non ha nessuna estensione. Dove trovare allora un tempo che possiamo definire lungo? Il futuro? Non diciamo certamente che è lungo, poiché non è ancora, per poter essere lungo; bensì diciamo che sarà lungo. Quando lo sarà? Se anche allora sarà ancora futuro, non sarà lungo, non essendovi ancora nulla, che possa essere lungo; se sarà lungo allora, quando da futuro ancora inesistente sarà già cominciato ad essere e sarà diventato presente, così da poter essere qualcosa di lungo, con le parole or ora riferite il tempo presente grida di non poter essere lungo[9].

Eppure, dice Agostino, «noi percepiamo gli intervalli del tempo, li confrontiamo tra loro, definiamo questi più lunghi, quelli più brevi, misuriamo addirittura quanto l'uno è più lungo o più breve di un altro». Ma – egli precisa - si fa tale misurazione durante il passaggio del tempo. Essa è, dunque, legata a una nostra percezione: «I tempi passati invece, ormai inesistenti, o i futuri, non ancora esistenti, chi può misurarli? Forse chi osasse dire di poter misurare l'inesistente. Insomma, il tempo può essere percepito e misurato al suo passare; passato, non può, perché non è»[10].

Ma, seppur lentamente, ecco che Agostino comincia a intravvedere una via d’uscita a questi dubbi amletici. Dopo aver ribadito che la sua è una ricerca, non un affermazione, così continua il suo ragionamento:

Chi vorrà dirmi che non sono tre i tempi, come abbiamo imparato da bambini e insegnato ai bambini, ossia il passato, il presente e il futuro, ma che vi è solo il presente, poiché gli altri due non sono? O forse anche gli altri due sono, però il presente esce da un luogo occulto, allorché da futuro diviene presente, così come si ritrae in un luogo occulto, allorché da presente diviene passato? In verità, chi predisse il futuro, dove lo vide, se il futuro non è ancora? Non si può vedere ciò che non è. Così chi narra il passato, non narrerebbe certamente il vero, se non lo vedesse con l'immaginazione. Ma se il passato non fosse affatto, non potrebbe in nessun modo essere visto. Bisogna concludere che tanto il futuro quanto il passato sono[11].

La conclusione è, dunque, che sia il passato che il futuro hanno una loro esistenza. Ma la ricerca continua:

Se il futuro e passato sono, desidero sapere dove sono. Se ancora non riesco, so tuttavia che, ovunque siano, là non sono né futuro né passato, ma presente. Futuro anche là, il futuro là non esisterebbe ancora; passato anche là, il passato là non esisterebbe più. Quindi ovunque sono, comunque sono, non sono se non presenti. Nel narrare fatti veri del passato, non si estrae già dalla memoria la realtà dei fatti, che sono passati, ma le parole generate dalle loro immagini, quasi orme da essi impresse nel nostro animo mediante i sensi al loro passaggio. Così la mia infanzia, che non è più, è in un tempo passato, che non è più; ma quando la rievoco e ne parlo, vedo la sua immagine nel tempo presente, poiché sussiste ancora nella mia memoria. Se sia analogo anche il caso dei fatti futuri che vengono predetti, se cioè si presentano come già esistenti le immagini di cose ancora inesistenti, confesso, Dio mio, di non saperlo. So però questo, che sovente premeditiamo i nostri atti futuri, e che tale meditazione è presente, mentre non lo è ancora l'atto premeditato, poiché futuro. Solo quando l'avremo intrapreso, quando avremo incominciato ad attuare il premeditato, allora esisterà l'atto, poiché allora non sarà futuro, ma presente[12].

Ecco la soluzione che propone Agostino: il passato ed il futuro possono essere pensati solo come presente, il passato come «memoria», il futuro come «attesa», e la memoria e l'attesa sono entrambe fatti presenti. Ed il presente è la «visione»:

Un fatto è ora limpido e chiaro: né futuro né passato esistono. È inesatto dire che i tempi sono tre: passato, presente e futuro. Forse sarebbe esatto dire che i tempi sono tre: presente del passato, presente del presente, presente del futuro. Queste tre specie di tempi esistono in qualche modo nell'animo e non le vedo altrove: il presente del passato è la memoria, il presente del presente la visione, il presente del futuro l'attesa. Mi si permettano queste espressioni, e allora vedo e ammetto tre tempi, e tre tempi ci sono. Si dica ancora che i tempi sono tre: passato, presente e futuro, secondo l'espressione abusiva entrata nell'uso; si dica pure così: vedete, non vi bado, non contrasto né biasimo nessuno, purché si comprenda ciò che si dice: che il futuro ora non è, né il passato. Di rado noi ci esprimiamo esattamente; per lo più ci esprimiamo inesattamente, ma si riconosce cosa vogliamo dire[13].

Ma Agostino non è ancora soddisfatto delle sue conclusioni e prega Dio di illuminarlo perché egli confessa di ignorare ancora che cosa sia il tempo, di ignorare, addirittura, che cosa ignora. Così, dopo aver espresso l’ulteriore dilemma della misurazione del tempo e delle sue difficoltà insanabili, ecco che Agostino giunge alla spiegazione finale, cioè che il tempo si misura nello spirito umano:

È in te, spirito mio, che misuro il tempo. Non strepitare contro di me: è così; non strepitare contro di te per colpa delle tue impressioni, che ti turbano. È in te, lo ripeto, che misuro il tempo. L'impressione che le cose producono in te al loro passaggio e che perdura dopo il loro passaggio, è quanto io misuro, presente, e non già le cose che passano, per produrla; è quanto misuro, allorché misuro il tempo. E questo è dunque il tempo, o non è il tempo che misuro. Ma quando misuriamo i silenzi e diciamo che tale silenzio durò tanto tempo, quanto durò tale voce, non concentriamo il pensiero a misurare la voce, come se risuonasse affinché noi possiamo riferire qualcosa sugli intervalli di silenzio in termine di estensione temporale? Anche senza impiego della voce e delle labbra noi percorriamo col pensiero poemi e versi e discorsi, riferiamo tutte le dimensioni del loro sviluppo e le proporzioni tra i vari spazi di tempo, esattamente come se li recitassimo parlando. Chi, volendo emettere un suono piuttosto esteso, ne ha prima determinato l'estensione col pensiero, ha certamente riprodotto in silenzio questo spazio di tempo, e affidandolo alla memoria comincia a emettere il suono, che si produce finché sia condotto al termine prestabilito: o meglio, si produsse e si produrrà, poiché la parte già compiuta evidentemente si è prodotta, quella che rimane si produrrà. Così si compie. La tensione presente fa passare il futuro in passato, il passato cresce con la diminuzione del futuro, finché con la consumazione del futuro tutto non è che passato[14].

l tempo, dunque, per Agostino, è una dimensione dell’anima, è la coscienza stessa che si dilata sino ad abbracciare col presente anche il passato e l’avvenire. Il tempo è, perciò, una dimensione del soggetto, è lo spirito umano che raccoglie in unità la pluralità delle esperienze esterne disperse.

La soluzione del dilemma che l’ha afflitto sta, dunque, nell’abbandono di una logica solo naturalistica. Il tempo non è una cosa, né una proprietà delle cose, ma una relazione; una relazione fra le cose che passano e l’interiorità spirituale della creatura umana, che le sottrae all’oblio, serbandole nella memoria, ricordandole e riconoscendole come parte della propria storia.

Il tempo è, quindi, visto da Agostino in una dimensione soggettiva. Non a caso egli è considerato dalla maggior parte della critica come padre dell'ermeneutica del tempo in chiave soggettiva[15].

Il tempo risiede, dunque, nella mente umana perché è proprio questa che attende, considera e ricorda. Del resto, nel libro precedente, il decimo, egli aveva trattato proprio della memoria. Così Agostino:

Ma come diminuirebbe e si consumerebbe il futuro, che ancora non è, e come crescerebbe il passato, che non è più, se non per l'esistenza nello spirito, autore di questa operazione, dei tre momenti dell'attesa, dell'attenzione e della memoria? Così l'oggetto dell'attesa fatto oggetto dell'attenzione passa nella memoria. Chi nega che il futuro non esiste ancora? Tuttavia esiste già nello spirito l'attesa del futuro. E chi nega che il passato non esiste più? Tuttavia esiste ancora nello spirito la memoria del passato. E chi nega che il tempo presente manca di estensione, essendo un punto che passa? Tuttavia perdura l'attenzione, davanti alla quale corre verso la sua scomparsa ciò che vi appare. Dunque il futuro, inesistente, non è lungo, ma un lungo futuro è l'attesa lunga di un futuro; così non è lungo il passato, inesistente, ma un lungo passato è la memoria lunga di un passato[16].

La conclusione finale cui giunge Agostino è allora che non vi può essere tempo senza un essere creato e che, perciò, parlare di tempo prima della creazione è assurdo. Il tempo, dunque, non va cercato all’esterno, ma nell’animo umano e in esso si misura. Esso è situato dentro una dialettica  personale tra intentio e distentio. Dice, infatti, Agostino: «Dimentico delle cose passate, né verso le future, che passeranno, ma verso quelle che stanno innanzi non disteso, ma proteso, non con distensione, ma con tensione inseguo la palma della chiamata celeste»[17].

L’intentio esprimerebbe, allora, la tensione dello spirito umano verso il trascendente, mentre la distentio, al contrario, sarebbe una sorta di “dilatazione” dello spirito all’interno di sé. E proprio da tale dilatazione nascerebbe il senso della profondità temporale. La distentio rappresenterebbe, quindi, l’unica maniera con cui l’uomo concepisce e vive il tempo, cioè come “dilatazione spirituale” (distentio animi) in avanti.

Il tempo diventa, allora, per Agostino «la dimensione del mondo creato e la sua realtà è la realtà della creatura». L’uomo si presenta, quindi, «come un secondo creatore, perché grazie alla sua capacità di riunire passato, presente e futuro, vive la sua dimensione temporale da protagonista per mezzo dell’anima che gli è stata partecipata da Dio»[18].

Non è mancato chi, come Guido Mancini, abbia voluto vedere nel concetto agostiniano del tempo, seppur con le dovute distinzioni, una influenza di Plotino che, nelle Enneadi, definiva il tempo come ζωη ψυκης (vita dell'anima), nel movimento per cui essa passa da un atto all'altro[19]. Di contro, però, è stato osservato che la concezione di Plotino è tutt’altro che soggettiva. Per lui, ad esempio, la memoria è l'orizzonte tra il tempo della storia e il tempo dell'eternità[20].

Diverso, invece, il percorso di Agostino, la cui indagine non ha finalità puramente intellettuali, implicando innanzitutto quelle religiose. La scoperta che passato, presente e futuro non sono realtà oggettive ma coesistono solo nell’anima pone il problema di come il cristiano debba rapportarsi al tempo: «La capacità di accumulare un’infinita varietà di esperienze implica per l’anima il rischio di attaccarsi ad esse, disperdendosi nella molteplicità». Di contro, l’uomo, anche se immerso nella successione delle esperienze temporali, deve tendere a superare «la dissipazione che consegue all’amore delle realtà temporali, e perciò effimere, e congiungersi col vero Bene, che non passa ma permane eternamente»[21]. Così Agostino:

Ma poiché la tua misericordia è superiore a tutte le vite, ecco che la mia vita non è che distrazione, mentre la tua destra mi raccolse nel mio Signore, il figlio dell'uomo, mediatore fra te, uno, e noi, molti, in molte cose e con molte forme, affinché per mezzo suo io raggiunga Chi mi ha raggiunto e mi ricomponga dopo i giorni antichi seguendo l'Uno.[…] Allora udrò la voce della tua lode e contemplerò le tue delizie, che non vengono né passano. Ora i miei anni trascorrono fra gemiti, e il mio conforto sei tu, Signore, padre mio eterno. Io mi sono schiantato sui tempi, di cui ignoro l'ordine, e i miei pensieri, queste intime viscere della mia anima, sono dilaniati da molteplicità tumultuose. Fino al giorno in cui, purificato e liquefatto dal fuoco del tuo amore, confluirò in te[22].

Per il vescovo di Ippona l’anima è, perciò, chiamata a trascendere la dimensione temporale dell’esistenza, «tanto che quella sua proprietà che è la distentio, la capacità di abbracciare passato, presente e futuro, acquista ora una portata negativa e diventa, in una prospettiva non analitica ma valutativa, dispersione che impedisce l’unione con Dio». All’uomo, dunque, proprio in quanto immerso nel tempo, si presenterebbe questa scelta: chiudersi in esso o trascenderlo, aprendosi all’Eterno: «Il tempo è perciò il luogo della perdizione, ma anche della salvezza, perché in esso l’uomo decide se attaccarsi ai beni di questo mondo o servirsene per elevarsi a Dio»[23].

 

 

 

 

 

 

 

 


[1] S. Agostino, Le Confessioni, XI, 13, 15.

[2] Ivi, XI, 13, 16; 14, 17.

[3] S. Agostino, De civitate Dei, 11, 6.

[4] Ivi, 12, 16, 2.

[5] S. Agostino, Le Confessioni, XI, 14, 17.

[6] Ibidem.

[7] Ivi, XI, 15, 18.

[8] Ivi, XI, 15, 19.

[9] Ivi, XI, 15, 20.

[10] Ivi, XI, 16, 21.

[11] Ivi, XI, 17, 22.

[12] Ivi, XI, 18, 23.

[13] Ivi, XI, 20, 26.

[14] Ivi, XI, 27, 36.

[15] In tal senso si vedano, tra gli altri, Berlinger R., Il tempo e l'uomo,  in “Année théologique Augustinienne”, 1953, pp. 260-279, nonché Moreau J., Le temps et la création selon Saint Augustin, in “Giornale di Metafisica”, 1965, pp. 276-290. Contro la tesi di un soggettivismo assoluto si veda, invece, Alici L., La funzione della Distensio nella dottrina agostiniana del tempo, in “Augustinianum”, 15, 1975, pp. 325-345. Per un quadro d’insieme cfr. Taranto S., L'Orizzonte dell'Assoluto: il tempo della libertà, Botosani, Axa Ed., 2000, pp. 113-117.

[16] S. Agostino, Le Confessioni,  XI, 28, 37.

[17] Ivi, XI, 29, 39.

[18] Santochirico G., Il caso tra scienza e filosofia, Roma, Armando ed., 2003, p. 129.

[19] Cfr. Mancini G., La psicologia di S. Agostino e i suoi elementi neoplatonici, Napoli, Casa ed. Rondinella, 1938.

[20] A tale proposito si veda Guidelli C., Note sul tema della memoria nelle Enneadi di Plotino, in “Elenchos”, 9, 1988, pp. 75-94.

[21] Rindone E., Il problema del tempo e della storia nella filosofia medioevale, in “Il Giardino dei Pensieri. Studi di storia della Filosofia”, novembre 2003.

[22] S. Agostino, Le Confessioni, XI, 29, 39.

[23] Rindone E., op. cit.




Aggiunto il 24/11/2015 11:45 da Michele Strazza

Argomento: Filosofia antica

Autore: Michele Strazza



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