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Dal diritto al debito

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La narrazione del diritto, dell’inalienabile diritto del lavoro, ha ceduto il posto alla narrazione del debito, dell’inestinguibile debito cui ogni cittadino è sottomesso nell’atto stesso di venire al mondo, come Walter Benjamin ha profeticamente intuito nel suo Capitalismo come religione.

Tre decadi hanno trasportato le società ad economia “avanzata” (come si diceva una volta) dalle rovine della guerra ai miracoli economici, tassi di crescita molto prossimi alle due cifre che dovevano garantire la ricchezza diffusa, la moltiplicazione dei consumi e – per essi – il raggiungimento di una condizione di stasi sociale quale solo l’estinzione delle classi può provvedere. La crescita doveva essere supportata e adeguatamente difesa da un corredo di cessioni parziali di sovranità, mediante l’allargamento dei diritti sociali e una loro intensificazione simbolica: tutta una mitologia del lavoro, del valore apodittico del lavoro, doveva germinare dalle conquiste sindacali e politiche della classe operaia, ed estendersi ai ceti medi nella misura proporzionale alla loro vicinanza a quella, a lungo fissata - dentro e fuori la cultura marxista - come criterio sociologico e ideologico del progresso.

La quota di richiestività, di conflittualità, di desiderio (Deleuze) che non poteva essere assorbita dentro la logica del welfare e delle strategie salariali era lasciata agire nell’incontro – perfettamente funzionale al discorso di un potere lungimirante – con un disegno costantemente eversivo, statuale, che erigeva i confini del pensabile (per trenta e passa anni l’immaginario del nostro paese è rimasto inchiodato alla nozione dell’inevitabilità della natura oppositiva del maggiore partito comunista europeo!) sotto la minaccia di uno scardinamento delle regole democratiche. Chiaro indizio dell’immaturità del capitalismo italiano rispetto ai paesi con una storia più consolidata.

Fra la fine degli anni ’70 e la metà degli anni ’80 avvenne lo switch over: il processo di commutazione delle dinamiche sociali, la fine della redistribuzione del reddito dall’alto in basso e l’inizio – a intensità crescente – della redistribuzione dal basso in alto!

L’affermazione dilagante della deregulation dei mercati, la de-territorializzazione dei flussi finanziari, la montante politica dell’austerità prepararono il terreno per il brodo di coltura di una soggettività assogettata alla colpa (ancora Benjamin, ma anche i lavori di Elettra Stimilli), all’afflizione del limite, all’espiazione del peccato originario: l’aspirazione a una diversa configurazione dei rapporti di potere fra le classi.

La strategia del debito ha avuto buon gioco: alimentando continuamente, circolarmente, il sentimento di afflizione mediante dosi quotidiane massicce di bisogni indotti, radicando questi – per converso – nel vuoto di senso generato dall’afflizione, si è determinato un effetto probabilmente imprevisto, perfino agli agenti più agguerriti del neo-liberismo rampante: la progressiva estinzione della classe operaia.

O quanto meno un disallineamento della condizione sociale rispetto al rispecchiamento politico ed elettorale. Masse crescenti di “operai” hanno aderito allo storytelling di una destra e di una sinistra, distinguibili solo per sfumature poco significative rispetto alla comune adesione ai dettami della teocrazia finanziaria, che ha progressivamente sostituito il culto del diritto con la liturgia del debito, officiata mediante la capillare spettacolarizzazione della cultura della razionalizzazione, dietro cui si cela quella della spoliazione.




Aggiunto il 15/04/2015 09:30 da Sandro Vero

Argomento: Filosofia politica

Autore: sandro vero



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