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Doxa. Debolezza e forza di Dio

                                                                         DOXA. DEBOLEZZA E FORZA DI DIO

                                                                          Frammento su Dio, Italo Mancini



                                                                                     di Davide Orlandi





Italo Mancini nel capitolo settimo della sua opera Frammento su Dio, incluso nella parte terza del libro, doppi pensieri, incentra la propria riflessione sul termine doxa a partire dal quale sviluppa il tema della debolezza e della forza di Dio. L'autore compie un'analisi dell'evoluzione storica del significato di doxa, individuando tre passaggi fondamentali in quella che egli chiama una vera e propria rivoluzione semantica del termine:


  • Il significato greco di doxa, soprattutto in platone, come opinione;

  • Il significato veterotestamentario di doxa come kabod Jhwl;

  • Il significato neotestamentario della doxa di Gesù.



Il percorso storico della rivoluzione semantica della parola doxa ha la sua origine nel mondo greco nel quale il termine, tradotto con opinione, stava ad indicare una conoscenza bassa e incerta. Il suo significato viene radicalmente ribaltato per giungere a quello neotestamentario di splendore divino e celeste. L'operazione culturale rivoluzionaria è compiuta soprattutto attraverso la traduzione greca della Torah, la settanta, che ha fatto dell'umile parola greca il corrispondente forte di un vertice teologico che sta ad indicare la manifestazione e la presenza di Dio1. Tale significato di splendore divino mantiene in sè l'antico segno della fragilità e della debolezza, difatti la gloria divina ha il suo vertice, nel Nuovo Testamento, con la croce di Gesù, manifestazione massima della debolezza di Dio. La doxa di Gesù è quella rivelata dalla croce, nel senso giovanneo del chicco di grano che deve morire per portare frutto (Gv 12,24: “In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto”).





La doxa greca



Analizzando in maniera più sistematica l'evoluzione semantica del termine doxa Mancini parte dal suo significato greco di opinione che presenta una duplice articolazione:


  1. Io ritengo”, l'opinione che nutro;

  2. Vengo considerato”: la considerazione, l'opinione che si ha di me.


Platone è stato, per Mancini, l'autore che meglio ha chiarito e approfondito il primo senso. Egli pensa la doxa in contrapposizione alla conoscenza certa, l'epistème e la pone come intermediaria tra essere e non essere, tra sapere e non sapere. L'epistème, cioè la scienza ha come oggetto ciò che è, è quindi un sapere del “come è ciò che è”, al contrario la doxa è la conoscenza dell'essere che non è totalmente tale. Platone non supererà mai questo livello di definizione della doxa, rifacendosi alla comune idea greca che la pensava nei termini di opinione, nel Filebo la definisce come opinione soggettiva. Più radicale di Platone nella definizione di questo termine è Eschilo che giunge a parlare di doxa come prodotto di una “mente gravata del sonno”, dunque il pensiero greco va addirittura al di là di Platone svilendo ancora di più il significato della parola che viene equiparata al sogno e all'immaginazione. Rimane meno frequente, anche se comunque presente, nella tradizione greca la seconda accezione del termine doxa come stima, valore o addirittura gloria, che deve la propria diffusione grazie al convincimento greco della gloria come supremo ideale della vita. Nell'ambito del Nuovo Testamento il significato di doxa è totalmente trasformato e non più equiparabile a quello precedente, è andato perduto il valore antico di opinione a vantaggio della seconda accezione greca di doxa come gloria e onore, alla quale si aggiunge il significato di splendore e magnificenza. Non vi è dunque più nessuna analogia tra la tradizione greca e quella neotestamentaria di doxa come splendore divino.






La doxa veterotestamentaria




La trasformazione semantica del termine ha le sue radici nell'Antico Testamento e nel termine ebraico di kabod, tradotto dai settanta saggi che operarono la traduzione ebraica della Torah, con doxa e nella vulgata da San Girolamo con il termine latino gloria. Il significato originario di kabod è difficile da individuare a causa delle diverse interpretazioni cosmologiche che si sono sovrapposte portando ad una lettura del termine come indicazione naturalistica di Jhwh, Signore di alcuni fenomeni naturali straordinari; un esempio ne è il Salmo 29 (28) dove Dio viene definito “Signore della bufera”. Tale accezione, però, è equiparabile a quella della mitologia greca in cui gli dèi presiedono fenomeni naturali e che porta ad un legame tra il sacro e la terra, legame che, invece, dovrebbe essere superato dalla Bibbia. Il rischio di tale interpretazione è quello di svilire il Santo e di farne una fonte di violenza. Contro questa visione ha scritto Levinas, il quale sostiene la necessità di “riferirsi all'Assoluto da ateo” che “significa accogliere l'Assoluto epurato dalla violenza del sacro”2. Anche per Benjamin l'eliminazione della violenza di Dio passa attraverso la sua separazione dal mito, apponendo alla violenza mitica una violenza divina totalmente opposta. La domanda che Mancini a questo punto si pone è se il kabod stia dalla parte del sacro o del santo e se rappresenti la violenza mitica oppure quella divina che rivela un disegno di liberazione. La nota della Bibbia di Gerusalemme Es 24, 16 parla della gloria del Signore nella tradizione sacerdotale come manifestazione della sua presenza, un fuoco distinto dalla nube che lo accompagna, una luce splendida che esprime la maestà inaccessibile di Dio3. Viene dunque sottolineata nella nota la differenza e la trascendenza della gloria di Dio dalle manifestazioni cosmiche e umane. Nel kabod Dio non si risolve negli eventi naturali, come sostiene Von Rad, i fenomeni naturali accompagnano la manifestazione di Dio, ma non l'identificano, Jhwh è trascendente rispetto alla natura. Il kabod Jhwh è legato ai fenomeni naturali, ma non vi è una riduzione di Dio a questi in quanto la manifestazione del Signore e la sua gloria sono opera sua, ma non coincidono con esso stesso, con la sua essenza. Nell'antico Testamento abbiamo dunque un legame tra la gloria di Dio e i fenomeni atmosferici, ma non c'è un'identificazione poiché Dio rimane trascendente a questi. Nella metafora di Mancini la doxa è la freccia non l'arciere, dunque l'apparenza è distante dall'essere, come la doxa dall'epistème4, in questo senso sopravvivono tracce della debolezza della doxa greca. Nel Salmo 19 (I cieli narrano la gloria di Dio, l'opera delle sue mani annuncia il firmamento. Il giorno al giorno ne affida il racconto e la notte alla notte ne trasmette notizia...) troviamo proprio una precisazione che segna lo stacco tra Dio e i fenomeni naturali, infatti qui la gloria di Dio viene presentata come trascendente rispetto al mondo e alla natura in quanto appartenente alle regioni supreme del cielo. Trascendente dunque è il kabod, ma soprattutto trascendente è Jhwh, di cui il kabod è la gloria5. Il kabod non è un fenomeno temporalesco, ma un reale manifestarsi della gloria di Dio, una gloria caratterizzata dalla santità e non dalla sacralità, poiché la santità di Dio non permette di sacralizzare, e da una violenza divina. Nella traduzione dei settanta, per Mancini, è stato compiuto un “arrovesciamento” semantico del termine doxa, da sapere incerto a oggettività assoluta, in questo passaggio l'autore fa notare come il fortissimo Dio e la manifestazione della sua gloria sia legata alla più fragile delle parole umane. La doxa di Dio nell'Antico Testamento è un trionfo cosmico, una gloria che si manifesta nella creazione o negli eventi di salvezza. La creazione per Mancini, come scrive in Filosofia della religione, è una delle gesta di Jhwh che ha una valenza fondamentale per essere quell'atto che pone le condizioni per l'instaurazione dell'alleanza tra Dio e il suo popolo segnando così l'inizio della storia della salvezza. Essa è intesa come il prodigio di Jhwh, come manifestazione della sua forza; è il primo degli eventi fondatori che segna il trionfo cosmico di Dio e fa parte del suo processo di rivelazione. Il mondo è dunque teofanico, cioè rivela la gloria del Signore, di questa rivelazione fanno parte anche gli elementi naturali, poiché tutto rientra nella logica della fede che ha uno statuto dei doppi pensieri. Mancini, riprendendo Barth sostiene che ci sia un qualcosa di più del kabod Jhwh. Il Signore della gloria, nel senso dell'espressione paolina della prima lettera ai Corinzi (1Cor 2,8), porta a dover rettificare il tiro della doxa nella direzione di una debolezza mortale, in quanto il Signore della gloria è stato crocifisso e la sua debolezza mortale è diventata forza immortale6. La doxa di Jhwh diventa doxa di Gesù e subisce un cambiamento e un paradossale arrovesciamento.






La doxa neotestamentaria




Nel Nuovo Testamento il termine doxa non è solo in discontinuità con il significato veterotestamentario, ma vi è anche una continuità in quanto rimane il senso di onore divino, splendore divino, magnificenza divina. Anche legata alla figura di Gesù è presente l'idea di doxa come manifestazione luminosa della gloria, diversi sono i passi del Nuovo Testamento in cui viene descritta la luce, lo splendore emanato dalla figura di Gesù, ricordiamo, per esempio, la trasfigurazione sul monte Tabor (Lc 9,29-31 Mentre pregava, il suo volto cambiò d'aspetto e la sua veste divenne candida e sfolgorante. Ed ecco, due uomini conversavano con lui: erano Mosè ed Elia, apparsi nella gloria, e parlavano del suo esodo, che stava per compiersi a Gerusalemme) o l'apparizione di Gesù a Paolo sulla via di Damasco con una grande luce, tanto che non riusciva più a vedere per la luminosità della doxa di Gesù7 . Mancini fa notare come ci sia una continuità tra i testi più antichi della Bibbia e gli ultimi, ma questa continuità non nega un radicale e paradossale rovesciamento della doxa di Gesù rispetto all'Antico Testamento.

L'aspetto nuovo della doxa neotestamentaria è che non è riferita solamente a Dio, ma anche al Figlio, egli è segno, strumento e veicolo di questa gloria che viene compresa attraverso la fede. La doxa non è propria solo del Gesù risorto, ma appartiene anche al Gesù terreno, quello che vive insieme ai suoi apostoli, mangia e beve con loro, ma soprattutto lo riguarda nell'evento della morte di croce, poiché è proprio in quel momento che si manifesta tutta la gloria di Dio, nella più alta manifestazione della debolezza terrena. Questo evento esplica in maniera evidente l'immagine giovannea del chicco di grano che deve morire per portare molto frutto, così Gesù, il Dio fatto uomo, rivela pienamente il volto di Dio come Abbà e la doxa divina sulla croce. Tale manifestazione richiama l'idea di Eschilo della "conoscenza attraverso la sofferenza" (Agamennone, v.177).

La gloria escatologica, la più alta presente nell'Antico Testamento (Isaia 40,57), nel Nuovo Testamento è incentrata in Gesù Cristo e soprattuto riguarda la sua parusia. Gesù è manifestazione della gloria del Padre e tale rivelazione è legata al Cristo post pasquale, il Risorto trasfigurato, mentre è più limitata nel Gesù terreno, anche se presente. La gloria è maggiormente intesa in vista della parusia, della nuova venuta, quindi il Figlio dell'uomo ha la doxa, ma l'avrà pienamente quando apparirà di nuovo alla fine dei tempi. Esempi di questo legame tra doxa e parusia sono presenti nel vangelo di Marco: Mc 13,26 “Allora vedranno il Figlio dell'uomo venire sulle nubi con grande potenza e gloria”.

La doxa del Gesù terreno non è negata, è comunque presente, ma non è vista materialmente come invece sarà alla fine dei tempi, è vista nel dono della fede, nello spirito della rivelazione. La doxa di Gesù non è visibile di per , ma il mistero della sua parusia deve essere svelato. (Prendendo spunto da questa interpretazione della doxa mi viene da domandare se è per questo motivo che le persone che incontrano Gesù dopo la sua resurrezione non lo riconoscono, ma hanno bisogno che egli sveli, manifesti se stesso Risorto). Kart Barth riporta in scena la dimensione della debolezza di Dio, egli sostiene che la carne e il sangue di Gesù rivelano che in lui vi è più che carne e sangue, ma ciò solo il Padre può rivelarlo. Non c'è per Barth una via della fede che permette di evitare lo scandalo della croce, altrimenti la negatività della carne non sarebbe messa in luce e l'uomo non sarebbe giudicato ne salvato8. A partire dall'analisi di Barth, Mancini sostiene che per poter cogliere la gloria bisogna partire dal fatto che Gesù per arrivare alla sua gloria è dovuto passare attraverso la totale mortificazione di sé9. La glorificazione di Dio è sulla croce di Gesù, nel senso giovanneo del chicco che muore, una gloria che nasce dalla morte in croce, ma che è anche l'evento stesso della glorificazione di Dio. Il rapporto che nel Nuovo Testamento c'è tra la gloria e la croce non è analogico, ma paradossale, addirittura scandaloso. La croce è scandalo, nel senso di pietra di inciampo, in quanto la gloria di Dio deve essere vista realizzata in un corpo profanato e ucciso e tale evento rende difficile il riconoscere Dio in quel corpo, poiché più debole di così Dio non può essere immaginato. Il Cristo morto suscita scandalo e rende difficile il passaggio alla fede, questa realtà è espressa molto bene, per Mancini, nel Cristo morto nel sepolcro di H. Holbein il giovane. La visione, su questa tela, di un cadavere livido, senza nessuna maestà, rende difficile pensare che possa essere fatto oggetto di fede e vedere in lui il Risorto, espressione massima della doxa divina10. Per approfondire questa problematica Mancini fa riferimento a Dostoevskij e al suo romanzo l'idiota in cui è presente il drammatico interrogativo riguardo alla fede nel Cristo sofferente e ucciso, egli pensa anche all'angoscia che dovettero provare i discepoli nel vedere il cadavere sfigurato di Gesù e come sia stato difficile per loro credere che quel corpo sarebbe risorto.

Il secondo interrogativo che sorge, dopo quello riguardo alla difficoltà della fede, di fronte alla tela di Holbein, che Mancini recupera da un'altra opera di Dostoevskij I fratelli Karamazov, è quello riguardo al non senso del mondo e al rifiuto della creazione. Uno dei fratelli Ivan Karamazov presenta questo rifiuto della creazione, che non è un rifuto di Dio, ma del mondo da lui creato, non accetta la salvezza, l'eterna armonia, l'ordinamento finalistico del mondo. Ivan è convinto che tutto ciò avverrà, ma sceglie comunque di non accettare preferendo restare con la sua sofferenza da vendicare. L'altro fratello Mitja, invece, non si ribella, ma accetta la logica di Dio del chicco di grano che deve morire per portare molto frutto, la quale invita a farsi carico delle colpe e del peccato degli altri e questo lo porta a passare da un'amore carnale lussurioso all'amore di solidarietà diventando un'uomo nuovo. Un nuova umanità che Mitja non vuole perdere anche a costo della prigione e del dolore in quanto la gioia viene da Dio e in questo senso il dolore diventa forza vitale e la coscienza di esistere. Egli non scappa dalla prigione, ma si fa carico della propria croce.







Conclusione



Concludendo, Mancini in questo capitolo della sua opera mostra, attraverso i passaggi storici dell'evoluzione del termine doxa, come nel tempo il suo significato abbia subito un totale "arrovesciamento", come da lui definito, mantenendo però anche una continuità nei passaggi e giungendo ad indicare, con il termine più debole del pensiero greco, la gloria di Dio che si manifesta non nella potenza, ma nella doxa del Cristo crocifisso, che tiene insieme la forza e la debolezza di Dio e la croce, momento massimo dell'impotenza divina, manifesta che la logica storica e pubblica di Dio non è quella del potere, del dominio e della sopraffazione11.

1I. Mancini, Frammento su Dio, Morcelliana, Brescia 2000, pag. 313.

2I. Mancini, Frammento su Dio, Morcelliana, Brescia 2000, pag. 318.

3I. Mancini, Frammento su Dio, Morcelliana, Brescia 2000, pag. 320.

4I. Mancini, Frammento su Dio, Morcelliana, Brescia 2000, pag. 325.

5I. Mancini, Frammento su Dio, Morcelliana, Brescia 2000, pag. 326.

6I. Mancini, Frammento su Dio, Morcelliana, Brescia 2000, pag. 334.

7Ivi, pag. 336.

8Ivi, pag. 339.

9Ivi, pag. 340.

10Ivi, pag. 341.

11Ivi, pag. 309.

       

     





Aggiunto il 13/07/2017 08:38 da Davide Orlandi

Argomento: Filosofia delle religioni

Autore: Davide Orlandi



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