La vicenda di Giordano Bruno, oltre che essere stata di una singolare complessità speculativa e di una straordinaria intensità umana, rivela l’indiscutibile pregio di un’estrema attualità e merita perciò di venir profondamente ripensata, come dimostrano anche le ricorrenti pubblicazioni dedicate alla vita e all’opera del grande Nolano.
Nella prossima ricorrenza del suo martirio sul rogo (17 febbraio 1600), mi piace ricordarlo attraverso le tre seguenti note.
1 – Un uomo indomito, con la sola paura di non essere capito
«Certamente voi proferite questa sentenza contro di me con più timore di quello che io provo nell’accoglierla»¹ : con queste fiere parole Bruno, secondo l’attendibile testimonianza oculare di Kaspar Schoppe, umanista e grammatico tedesco, si rivolge ai giudici dell’Inquisizione romana, dopo averne ascoltato in silenzio il verdetto che lo condannava.
Questa celebre frase, pronunciata in un momento così cruciale e tragico della sua vita, riesce ad esprimere emblematicamente tutto il suo valore umano e filosofico.
Dunque, non tanto di morire aveva paura Giordano Bruno, che, tra l’altro, scrive: «Ch’io cadrò morto a terra, ben m’accorgo, ma quale vita pareggia al morir mio?»², la sua, semmai, era una continua e strenua lotta contro la paura e i sensi di colpa inculcati nell’animo degli uomini da quella ideologia totalitaristica e intollerante della dottrina cattolica che, in nome di un distorto messaggio cristiano, torturava e mandava a morte tanti eretici e streghe.
Allora, contro uno spirito evangelico così travisato e sostanzialmente tradito, aspra e decisa si alza la sua invettiva: «Veda se mentre si dicono ministri d’un che risuscita morti e sana infermi, essi son quei che peggio di tutti gli altri che pasce la terra stroppiano gli sani et uccidono gli vivi… »³.
Ma, con tutta probabilità, ciò che Bruno, nella profondità del suo animo, sentiva era piuttosto il comprensibile smarrimento che si originava da quegli infiniti orizzonti che le sue smisurate intuizioni speculative gli schiudevano; allora, la sola paura che poteva provare era quella di non venir compreso dai suoi contemporanei, essendo pienamente e orgogliosamente consapevole delle difficoltà di confrontare le proprie grandi e profonde intuizioni con le ristrettezze mentali e le miserie morali degli uomini del suo tempo.
E poi, l’entusiasmo, la passione, l’eroico furore insomma, con cui Bruno si impegnava nella ricerca della verità, non erano certo volontà di predominio o di sopraffazione sugli altri: «Come io certissimamente non fingo, e se erro non credo veramente errare, e parlando e scrivendo non disputo per amor de la vittoria per se stessa (perché ogni riputazione e vittoria stimo nemica a Dio, vilissima e senza punto di onore, dove non è la verità); ma per amor della vera sapienza e studio della vera contemplazione, m’affatico, mi crucio, mi tormento»⁴.
Un tormento che certamente veniva portato all’estremo anche dai tempi di illibertà e di inaudita violenza in cui gli capitava di vivere; un tormento tanto più forte quanto più innovativa e rivoluzionaria era la verità di cui si faceva portavoce e testimone radicale, fino all’ultimo nelle carceri dell’Inquisizione per concludersi nella terribile agonia del rogo in Campo de’ Fiori a Roma.
Di Giordano Bruno, Karl Jaspers ha scritto: «Grande martire della filosofia moderna, più eroico di ogni martire cristiano, per il fatto che egli non poteva contare che su se stesso in forza della sua fede filosofica, non possedendo la certezza della rivelazione né la comunità della Chiesa, ma stando solo di fronte a Dio».⁵
2 – Un pensiero orgoglioso che si apre e vive nell’Infinito
Giordano Bruno, attraverso la piena adesione alle idee di Copernico, apre la sua speculazione all’Infinito spingendosi molto più in là della stessa teoria copernicana.
Queste le appassionate e orgogliose parole che mette in bocca a Teofilo (personaggio del dialogo La cena de le Ceneri): «Il Nolano […] ha varcato l’aria, penetrato il cielo, discorse le stelle, trapassati gli margini del mondo, fatte svanir le fantastiche muraglia de le prime, ottave, none, decime ed altre, che vi s’avesser potuto aggiongere, sfere, per relazione de vani matematici e cieco veder di filosofi volgari»⁶.
Dunque, l’impresa dell’argonauta del cielo Bruno ha il merito di aver spinto più in là la stessa rivoluzione copernicana, demolendo quelle anguste barriere celesti e quelle astruse costruzioni mentali prodotte da inutili matematici e da grossolani filosofi.
Poche righe prima aveva, inoltre, paragonato l’impresa nolana a quelle dei grandi protagonisti delle esplorazioni geografiche, quella dell’argonauta Tifi della mitica conquista del vello d’oro e quella di Cristoforo Colombo, scopritore di un nuovo continente.
In queste appassionate pagine de La cena, Giordano Bruno, ispirandosi a toni evangelici, riesce ad esprimere con grande convinzione e intensa dedizione tutto il valore della sua concezione filosofica per il progresso e la civiltà; non potrebbe essere sottolineata in maniera più esplicita, qui, la consapevolezza della sua missione mercuriale, ossia della missione civilizzatrice di un novello messia inviato dal Cielo.
Scrive, infatti, che il Nolano (cioè lui stesso) «ha donati gli occhi a le talpe, illuminati i ciechi che non possean fissar gli ochi e mirar l’imagin sua in tanti specchi che da ogni lato gli s’opponeano»⁷, ossia ha dato la vista a chi, come le talpe, non riusciva ad alzare lo sguardo a quei cieli che nella loro multilateralità possono riflettere, come fossero specchi, e far capire la vera immagine dell’essere umano proiettato sull’infinito universo.
Con la nolana filosofia, scrive ancora Bruno: «Non è più impriggionata la nostra raggione coi ceppi de’ fantastici mobili e motori otto, nove e diece. […] Cossì siamo promossi a scuoprire l’infinito effetto dell’infinita causa, il vero e vivo vestigio de l’infinito vigore; ed abbiamo dottrina di non cercar la divinità rimossa da noi, se l’abbiamo appresso, anzi dentro, più che noi medesmi siamo dentro a noi»⁸.
Vale a dire: come la ragione umana, che ha rimosso le catene dei cieli tolemaici, si apre alla conoscenza dell’infinita causa, cosicché possiamo scoprirne l’infinito effetto e la vera e vivente traccia dell’infinita potenza, così abbiamo l’idea di non cercare il divino lontano da noi, ma dentro di noi stessi.
Merita, quindi, evidenziare qui un’altra profonda ed innovativa intuizione di Bruno, ossia quella che si può ben ricavare da queste sue inequivocabili parole: «Non meno che gli coltori de gli altri mondi non la [divinità, s’intende] denno cercare appresso di noi, l’avendo appresso e dentro di sé. Atteso che non più la luna è cielo a noi, che noi alla luna»⁹.
Ossia, come i ricercatori degli altri mondi non devono cercare la divinità presso di noi, nel nostro mondo, avendola (la divinità) già vicino e dentro loro stessi, e dunque nel loro stesso mondo, dato che la luna è per noi “cielo”, tanto quanto noi siamo “cielo” per la luna.
Con queste parole, infatti, viene affermato, ancor prima di Galilei, quel principio di relatività cosmologica che troverà poi – trecento anni dopo! – la sua più esplicita e scientifica definizione nella teoria della relatività di Einstein.
3 – Una nuova e profonda concezione di Dio
«L’omnipotenza non invidia l’essere»¹⁰.
Un enunciato bruniano estremamente incisivo nella sua essenzialità, e, proprio per questo, non credo si possa trovare forma migliore e perspicua per esprimere il singolare rapporto che lega Dio e mondo o, ancor meglio, Dio e mondi: l’infinita potenza di Dio, nella sua altrettanto infinita generosità, non può non manifestarsi che in un infinito effetto e, dunque, nell’infinità dei mondi.
È nell’intuizione e nell’elaborazione dell’idea bruniana d’Infinito che trova ispirazione e significato la nuova e profonda concezione di Dio, un Dio che, appunto, nella sua generosa e assoluta potenza si manifesta e si compiace nella sua infinita opera.
Scrive, a questo proposito, Andrea Emo: «Per Bruno, come per Leonardo, il mondo era una grande opera d’arte, ma trasporta all’infinito, un’opera d’arte infinita, l’unica possibile per un artista infinito come Dio»¹¹.
Allora, questa infinita prodigalità divina corrisponde perfettamente anche all’idea di una divinità che non deve venir cercata fuori di noi, perché, come sopra evidenziato, tale divinità è in noi “più che noi medesmi siamo dentro di noi”.
Pensare, sentire Dio come fondamento e anima di ogni cosa e, dunque, pensarlo e sentirlo nella profondità della nostra esistenza, non vuol dire incorrere necessariamente nel panteismo.
È questa una preoccupazione che, solitamente, s’ingenera in chi non riesce a pensare a Dio se non in una qualche forma di dualistica esteriorità: un Dio che “sta fuori di noi”, e che, per questo, viene sentito più come un padrone da temere e da supplicare, che come un/una padre/madre da godere e amare; un padrone, infine, più funzionale ad un potere ideologico che ad un’autentica liberazione spirituale.
Bisogna, dunque, pensare di Dio sia quella “divina immanenza” per la quale fa consistere e vivere ogni cosa, sia quella “divina trascendenza” per la quale si assolve dall’essere cosa.
Ed è, ancora, dalla grandiosa idea dell’Infinito bruniano che si può attingere questo profondo ‘doppio pensiero’: «Io dico l’universo “tutto infinito” perché non ha margine, termino, né superficie; dico l’universo non essere “totalmente infinito” perché ciascuna parte che di quello possiamo prendere è finita, e de mondi innumerabili che contiene, ciascuno è finito. Io dico Dio “tutto infinito” perché da sé esclude ogni termine, et ogni suo attributo è uno et infinito; e dico Dio “totalmente infinito” perché tutto lui è in tutto il mondo, et in ciascuna sua parte infinitamente e totalmente»¹².
L’infinità di tutto l’universo (o dell’universo come totalità) consiste nel suo essere senza confine, senza fine e, in questo senso, infinito appunto; ma questa infinità dell’universo come tutto, non implica l’infinità di ogni sua parte: ogni parte o ogni mondo (dei “mondi innumerabili”) di cui la totalità infinita dell’universo è composta, è finita (parte finita) o finito (mondo finito).
Dunque, mentre l’infinità dell’universo è solo nel suo esser senza limiti (tutto infinito) e non anche nelle innumerevoli parti (mondi innumerabili) che contiene, l’infinità di Dio è sia in se stesso, essendo un Uno-Tutto infinito, sia nel suo essere, totalmente e infinitamente (totalmente infinito), in ciascuna parte, cosa o mondo, dello stesso infinito universo.
«Che il mondo sia finito apparve ovvio nell’antichità (ad eccezione di alcuni importanti pensatori) e nella concezione cristiana. La sua infinità, invece, pensata dal Cusano come immagine della vera infinità di Dio, divenne per Bruno l’infinito per sé stante e segno della divinità della stessa totalità del mondo».¹³
Note
1 . M. Ciliberto, Giordano Bruno – Il teatro della vita, A. Mondadori, Milano 2007, p. 528
2 . G. Bruno, De gli eroici furori, in Id., Dialoghi filosofici italiani, a cura di M. Ciliberto,
A. Mondadori, Milano 2000, p. 815
3 . G. Bruno, Spaccio de la bestia trionfante, in Id., Dialoghi, cit., p. 545
4 . G. Bruno, De l’infinito, universo e mondi, in Id., Dialoghi, cit., p. 302
5 . K. Jaspers, La fede filosofica di fronte alla rivelazione, tr. it. F. Costa, Longanesi,
Milano 1970, p. 103
6 . G. Bruno, La cena de le Ceneri, in Id., Dialoghi, cit., p. 28
7 . Ibidem
8 . Ivi, p. 29
9 . Ibidem
10 . G. Bruno, De l’infinito, cit., p. 335
11 . A. Emo, Il monoteismo democratico, a cura di L. Sanò, B. Mondadori, Milano 2003,
p. 6
12 . G. Bruno, De l’infinito, cit., p. 335
13 . K. Jaspers, La fede filosofica, cit., p. 356
Aggiunto il 13/02/2018 11:15 da Alfio Fantinel
Argomento: Filosofia moderna
Autore: Alfio Fantinel
La filosofia non può eludere il confronto con la contemporaneità senza rischiare di rimanere vittima di quell’ossessione identitaria (espressione di Th. W. Adorno), con cui ha co
IL LIMITE IN FILOSOFIA di Giovanni Mazzallo La concezione che l’uomo ha sempre posseduto in merito alla sua capacità di assimilare le intere caratteri
David Deutsch & Michael Lockwood La fisica quantistica del viaggio temporale Traduzione di Giovanni Mazzallo