Breve introduzione alla storia della scienza
di Davide Orlandi
La storia della scienza è una disciplina giovane, soprattutto in ambito italiano: la storia della filosofia si fa da due secoli mentre la storia della scienza in ambito anglosassone si fa da 50-60 anni, e in ambito italiano si fa, in modo critico, dagli ultimi 30-40 anni.
Nel passato solitamente si faceva storia della scienza con sguardo retrospettivo: si muoveva dal presente, procedendo a ritroso, concependo il passato come una sequela di errori. Se noi riteniamo adesso di essere in possesso della verità e guardiamo ai risultati, al lavoro degli scienziati di 200 anni fa, non possiamo che vedere errori, approssimazioni, precorrimenti, ingenuità. Prendiamo la storia della medicina pratica: se noi andiamo a vedere come era praticata nel ‘600-‘700 troveremo medici che curavano le malattie come Ippocrate. Cosa fa chi guarda il passato con le competenze dell’oggi? Concepisce la storia della scienza come folklore, curiosità, tentativo di guardare al passato per pescare i precorrimenti. Oppure si guarda al passato per comprendere quanto tempo fa è stata precorsa una certa scoperta, quanto tempo fa qualcuno ha avuto una mezza intuizione di ciò che invece oggi è verità stabilita. Fare storia della scienza con queste modalità risulta essere un’attività che può al limite occupare il tempo libero: che senso ha per un professionista, come è lo storico della scienza, occuparsi di errori e di posizioni che oggi possono apparire ridicole?
Negli ultimi 30-40 anni, tuttavia, l’affinamento della disciplina ha preso altre strade: fare storia della scienza non significa fare storia del passato, muovendo dal presente e guardando all’indietro, ma significa fare storia nel passato, quindi non assumendo le nostre competenze come punto di vista per guardare a quello che si faceva prima, come osservatorio per giudicare. Fare storia nel passato significa trasferirsi idealmente nel passato, cercando di capire come, in quel periodo storico, gli intellettuali e gli scienziati si muovevano, lavoravano e conseguivano determinati risultati. Non c’è perciò più una storia in cerca di precorrimenti o di intuizioni geniali o una storia volta a smascherare gli errori, per sottolineare quanto stupidi erano gli scienziati del passato. Il modo ingenuo di fare storia della scienza sovrapponeva al passato non solo le nostre competenze, ma anche la nostra terminologia, il che significa essere anacronistici, applicando qualcosa di totalmente estraneo a vicende descritte e narrate, ai loro tempi, in modo diverso.
Il primo passo per fare della storia della scienza una disciplina professionale è stato quindi quello di praticare una storia nel passato con le parole del passato. Un esempio per chiarire questo punto: in questo articolo non parlerò di biologia, ma di storia delle scienze della vita, visto che la biologia nel ‘600-‘700 non esiste, ma esistono invece le scienze della vita. Parlare di biologia, quindi, non ha alcun senso. O ancora: oggi gli scienziati parlano di ossigeno, idrogeno, azoto. Ma prima della fine del ’700 e prima della rivoluzione chimica ad opera di Lavoisier la chimica non parla di ossigeno, non sa nemmeno cosa sia. Se noi sovrapponiamo alla terminologia incerta della chimica pre-lavoisieriana la terminologia lavoisieriana, che è la nostra terminologia attuale, ci comportiamo in maniera anacronistica. Prima di Lavoisier l’ossigeno era definito come aria pura, aria vitale, aria particolarmente pura. Sovrapporre le nostre competenze e parole è perciò da evitare.
Chi fa la storia della scienza? Che cosa deve studiare la storia della scienza? Se prendiamo il caso della filosofia, vediamo che questa è praticata dai filosofi. Chi fa storia della scienza? Gli scienziati, gli storici o i filosofi? Fino a che la storia della scienza è stata ricostruzione degli errori e dei precorrimenti del passato, è stata largamente in mano agli scienziati. Fino a 50-60 fa, prima della seconda guerra mondiale, era scontato che la storia della scienza fosse nelle mani degli scienziati. È la storia della scienza con il camice bianco: lo storico della scienza, ritenendosi in possesso della scienza vera, faceva ciò che prima si diceva: guardava al passato cogliendone errori e precorrimenti.
Attualmente questo atteggiamento da “camice bianco” è stato largamente superato: oggi la storia della scienza è praticata soprattutto da storici e filosofi. C’è perciò un approccio storico ed un approccio filosofico, cioè epistemologico alla storia della scienza.
Vediamo cosa si intende per storia epistemologica della scienza. La storia epistemologica della scienza è una tipologia di storiografia scientifica. In genere come precede l’epistemologo? È interessato al passato in quanto vi ricerca casi confortanti, ossia casi che supportano la sua teoria dello sviluppo della scienza. L’epistemologo produce professionalmente teorie filosofiche relative a che cosa sia la scienza, a come proceda e a come si costruisca il buon metodo scientifico, motivo per cui guarda al passato per trovare casi, eventi, personaggi, sviluppi di teorie che confermino la sua idea di cosa è scienza e di come essa procede. Poniamo che un epistemologo sostenga che il buon metodo scientifico è quello in cui l’osservazione nasce già carica di teoria, per cui si afferma che non esiste l’osservazione spassionata, la tabula rasa di cui ha parlato Locke. Che fa allora l’epistemologo? Studia gli scienziati del passato con quest’occhio, secondo questa prospettiva e va a recuperare esempi confortanti: studia gli scienziati del passato cercando di mostrare che costoro, quando facevano osservazione ed esperienze, non procedevano con la mente sgombra, ma avevano già in mente un preciso obiettivo teorico da convalidare.
Il problema della storia epistemologica della scienza è quindi quello di finire per essere molto selettiva ed euristicamente molto debole: si guarda al passato cogliendo soltanto ciò che conferma la mia concezione del progresso scientifico, ad esempio. È euristicamente debole poiché si studia poco, si procede con l’accetta: al posto che allargare lo sguardo, lo si restringe su singoli casi esemplari. Un modo di procedere simile difficilmente condurrà alla pubblicazione di inediti. Oltre alla debolezza euristica e al problema della selettività, l’epistemologo non riesce a spiegare una delle caratteristiche basilari della scienza moderna: non riesce a capire che la scienza nella modernità è, nella stragrande maggioranza di casi, una sintesi di teoria e di intelligenza operativa. La storia epistemologica della scienza tende perciò a liberare dalla fatica intrinseca al mestiere di storico, visto che seleziona, non va alla ricerca di casi diversi: trovato un caso che sostiene la propria teoria, l’epistemologo è soddisfatto del suo lavoro. Ci si libera perciò della fatica del lavoro di archivio, legato alla moltiplicazione dei casi.
Contro un modello storiografico di questo tipo è stata proposta, specie negli ultimi vent’anni, una storia della scienza come genetica di teorie. Cosa vuol dire fare storia della scienza come ricostruzione genetica delle teorie? Si tratta di guardare al passato, collocandosi in esso e sforzandosi di ricostruire come le teorie del passato sono andate lentamente maturando. Il compito dello storico è quello di ricostruire una genetica delle scoperte, delle teorie e dei metodi scientifici. Qui siamo all’opposto: non ci si libera dalla fatica, che al contrario si moltiplica. Facciamo un esempio tratto dal mondo filosofico: non si studia, qui, la Critica della ragion pura, che già è difficile, ma si studia come Kant è arrivato a scriverla. Come è giunto all’elaborazione dei giudizi sintetici a priori? Chiuso nel suo studio? Provando e riprovando? Dovrò andare a leggere gli appunti di Kant, dovrò ricostruire il percorso. È come capire il modo in cui newton è giunto a stabilire la legge sulla gravità: leggo sì i Principia di Newton, ma m’interessa ancor più capire come Newton ci è arrivato. Interviene così la fatica, il lavoro sugli inediti, sui manoscritti, sugli appunti. Siamo all’esatto opposto rispetto alla situazione precedente. Si costruisce, qui, una genetica della scoperta.
Una storia della scienza di questo genere ha in sé però un problema non da poco: la storia epistemologica della scienza non tiene conto che la scienza, specie quella moderna, è una sintesi di metodo, competenze, teorie e intelligenza operativa. Ciò vuol dire che la scienza non è soltanto idea. Se noi facciamo storia della filosofia, ci occupiamo di idee filosofiche. La filosofia non ha una dimensione di intelligenza operativa, è solo lavoro della mente. La scienza è sintesi di mente, occhio e mano, specie in relazione al periodo di cui ci occupiamo. Nella modernità non esiste il fisico teorico, che sta in laboratorio e che usa solo la matita: Galileo stava in laboratorio e costruiva il cannocchiale, grazie certo al suo assistente, ma usando le mani. Una storia genetica della scoperta, una storia che studia solo il percorso delle teorie ci dice molto, è una storia fatta soprattutto dagli storici della filosofia, come Paolo Rossi, che ha insegnato per molti anni storia della filosofia ed è un grande storico delle idee. Fare la storia delle idee vuol dire fare la storia delle idee filosofiche e scientifiche, o anche fare storia dell’arte, delle concezioni artistiche. Così però come la storia dell’arte deve occuparsi non solo di estetica ma anche di pennelli, allo stesso modo la scienza è teoria e intelligenza operativa. Ci sono scienziati che hanno prodotto risultati notevoli dal punto di vista della mano e cose più modeste dal punto di vista dei metodi. Non possiamo perciò fermarci alla storia delle idee scientifiche, che pure è importante, ma bisogna guardare anche all’aspetto operativo.
Anche dal punto di vista della professionalità la figura dello storico della scienza è cambiata: chi ha una formazione filosofica ed è perciò dotato di sensibilità storica e di competenza filosofica deve integrare con competenze di tipo scientifico, così come chi ha una formazione scientifica deve completare la propria preparazione con competenze di tipo filosofico. Si tratta perciò di sintetizzare i due lati, in modo da far nascere una storia della scienza che potremmo definire come archeologia di pratiche, strumenti, laboratori, ossia integrando tutto ciò che dice della dimensione materiale della scienza. È questa una storia materiale della scienza, che non dimentica che la scienza non è solo idea ma anche materialità. La teoria, nel caso della scienza, non esiste da sola, ma si incarna e procede sempre all’interno della pratica: gli aspetti materiali non sono dei dettagli tecnici ma parte essenziale dell’oggetto in questione. Gli scienziati non lavorano mai su concetti disincarnati: non esiste differenza tra riflessione e laboratorio, tra microscopio e letture, tra maneggiare oggetti di laboratorio e aderire a una certa tradizione filosofica. C’è un intreccio che è compito nostro cercare di cogliere nella sua complessità. La scienza è un’attività umana che, nella sua globalità, è pensiero e azione, mente e mano, esperienza e concettualizzazione.
È chiaro che la concezione di cosa è la scienza e di cosa è storia della scienza incide, a livello professionale, su che cosa studiare. Per chi fa storia epistemologica della scienza, la risposta è facile: si vanno a cercare i casi confortanti. Chi fa storia della scienza come genetica di teorie studia i personaggi che hanno fatto avanzare il sapere scientifico (Descartes, Newton, Keplero, Copernico e così via). Se noi consideriamo che la scienza è anche quel groviglio di cui si è detto, la faccenda si complica: certo occorre studiare i grandi, ma perché non i personaggi minori che li circondano? Perché studiare Galileo e non quella serie di tecnici, di assistenti, di personalità seppur minori ma senza le quali Galileo non ci sarebbe stato? Negli ultimi dieci anni si è cercato di fare emergere dall’invisibilità quello che la storia tradizionale della scienza ha lasciato in ombra. Il fenomeno della rivoluzione scientifica non sarebbe stato possibile se attorno alle grandi personalità non ci fossero state delle reti di personaggi che restano per lo più invisibili e che invece hanno contribuito molto nella messa a punto del nuovo metodo della scienza moderna.
Il problema allora è definire meglio la dimensione materiale della scienza. Solo apparentemente pratiche, strumenti e laboratori rappresentano una dimensione bassa: in realtà contribuiscono allo sviluppo della scienza quanto i metodi.
In questa storia materiale della scienza è entrata a pieno diritto anche la storia della scrittura della scienza, ossia la storia delle scelte che gli scienziati del passato hanno fatto in rapporto alla descrizione di quanto osservavano. È la storia delle parole della scienza, della scrittura della scienza, di come questa si scrive, di come lo scienziato deposita sulla pagina la scrittura e di quale forma sceglie per la sua descrizione (sintetica o analitica). Esistono scritture private e scritture pubbliche dal momento che esistono livelli diversi di condivisione del sapere scientifico, i quali richiedono stili diversi. Nel caso dell’appunto che lo scienziato prende in laboratorio, la distanza tra lo scrittore e il lettore è uguale a zero: il pubblico è l’autore stesso. Tra le scritture private esistono tipi diversi (l’appunto preso a lezione è diverso dall’elenco della spesa, anche se entrambi hanno come scopo quello di ricordare, ma il livello di complessità è diverso).
Esiste poi la scrittura pubblica, quella cioè in cui il pubblico a cui lo scritto è rivolto è più ampio e comprende altri soggetti oltre all’autore. Più il pubblico si amplia e più il tipo di scrittura deve cambiare. Nel caso degli scienziati, la scrittura privata è già minimamente improntata da vocazione democratica, visto che l’esperienza individuale deve prevedersi già come virtualmente collettiva.
Lo scienziato non è l’alchimista, chiuso nel suo gabinetto, che non vuole fare uscire i suoi segreti, ma porsi quale unico possessore del sapere: al contrario, lui cerca di diffondere le sue conoscenze e i suoi metodi, per cui anche la scrittura privata è concepita in vista di quello scopo: si scrive cercando di farsi capire. In epoca moderna la scrittura è forse la più importante dimensione intersoggettiva di trasmissione del sapere: del resto come si trasmetteva il sapere allora? Non per telefono, né per posta elettronica, cose che non esistevano. Galileo trasmette a Keplero le sue osservazioni tramite epistole, anzitutto di natura privata, ma con un minimo di circolazione pubblica, prima di pubblicare un saggio. I libri sono sempre gesti rivolti agli altri, perché gli altri, attraverso la scrittura, capiscano e apprendano quanto lo scienziato ha fatto. Lo scienziato lavora perciò sempre su due oggetti: una ricerca sperimentale e un testo. Combina sempre l’esperienza empirica del laboratorio e quella testuale, dello scrivere. Già la scrittura privata, di quelli che possiamo chiamare appunti o note di laboratorio, è pensata come minimamente pubblica: prevede essa stessa delle strategie di autoconvincimento. Lo scienziato scrive per far chiarezza, per ricordarsi, per autoconvincersi di ciò che ha scoperto: convince se stesso in vista di convincere gli altri. Scrivere obbliga a chiarirsi le idee e presentare quanto si è sperimentato in modo che noi stessi e gli altri possano capire.
È importante valutare come lo scienziato dispone la scrittura sulla carta. Sembra una cosa ovvia e scontata, ma per gli scienziati dell’età moderna la cosa non lo è. Cosa gli storici della scienza, lavorando sugli appunti degli scienziati, hanno notato? Hanno notato indizi interessanti per capire la genesi delle idee. Gli scienziati di età moderna prendono appunti sulla carta e le caratteristiche della scrittura possono dire molto. Se, ad esempio, sono presenti abbreviazioni, ciò significa che quello che lo scienziato osserva è così veloce che non riesce ad appuntarlo con maggiore precisione. Importanti sono anche le macchie di inchiostro, che sbava dopo che con la mano ci si passa sopra: evidentemente lo scienziato aveva fretta nel riportare quanto stava accadendo. Lo scienziato può progettare una ricerca e stabilire quanti fogli gli saranno necessari per appuntare le sue osservazioni. Ciò ci dice della rilevanza attribuita dallo scienziato alla sua ricerca: se ha dedicato una decina di fogli, ma ne aggiunge poi degli altri, vuol dire che evidentemente il lavoro era più impegnativo di quanto pensava. Questo ci dice della distanza tra l’inizio e la fine della ricerca e delle previsioni dello scienziato. Altro elemento interessante per capire come lo scienziato ha lavorato è badare alle correzioni, eventualmente apportate dopo l’esperienza in laboratorio, il che indica la necessità di rileggere. Importanti sono anche le stratificazioni delle correzioni.
Ciò che lo storico deve tenere presente è che la scrittura scientifica non è mai un resoconto stenografico ma è sempre memoria, nel duplice significato di questo termine: da un lato è ricordo, dall’altro è progetto per ciò che si farà. Perché non è un resoconto stenografico? Perché lo scienziato sceglie ciò che scrive, i suoi appunti non sono la registrazione di tutto. Questo però è una concezione epistemologica in conflitto rispetto all’idea che lo scienziato produca un report oggettivo di quanto osservato, trovandosi a scrivere quanto la natura gli detta. Lo scienziato sceglie cosa scrivere, fin dall’inizio: le sue osservazioni ed esperienze nascono non sotto dettatura della natura ma già cariche di aspettative, che naturalmente non sono le stesse dall’inizio alla fine. Ci sono eventi che all’inizio lo scienziato vede, ma non annota e che magari inizia ad appuntare a metà del percorso. All’inizio può annotare tutto, poi può tralasciare delle cose, che evidentemente si rivelano inessenziali. L’inessenzialità però è tale soltanto a seguito della maturazione dello scienziato.
Anche in merito alla scrittura pubblica esistono strategie diverse: come si opera però il salto dall’appunto all’opera? Il testo non viene composto copiando semplicemente gli appunti, che vengono cambiati, tenendo presente che le note recano molte tracce del percorso fatto: alla fine lo scienziato sa come sono andate le cose, per cui gli appunti devono essere rivisti, ripresi, modificati.
Perché si scrive? Per trasmettere agli altri osservazioni e risultati e quindi le conclusioni teoriche che si traggono da osservazioni ed esperimenti. Come si scrive? Il saper scrivere fa parte della scienza quanto il sapere e il saper fare. Uno dei più grandi scienziati italiani della seconda metà del ‘700, Spallanzani, ebbe una feroce polemica con uno scienziato inglese, Needham: alla fine vince Spallanzani, anche grazie al fatto che Needham non sapeva presentare le osservazioni e le esperienze secondo quelle che all’epoca erano le regole del gioco della scrittura scientifica. Needham è stato accusato di essere oscuro, di non essere sufficientemente chiaro e quindi di impedire agli altri di rifare le osservazioni e le esperienze fatte da chi scrive. La scienza è sapere, sapere fare e sapere scrivere. Il problema della scrittura già rientra nella scrittura privata, perché questa è memoria di quello che si è visto e progetto: scrivere obbliga già lo scienziato in laboratorio a far chiarezza, a fissare certi fenomeni e quindi a scegliere. Quando si tratta di pubblicare, il problema di presentare in modo convincente gli argomenti, perché gli altri ci credano, diventa un problema importante. La scrittura è così parte integrante della ricerca, quanto quindi le osservazioni e le sperimentazioni. Già l’organizzazione degli appunti personali non è stenografia, ma scelta: il problema della scelta, cioè della generalizzazione e del saper discriminare ciò che è importante da ciò che non lo è, diventa sempre più importante quando vanno presentati agli altri i risultati. Come presentare i risultati agli altri in modo convincente? Anzitutto si può obiettare che non è necessario che lo scienziato sia convincente: fino a una decina di anni fa tra gli storici della scienza era comune parlare di retorica della scienza. La retorica è la capacità di presentare i propri argomenti in modo convincente: gli storici della scienza che si sono occupati di retorica della scienza hanno sostenuto che agli scienziati moderni non interessava tanto trasmettere la propria verità quanto convincere della verità dei propri risultati e delle proprie osservazioni e sperimentazioni. Senza arrivare a questi estremi, possiamo dire che indubbiamente il problema della convinzione è un problema sentito tra gli scienziati dell’epoca. Lo scienziato tende a presentare le osservazioni in modo tale che gli altri capiscano che lo scienziato ha realmente osservato i fenomeni e fatto le proprie sperimentazioni. Il secondo problema è quello di mettere gli altri in condizione di ripetere le proprie esperienze: se gli altri non vengono messi in condizioni di poterlo fare, come possono credere ai risultati dello scienziato? Occorre perciò convincere che le osservazioni sono state effettivamente fatte, così come le esperienze e mettere gli altri in condizioni di ripetere osservazioni ed esperienze. Qui entra in gioco la scrittura: lo scienziato può avere fatto osservazioni ed esperienze stupefacenti e aver tratto conclusioni teoriche di dirompente novità, ma senza una buona capacità argomentativa non si può che essere dei perdenti, come è successo allo scienziato inglese.
È proprio dell’età moderna il fatto che l’autorità si sia spostata dai testi, dalla memoria, dai libri alle osservazioni. Tuttavia il saper scrivere è altrettanto importante rispetto all’osservazione. Questo sembra configgere rispetto allo spirito della scienza moderna, che nasce in rottura rispetto all’autorità. È vero che nella modernità l’autorità si è largamente spostata dalla memoria all’osservazione ma la nuova autorità è una nuova autorità testuale. Per convincere gli altri occorre scrivere – ecco che entra in gioco una nuova autorità testuale che non è più il libro, ma una scrittura che ha una capacità euristica, cioè che induce gli altri a ripetere, a rifare le esperienze. Si è parlato di una vocazione democratica della scienza moderna: diverso è l’atteggiamento del mago, dell’alchimista, dell’astrologo rispetto allo scienziato moderno. Il mago possiede competenze esoteriche che si guarda dal comunicare agli altri, perché non vuole che i suoi segreti escano dal suo gabinetto. Lo scienziato, invece, vuole che gli altri apprendano il come, il come si fa ad osservare e ripetano.
Che cosa costruisce lo scienziato? Pubblica quelle che sono state definite “esperienze testimoni” che chiamano in causa il testimone virtuale. Le esperienze testimoni non sono nessuna delle esperienze concrete fatte in laboratorio, ma sono esperienze virtuali che lo scienziato costruisce prendendo uno o più elementi dall’esperienza concreta, sino a costruire un’esperienza ideale, come dev’essere praticata, secondo il buon metodo. Difficilmente le esperienze concrete riescono al 100%, ma non si vogliono nemmeno proporre esperienze imperfette: per tale ragione si prende, da ogni esperienza concreta, il meglio e si costruisce l’osservazione perfetta, che è quella che sarà contenuta nella pubblicazione. Sarà un’esperienza rigorosa, scritta in modo chiaro ed accessibile, conforme alle regole di comunicazione stabilite, capace di convincere il pubblico. La scienza diventa perciò un business of words, un affare di parole: non si scrive in termini qualsivoglia, la scienza ha un linguaggio formalizzato, usa termini tecnici per mettere gli altri in condizioni di ripetere quanto è stato fatto e di rassicurare chi non è stato presente alle esperienze, in modo da ridurre il margine di variabilità che porta all’errore. Occorre descrivere osservazioni ed esperienze non in modo creativo, ma in modo che gli altri le ripetano secondo regole precise, che li porteranno ad ottenere gli stessi risultati che lo scienziato ha ottenuto. Se il risultato dell’osservazione e dell’esperienza è descritto in modo da permettere a chiunque di perseguire i medesimi risultati, sarà superflua la presenza di un pubblico all’osservazione praticata dallo scienziato. Lo scienziato costruisce così il testimone virtuale, che può essere rappresentato dall’intera comunità di scienziati: l’interlocutore dello scienziato è la comunità scientifica, non coloro sprovvisti di una formazione intellettuale che non consente di replicare quanto ha osservato. Occorre perciò convincere chi è in grado di ripetere osservazioni ed esperienze. Si parla sempre di osservazioni e esperienze, non di osservazioni o esperienze. L’osservazione è diversa dall’esperienza: la prima avviene sotto dettatura da parte della natura. Lo scienziato non interviene sul prodursi degli eventi, che invece si limita ad osservare. Naturalmente non è possibile scrivere sotto dettatura della natura: nell’appunto è già praticata una forma di interpretazione di quanto viene osservato. Lo sperimentatore, colui che fa esperienze, interviene sul corso naturale della natura e quindi crea situazioni artificiali. È capace di elaborare il cosiddetto esperimento ideale, termine con cui ci si riferisce ad un esperimento non realmente eseguito, ma che al termine di una lunga serie di esperimenti reali viene costruito dallo scienziato, sulla scorta degli esperimenti realmente praticati, assemblando elementi reali, in modo da costruire un esperimento che possa dirsi perfetto.
Perché tutto il problema di convincere, di narrare in un certo modo? Perché nel ‘600-‘700 gli scienziati lavorano in condizioni, dal punto di vista istituzionale, molto diverse da oggi. La scienza dell’epoca è un’attività che possiamo definire come “scienza da camera”: gli scienziati non hanno laboratori come oggi, ossia dei luoghi istituzionalizzati in cui viene formalizzato quanto accade, ce conferisce già un grado di credibilità. Gli scienziati allora lavoravano nei loro spazi domestici, non avevano laboratori: si dedicano alle loro attività in cucina, in camera da letto, dove non c’è una netta distinzione tra la scrivania (il luogo in cui si legge o si scrive) e il tavolo, dove magari si sezionano animali o si fanno esperimenti di fisica. C’è una commistione tra strumenti e libri. Oggi lo scienziato che lavora in un laboratorio universitario o in una grande industria vede i risultati conseguiti già istituzionalizzati dalla natura dell’organo al quale afferisce. Però gli scienziati tra ‘600 e ‘700 non potevano lavorare nei laboratori universitari? Del resto allora le università c’erano. Però non erano luoghi di ricerca: le università, fino quasi alla fine del ‘700, non sono luoghi di sperimentazione ma solo o quasi luoghi di trasmissione del sapere. Se la ricerca non si fa in università è chiaro che devo farla a casa e ho quindi motivo di convincere gli altri che le osservazioni e gli esperimenti sono stati realmente svolti, ecco che c’è necessità di costruire un testimone virtuale. Come lo costruisco? Descrivendo le mie osservazioni ed esperienze in modo da consentire agli altri di ripetere quanto ho fatto. A un certo punto il processo cresce, si autonomizza al punto che gli scienziati costuiscono le loro narrazioni di osservazioni ed esperienze in modo così credibile che lo scopo non è nemmeno più quello di consentire la ripetizione, ma quello di far sì che gli altri non abbiano più necessità di ripetere. La narrazione di quanto accade in “laboratorio” è così convincente che il pubblico non ha bisogno di ripetere. Questo è importante perché se ogni volta che lo scienziato propone una teoria nuova gli altri hanno bisogno di ripetere il suo percorso sperimentale, il progresso diventa molto lento. Esistono delle regole precise per trasmettere come si sono costruiti i risultati della sperimentazione affinché gli altri – i colleghi, la comunità intellettuale – possano partire da quel punto e procedere avanti.
Ma come si convincono gli altri? Come mettiamo gli altri in condizione di non ripetere più e di progredire? Ci sono varie strategie narrative: la retorica della dimostrazione può passare attraverso due regole diverse. Ci sono scienziati che si attengono alla riproduzione realistica, dettagliata, precisa degli esperimenti, mentre altri scelgono la forma sintetica e spersonalizzata. C’è la via dell’esattezza e della sintesi e c’è la via della minuzia e della concretezza. Tutte e due hanno i loro vantaggi. Esaminiamo i vantaggi di chi scrive minuziosamente e concretamente. Prima della pubblicazione dell’esperimento ideale lo scienziato pubblica pagine e pagine con la presentazione degli esperimenti reali, magari pieni di errori, che ha fatto. Perché riprodurre il percorso? Perché riprodurre l’errore? L’errore ha una valenza retorica ed una capacità di convinzione importante. L’errore è realistico e testimonia il fatto che l’esperienza è stata realmente svolta. L’errore, poi, tranquillizza gli altri: se persino chi è arrivato alla scoperta ha fatto degli errori, ciò vuol dire che tutti possono arrivare a quel risultato.
L’altra via è quella dell’esattezza e della sintesi, con cui si presenta solo l’esperimento ideale, in modo sintetico e prosciugando il percorso svolto in precedenza. Non si riportano le osservazioni eseguite e si fa scomparire quanto di soggettivo c’è stato nel percorso che ha condotto alla scoperta. Rendere invisibile la routine e rifiutare la ripetitività significa optare per la semplicità e per la condensazione della narrazione agli elementi fondamentali, in modo da non distrarre il pubblico. Nel primo modo di scrivere abbiamo abbondanza di dettagli, qui invece avremo un’economia di dettagli dal momento che la sintesi e la chiarezza devono lasciare il minor spazio possibile all’immaginazione altrui.
Altro elemento tipico, che fa parte integrante della narrazione della scienza, è la localizzazione nel tempo e nello spazio di osservazioni ed esperienze. Come avviene questa localizzazione? È tipico trovare, nella narrazione scientifica, espressioni come “ho fatto quest’esperienza il 9 dicembre”, senza l’indicazione dell’anno. C’è una collocazione di un tempo senza tempo: c’è così un aggancio realistico (il 9 dicembre) ma non si dice a quanta distanza, ad esempio, sono state praticate esperienze diverse. Sappiamo così che le osservazioni e le esperienze sono state fatte, ma lo scienziato tende a non dire quanto è stato lungo il suo percorso. Nell’ambito della scienza moderna la scelta retorica della prolissità cioè dello schiacciare la comunità scientifica con la massa enorme del lavoro svolto è poco praticata: la scelta più praticata è quella di riprodurre esperienze ed osservazioni ideali, spersonalizzandosi e asciugando al massimo il proprio percorso.
Iniziamo il discorso sulla scienza e la tecnica nel Rinascimento, ossia in quel periodo immediatamente precedente rispetto alla cosiddetta Rivoluzione scientifica. Cosa inizia a succedere tra ‘400 e ‘500? In questi due secoli si colloca un processo storico rivoluzionario, molto articolato che porta il mondo europeo dalla civiltà medievale alle soglie della Rivoluzione scientifica. Si è parlato di rivoluzione, e propriamente: la rivoluzione non è la riforma. La riforme sono apportate perché un determinato stato di cose sia messo nelle condizioni di funzionare meglio, in modo da non essere ribaltato. Sono ciò che di più antirivoluzionario esiste: occorre rivoluzionare appunto per andare avanti. Le rivoluzioni, invece, stravolgono, ribaltano un certo ordine di cose – politico, sociale o scientifico. In poco meno di due secoli avviene un processo storico rivoluzionario che porta il mondo europeo alle soglie della Rivoluzione scientifica. Questo processo comporta il progressivo abbandono delle vecchie regole circa il come si faceva scienza e lo stravolgimento dei vecchi confini del sapere, con il conseguente sorgere di forme di cultura, di sapere e di conoscenza scientifica nuove. La trasformazione, che ha inizio nella seconda metà del ‘400 e culmina nel ‘700 avviene nel segno del recupero del mondo classico. Ma come si fa a preparare una rivoluzione recuperando quanto di più passato esiste? In realtà si lavora sulle competenze pregresse, si recupera la conoscenza elaborata nell’antichità classica ma per elaborare una nuova concezione dell’uomo, della natura e di Dio. I risultati più rilevanti di questo fenomeno storico portano all’elaborazione del metodo matematico-sperimentale e al conseguente avvio della scienza moderna, come oggi ancora la comprendiamo e pratichiamo. Il rapporto tra rivoluzione scientifica e ciò che accade tra ‘400 e ‘500 (periodo dell’Umanesimo e del Rinascimento) ha occupato gli storici e ha provocato discussioni vivaci. Tradizionalmente si riteneva che Umanesimo e Rinascimento non avessero per nulla contribuito allo sviluppo della nuova scienza, anzi si è detto che il fenomeno dell’Umanesimo e del Rinascimento avrebbe costituto un freno, un ostacolo: avrebbe cioè generato atteggiamenti ostili verso il sorgere di analisi concrete della natura. Si diceva che gli umanisti o gli autori del periodo rinascimentale avrebbero avuto un interesse pressoché esclusivo per la conoscenza morale, per la retorica e per ambiti diversi dalle scienze naturali. Si tratta di uno schema vecchio, oggi superato. Ci si è infatti resi conto che il Rinascimento non è affatto solo concentrato sui problemi dell’arte, della letteratura, della religione o della politica ma che al contrario vede accendersi l’attenzione per il mondo degli artigiani, dei tecnici. Sarebbe anzi un periodo storico contraddistinto da un nuovo atteggiamento tecnico-operativo. L’atteggiamento degli uomini, nei confronti della realtà che li circonda, è fortemente operativo e attivo. La scienza antica è operativa e attiva? No. Aristotele pensava fosse una conoscenza contemplativa e diceva che una conoscenza, per essere scienza, non deve essere utile. La scienza non deve essere utile. Nel periodo dell’Umanesimo e del Rinascimento si sviluppa invece un atteggiamento tecnico, che vuole trasformare la natura e di conseguenza anche il metodo della scienza, il modo in cui si fa scienza. Se la scienza è contemplazione della realtà allora è chiaro che avrà certe regole di metodo. Se la scienza invece è trasformazione della realtà, allora avrà altre regole. Per trasformare la realtà si rinuncia a far coincidere la scienza con la ricerca di teorie generalissime, volte a spiegare tutto l’universo. La scienza di Aristotele è inutile e tale deve essere ed è scienza degli universali. La scienza che vuole trasformare il mondo rinuncia a spiegare tutto l’universo: la necessità è quella di ottenere risultati utili, cosa costringe gli scienziati a restringere il proprio ambito di indagine. Ci si accontenta delle conoscenze particolari, che possono essere utili per trasformare un certo ambito di fenomeni. Non posso aver presa su tutto l’universo ma posso farcela se analizzo un certo ambito di fenomeni. Perché la scienza acquisisce questa dimensione operativa-attiva ed ha di mira la presa sui fenomeni concreti? Perché proprio ora? Perché per Aristotele la scienza era conoscenza inutile e ora cambia? Esistono ragioni precise, di ordine socio-economico. La rivoluzione rinascimentale modifica radicalmente il rapporto tra società e conoscenza scientifica. La società chiede allo scienziato di stare meglio: gli uomini vogliono stare meglio. Nel ‘400 sto meglio se lo scienziato mi dà mezzi di produzione più efficienti, per esempio se prevede meglio i fenomeni o mi dà conoscenze utili. Perché proprio nel ‘400 e nel ‘500 la società chiede questo allo scienziato e questo non accade prima? Perché adesso il benessere delle persone non dipende più, o in misura minore, dal numero degli schiavi ma dipende da quanto efficace è la conoscenza scientifica. Nell’antichità si sta bene quando ci sono molti schiavi. Ora sono diminuiti, nell’occidente cristiano ce ne sono pochissimi. C’è stimolo a chiedere allo scienziato competenze e strumenti che rendono la vita più comoda. Cede il divorzio, posto nell’antichità, tra scienza e tecnica: ci si avvia al contrario verso un felice connubio tra le due.
La scienza è efficace se si occupa di ambiti limitati di fenomeni che cominciano a mettere in evidenza l’importanza della matematica per lo studio dei fenomeni naturali. Sembra che nulla sia più idoneo dei numeri per stabilire i rapporti particolari tra fenomeni. Si guarda ai numeri non più come espressione della divina armonia dell’universo ma come strumenti di cui si può servire lo scienziato, diventato un vero e proprio homo faber. È una persona che ha presa sui fenomeni: li conosce, li predice, li prevede. Si moltiplicano, sull’onda di queste trasformazioni metodologiche e contestuali, le scoperte scientifiche e i progressi della tecnica (l’invenzione della stampa, l’applicazione del calcolo al commercio, i miglioramenti nella lavorazione dei metalli e del vetro, ecc). Singolarmente prese, nessuna di queste particolari scoperte fa Rivoluzione scientifica: nessuna innovazione tecnica ha di per se stessa un peso sulla cultura. Tuttavia, quello che comincia a muoversi nel mondo delle tecniche, preso nel suo complesso, pone alla cultura dell’epoca problemi e questioni interessanti. Il primo problema è quello della formazione: come formare i nuovi scienziati? I tecnici, finora, si erano formati nelle botteghe, nella pratica artigianale. I tecnici formati nelle botteghe non sono più capaci di risolvere, con le loro competenze, le questioni sempre più complesse poste da quella pratica artigianale medesima, perché sono questioni che richiedono competenze matematiche che il tecnico artigiano non ha. La società ha fretta, non tollera ritardi: oramai il benessere e la ricchezza dipendono strettamente dallo sviluppo delle competenze tecniche e scientifiche. Di qui la necessità di formare una nuova figura, quella dello scienziato ingegnere: usiamo un termine anacronistico che però rende l’idea della nuova figura che studia la natura secondo nuove regole e che non è affatto interessato a cogliere i principi dell’universo. Sa prevedere il corso dei fenomeni, descrivendoli nei particolari in modo esatto, li sa controllare e riprodurre, regolandoli a suo vantaggio.
L’importanza delle edizioni critiche. La figura di Leonardo e dello scienziato ingegnere. Scienza e magia.
Abbiamo parlato di scienziati ingegneri. Ingegnere è un termine anacronistico, all’epoca non è il termine con cui questi intellettuali si definivano. È una figura di rottura col passato, è una figura che non è lo scienziato dell’antichità, né il tecnico o l’artigiano ma è colui che realizza una sintesi feconda tra scienza e tecnica. Il primo problema che bisogna puntare a risolvere è come formare l’ingegnere, quale percorso di studi è per lui necessario. È il fenomeno dell’Umanesimo che fornisce un aiuto prezioso. Perché gli umanisti, che sono dei letterati, dotati di competenza filologica, sono di aiuto? Perché presentano in forma filologicamente avvertita i testi degli scienziati antichi e così ne rendono possibile uno studio critico e approfondito. Questo fenomeno va tenuto presente per comprendere l’alto livello da cui nel Rinascimento si parte per andare avanti e la rapidità con cui gli scienziati procedono. Ci si avvale dei testi antichi, dei grandi trattati della scienza antica che vengono per la prima volta tradotti – prima circolano i manoscritti, poi con l’invenzione della stampa vengono pubblicati in forma filologicamente avvertita. Tra ‘400 e ‘500 i filologi, per la prima volta nella storia dell’umanità, mettono a disposizione degli scienziati delle edizioni critiche dei grandi testi della scienza antica. Che cos’è un’edizione critica e che differenza c’è tra un’edizione critica e un codice medievale? Perché la messa a punto di edizioni critiche dei grandi trattati del passato da parte di filologi ed umanisti fa fare un balzo in avanti alla scienza rinascimentale? Anche prima circolavano codici trascritti dai monaci medievali dei grandi trattati dell’antichità. I codici medievali furono strumenti importanti perché il sapere scientifico dell’antichità non andasse perso. L’edizione critica è un’edizione che confronta le varie versioni che sono circolate di una certa opera, come quelle di Apollonio, Galeno, Ippocrate. Durante il medioevo i monaci hanno trascritto questi trattati dell’antichità preservandoli dalla perdita e dalla rovina. Cosa si trovano tra le mani gli umanisti, i filologi che lavorano tra ‘400 e ‘500? Si trovano tra le mani una certa quantità (4,5,6,7) di versioni della stessa opera. Come si arriva ad un’edizione critica? Confrontando parola per parola, frase per frase tra loro le varie versioni di queste opere. Cosa vuol dire confrontare le varie versioni (o meglio i vari testimoni) di un’opera?
Facciamo un esempio banale. Poniamo che di un trattato esistano tre testimoni. La frase in questione è:
Testimone A: oggi è mercoledì 19 febbraio 2014.
Testimone B: oggi è giovedì 19 febbraio 2014.
Testimone C: Domani andremo a mangiarci un gelato.
Dobbiamo costruire, sulla base del confronto, quale frase inserire nell’edizione critica. Per fare un’edizione critica non basta essere filologi, non basta un’operazione meccanica di confronto, come potrebbe fare un computer. Sono necessarie competenze nel merito. La prima competenza nel merito è data dal fatto che sappiamo che oggi è mercoledì. Il testimone B non funziona, comincia ad essere vacillante. Il testimone C dice tutt’altra cosa, non è sbagliata, ma è tutta un’altra. Chi fa l’edizione critica deve scegliere criticamente. Non si rispetta meccanicamente ciò che hanno scritto i monaci medievali, ma devo scegliere. Una volta scelto, offro all’ingegnere un prodotto valido sulla base di competenze. Nelle sue mani metto qualcosa che gli consente di partire da un punto di vista più avanzato rispetto a quello che poteva dare il monaco medievale. La differenza tra il monaco medievale e il filologo umanista è un po’ la differenza che passa tra uno scanner e uno studente che prende gli appunti di un altro e li trascrive. Lo scanner acquisisce la pagina prima come immagine e poi la copia. Quando invece copiamo gli appunti di un altro e li trascriviamo, essendo noi stati presenti a lezione, non copieremo tutto pedissequamente, ma scegliamo e correggiamo gli errori. Il monaco è come lo scanner, a volte è stanco e nel caso C può essere successo che ha saltato una riga. L’espressione corretta è salto dell’occhio: il monaco passa le giornate a trascrivere, può essere stanco e aver saltato una riga. A questo punto interviene il filologo a ricostruire il testo. Un’edizione critica è un’edizione ricostruita di una grande opera del passato: alla fine non si ripete né il testimone A, né il B né il C ma si propone qualcosa che spera di avvicinarsi il più possibile a quella che era l’intenzione del grande scienziato antico. È uno strumento critico, non meccanico: non è una copiatura meccanica ma ci avvicina ai contenuti della scienza antica meglio di quanto potevano fare i monaci e che ci libera dagli errori delle trascrizioni dei monaci. In tal modo si mettono in condizione gli ingegneri di raggiungere un alto livello di competenze e di poterlo fare in fretta. È nota la metafora dei nani sulle spalle dei giganti: i moderni sono nani rispetto agli antichi ma si collocano sulle spalle degli antichi, vedendo più in là.
In questo periodo su cosa si lavora? I filologi tra ‘400 e ‘500 lavorano sulle opere matematiche e mediche dell’antichità. L’opera che ebbe il maggior numero di edizioni e di traduzioni furono gli Elementi di Euclide. Le prime edizioni critiche sono manoscritte, collocandosi prima dell’invenzione della stampa, sino a che le abbiamo poi anche in stampa. Nel ‘500 si pubblicano Apollonio e Archimede. Uno dei primi libri dato alle stampe è il De Medicina di Celso, grande opera enciclopedica dell’antichità romana. Nel ‘500 si traduce Ippocrate ma c’è un problema di traduzione: gli ingegneri non sempre sanno il greco ma Ippocrate scriveva in greco. Si edita, si traduce e si pubblica. Nel ‘500 si colloca la traduzione latina delle opere di Ippocrate. Le opere che hanno il maggior numero di edizioni e la più ampia diffusione sono le opere mediche di Galeno. Ippocrate e Galeno sono i due massimi medici dell’antichità. Lo studio dei classici da solo non basta, ma aiuta questa nuova figura di intellettuale scientifico che ha interessi non tradizionali e che studia a fondo la matematica ma per servirsene subito nelle applicazioni. È una figura che studia la natura per riprodurla, per trasformarla. Sono intellettuali che non disdegnano la collaborazione degli artigiani. L’ingegnere non è l’artigiano: conosce i limiti del saper fare degli artigiani ma non disdegna quanto può venirgli dal saper fare degli artigiani. L’ingegnere riflette sull’esperienza dell’artigiano, mentre allo scienziato aristotelico non importa nulla, non ci perde un secondo. Questo segna l’avvento di una mentalità nuova che trova un clima confacente nell’esaltazione umanistica dell’homo faber e nella concezione cioè operativa ed attiva dell’intellettuale. L’affermarsi di questa nuova figura di intellettuale che sa e sa fare, conosce la realtà e la trasforma, porta ad una interessante rivalutazione del ruolo sociale dello scienziato. Abbiamo una netta crescita della figura professionale dello scienziato ingegnere perché l’ingegnere è capace di fornire subito ciò di cui la società ha bisogno: la società riconosce l’abilità dell’ingegnere e lo retribuisce. Il fatto di essere retribuito è importante: la scienza aristotelica era inutile, perciò non era retribuita. Se lo fosse stato, non sarebbe stata scienza. Ora non solo la scienza è utile ma chi possiede la scienza ha un ruolo sociale elevato perché la scienza viene pagata: le prestazioni dell’ingegnere sono retribuite. L’ingegnere è un personaggio ufficiale, retribuito ed ammirato. È mantenuto dalle corti dell’epoca perché è capace di soddisfare i bisogni. Certo non quelli della collettività perché all’epoca dei bisogni della popolazione non si interessa nessuno. L’ingegnere sa rispondere ai bisogni dei duchi e ciò innesta un circolo virtuoso: il nuovo prestigio di questa figura professionale attira nuove energie, con effetti di ricaduta ovvia sugli studi. I giovani migliori si indirizzano in quella direzione e lo sviluppo delle conoscenze cresce notevolmente. La figura in cui, nel modo più eclatante, confluiscono le caratteristiche fondamentali della cultura umanistico-rinascimentale è Leonardo da Vinci. Per la sua vicenda biografica, per il tratto della sua opera, per il suo lavoro di scienziato e di intellettuale è l’esemplare tipico della nuova figura di intellettuale scientifico. Intanto Leonardo è sensibile a ciò che matura nel mondo dei tecnici. Leonardo nasce scientificamente ed intellettualmente all’interno di una bottega artigiana. È anche capace di assimilare e di attingere alle idee filosofiche e alle teorie elaborate dall’umanesimo filosofico, in primis il parallelo tra l’uomo e l’universo. È un tema tipico dell’Umanesimo filosofico: la cosa ancora più interessante è vedere come Leonardo fonda e sviluppa questo parallelo. Lo fa non su considerazioni filosofiche generali ma su analogie di costruzione. Leonardo ci dice che il macrocosmo e il microcosmo sono costruiti in modo analogo: l’uomo e l’universo hanno analogie di costruzione e costituzione importanti. Leonardo rifiuta di entrare in dispute metafisico-teologiche e prende dalla tradizione filosofica ciò che gli interessa. La storiografia tradizionale ha studiato Leonardo vedendo in lui il precursore di Galileo: si tratta di aspetti folkloristici che ci interessano poco. Quello che invece ci interessa è capire perché Leonardo ha studiato certi settori della scienza del suo tempo e come. Leonardo studia la dinamica e i fenomeni del movimento, come i movimenti delle acque. Leonardo studia problemi di idraulica e lo fa perché la corte granducale di Milano lo retribuisce per costruire la rete di canali attorno a Milano. Ci si occupa di idraulica, sviluppando competenze teoriche di quel settore limitato per ricavarne in fretta un’applicazione pratica. Il granduca di Milano mantiene Leonardo perché lui sa far correre l’acqua nei canali senza farla stagnare, ma facendola correre. È interessante notare che Leonardo sceglie di studiare più ambiti di fenomeni ben delimitati, studiandoli in modo concreto, con fondamento matematico e ne trae conoscenze utili, efficaci che trovano subito applicazione in ambito tecnico. Le intuizioni di Leonardo non rimangono mai sul piano teorico ma si traducono sempre in realizzazione tecnica, pratica. È il caso più esaltante della dialettica ben riuscita tra scienza e tecnica. Pensiamo all’uso sistematico del disegno nell’opera di Leonardo: Leonardo mette la sua abilità grafica e pittorica per studiare i fenomeni naturali. Leonardo disegna i fenomeni naturali per riprodurli: la sua non è mai pura osservazione ma è sempre interrogazione della natura, di cui si coglie il modello per trasformarla. Si disegna per fissare la realtà, per comprendere meglio lo schema che fa muovere la realtà e conoscendola meglio si riesce ad agire su di essa.
Leonardo ha definito se stesso “homo sanza littere”, cioè illetterato, giocando sulla sua nascita illegittima, sul fatto di essere stato portato, più che ragazzino, in una bottega e quindi di non aver avuto un percorso formativo tradizionale. Leonardo non fu affatto un illetterato perché conosceva bene i classici, che lesse sicuramente. Considerò come propria guida e modello Archimede. La scelta di Archimede è signficativa. Archimede è una delle rare figure di scienziato dell’antichità che sta agli antipodi di come Aristotele aveva concepito gli scienziati: Archimede incarna quella mentalità di scienziato ingegnere che conosce la natura per dominarla. Il fatto che Leonardo sostituisca Archimede al solito modello, cioè Aristotele è il segno di una stagione intellettuale che sta andando in una direzione diversa rispetto al passato. Presto quella stagione avrebbe aperto la strada alla concezione del mondo tipica della scienza moderna. I progressi incontestabili della scienza del ‘400 e del ‘500 e il moltiplicarsi delle invenzioni tipici di questo periodo di per sé non segnano ancora la nascita vera e propria della scienza moderna ma ne sono una premessa importante. La nascita della scienza moderna non è tanto caratterizzata da un moltiplicarsi di risultati particolari ma consiste in una svolta di rottura che investe la concezione del metodo, la concezione di cosa sia scienza e la concezione dell’uomo nella natura, cosa che avverrà solo nel ‘600 e solo con Galileo. Un altro tratto distintivo della scienza di questo periodo può apparire sconcertante: accanto allo studio dei classici per trasformare la natura, all’incontro fecondo di scienza e tecnica e all’affermarsi della figura dell’ingegnere rinascimentale è coltivato un gruppo di indagini che oggi qualificheremmo come non scientifiche. Se guardassimo al ‘500 come al nostro passato e non come al presente degli uomini di quel tempo, dovremmo dire che accanto alla matematica si coltivavano indagini che con la scienza non avevano nulla che fare e che invece loro ritenevano affini alla ricerca scientifica, come nel caso dell’astrologia, dell’alchimia e della magia. È un periodo di compresenze strane: accanto all’ingegnere, all’idraulico e al meccanico stanno l’astrologo, il mago, l’alchimista. Non pochi personaggi di questo periodo unirono nella loro vita un’importante attività scientifica e un altrettanto importante attività come medici o maghi. Una figura signficiativa in questo senso è Gerolamo Cardano (1501-1576) che è stato grande matematico, medico e mago. Faceva gli oroscopi, era un grande astrologo. Dalla tesi diffusa per cui tutti i fenomeni naturali fossero tra loro interconnessi era facile passare ad ammettere che gli astri, che sono corpi naturali, potessero esercitare delle influenze sulle vicende del mondo naturale ed umano. Non c’è ripugnanza intellettuale nei confronti della magia, dell’astrologia, dell’alchimia. Ci sono differenze tra questi tre settori: le indagini alchimistiche posseggono una caratteristica specifica assente nel lavoro dell’astrologo. L’astrologo non può intervenire sul corso dei fenomeni, si limita a prevedere: studia un fenomeno naturale, prevede un corso dei pianeti ma non può modificarlo. Potrà solo consigliare che una certa impresa venga compiuta o meno in un certo momento a seconda delle congiunzioni astrali. L’alchimista può fare di più: può combinare gli elementi e creare dei composti perché conosce le loro caratteristiche e forze, cosicché sia anche capace di modificare le loro influenze sui corpi naturali e sull’uomo in particolare. E’ un sapere che sta agli antipodi di quella concezione democratica di cui si diceva a proposito della scienza moderna: è un sapere esoterico, che viene conservato gelosamente per sé e per gli adepti da chi lo possiede. Non è un sapere che voglia convincere gli altri o metterli in condizione di ripetere. Questo vale per l’astrologo, l’alchimista e il mago.
Chi è il mago? Il mago nel ‘500 è chiunque riesca a provocare degli eventi singolari, particolari orientando le forze occulte della natura. Le forze occulte sono forze comunque naturali, ma occulte, cioè nascoste. Solo il mago può orientare a suo vantaggio queste forze nascoste.
C’è una comunanza di origine tra l’interesse dello scienziato per i fenomeni naturali e quello del mago: ci sono dei punti di contatto, come la curiosità e l'operatività – il mago vuole conoscere per modificare, o per prevedere nel caso dell’astrologo. Si condivide l’idea che il sapere deve essere operativo ed attivo. Se il mago ha credito, spazio e credibilità è perché il suo spazio è tanto più largo quanto più stretto è lo spazio di efficacia della scienza. Oggi il terreno del mago è stretto, ma c’è ancora. Il mago è più efficace sulla natura di quanto non lo fosse l’uomo comune dell’epoca. Questa situazione, per noi contraddittoria, rappresenta l’humus dal quale nasce l’autentica osservazione scientifica. Compito dello storico non è interrogarsi su cosa è corretto o scorretto ma capire perché cosa interverrà a separare magia e scienza che finora sono andate a braccetto: quando, come e perché il cammino della scienza si separa dalla magia? Non si deve pensare che scienza e magia si separino d’un tratto. Ciò che risulta decisivo sarà il fatto che la scienza diverrà sempre più feconda di applicazioni interessanti. Lo scienziato agisce in modo più efficace, trasforma la natura in modo più efficace di quanto non faccia il mago. I due percorsi, quello della magia e della scienza, cominciano a divergere e la fiducia verso la magia viene meno per ragioni di efficacia e di presa sulla realtà. Diventa evidente che la scienza è più efficace per ampliare il dominio sui fenomeni naturali.
Metodo deduttivo, induttivo, ipotetico-deduttivo. Il meccanicismo.
La Rivoluzione scientifica non è qualcosa che si pone come la nascita di un fungo, che sorge in una notte: alchimia e magia non vengono ad un tratto spinte fuori dal contesto delle ricerche serie ed accettabili ma la fiducia nei loro riguardi si sgretola nel tempo, a mano a mano che le discipline scientifiche diventano sempre più efficaci e feconde di applicazioni sempre maggiori. La frattura tra scienza e quella che oggi si definisce non scienza diventa sempre più chiara perché diventa sempre maggiore l’efficacia degli scienziati sui maghi. La maggiore efficacia delle discipline scientifiche sulla magia viene da quell’alleanza feconda tra scienza e tecnica. Siamo in un periodo storico in cui la società preme sugli scienziati per conoscenze sempre più efficaci, da cui dipende il benessere della società. I sovrani retribuiscono gli apporti sicuri della razionalità tecnico-scientifica e non le pratiche incerte del mago. Il periodo tra ‘400 e ‘500 è un momento di ribellione, di contestazione del passato e di messa alla prova del sapere precedente. Si è detto che l’ingegnere fa il grande balzo perché è un nano sulle spalle di giganti: è vero, ma l’umanista e l’ingegnere si basano sulle edizioni critiche, sul sapere critico, costruito con metodo critico e che può essere criticato. È un’epoca storica simile al ’68: è un momento di ribellione contro i limiti del sapere tradizionale. La ribellione agisce a seconda del contesto: nell’ambito delle scienze della vita (le materie mediche), le grandi università dell’epoca (che sono essenzialmente quelle di Padova e di Bologna) hanno come bersaglio i grandi medici dell’antichità, come Galeno. La scienza si sente libera di ripudiare qualunque teoria del passato, per quanto antica ed autorevole, quando non quadra con i fatti osservati. Il ‘500 è un secolo in cui si sviluppa massimamente la curiosità: l’osservazione è sviluppata al massimo, l’imperativo è osservare con scrupolo, senza mescolare ai dati dell’osservazione un’interpretazione precostituita. Questo è ciò che sostiene la ribellione degli anatomisti, nei confronti della grande trattatistica medica del passato (Galeno in particolare) ed è ciò che sostiene la ricerca di alcuni matematici che coltivano l’algebra in particolare (algebristi) che non si limitano a studiare e riprendere i grandi matematici dell’antichità (Apollonio, Archimede) ma provano che la matematica moderna può superare le difficoltà e risolvere problemi dinanzi a cui la grande matematica antica si era arenata. Una delle discipline da cui prenderà avvio la nuova scienza è la meccanica: i progressi realizzati da tutte le altre scienze che applicano i metodi della meccanica indicano che la strada è quella giusta e che per penetrare i segreti della natura è necessario un inquadramento meccanico, tendenzialmente quantitativo, dei fenomeni naturali, che risulta essere più efficace della scienza tradizionale di tipo aristotelico o da qualsiasi magia naturale.
È un periodo di attacco al passato, di non riconoscimento dell’autorità del passato, per quanto grande questa può essere stata. Quali sono i metodi per far scienza che gli uomini del ‘500 hanno a disposizione? La conoscenza della natura, fino a questo punto, era sempre oscillata tra due poli opposti: il primo consiste nell’elaborazione di teorie generali, mirate a cogliere i principi primi della realtà, dai quali dedurre e spiegare tutti i fenomeni naturali. È questo un metodo deduttivo: pongo pochi, generalissimi principi e da questi deduco i fenomeni naturali. Aristotele aveva posto la categoria di leggerezza, da cui spiegare tutti i fenomeni che avevano questa proprietà generalissima. È facile spiegare perché il fuoco sale verso l’alto: il fuoco è dotato della proprietà della leggezza, i corpi dotati della leggerezza salgono verso l’alto e di conseguenza anche il fuoco si comporterà così. Oltre al metodo deduttivo c’è il metodo induttivo, per cui si cerca di descrivere un settore limitato di esperienza concreta, quindi un settore limitato di fenomeni naturali, in modo da ricavarne qualche orientamento pratico per le nostre azioni. Osservo, ad esempio, il fenomeno della pioggia. La osservo un giorno, poi l’altro e l’altro ancora: osservo che quando piove il cielo è grigio e sento umidità e da qui cerco di ricavare una regola per capire quando piove. Pioverà allora quando il cielo è grigio e quando ho la percezione dell’umidità: ecco la regola. Nel primo caso ha un ruolo preminente la ragione, rispetto all’esperienza: pongo il concetto di leggerezza e spiego deduttivamente i fenomeni naturali. Nel secondo caso il discorso si rovescia: ciò che importa sono le osservazioni moltiplicate, importante è la sensibilità e la capacità di osservazione. Grande rilievo è data alla sensibilità, da cui lo scienziato ricava qualche regola per dominare i fenomeni.
La nascita della scienza moderna, che si colloca comunque nel ‘600, quindi nel secolo successivo rispetto a quello che stiamo considerando, dimostrerà che è possibile un terzo approccio al problema della conoscenza scientifica. Secondo questo terzo approccio l’elaborazione teorica (quindi la razionalità) e l’osservazione (la sensibilità) riescono ad intrecciarsi in modo inscindibile, con vantaggio reciproco, producendo teorie di forte struttura razionale che si legano alla verifica sperimentale. Il legame con la verifica sperimentale darà, alle conoscenze acquisite in questo modo, un carattere di provvisorietà: l’emersione di fatti nuovi costringe lo scienziato a modificare la sua teoria. Le rettifiche non comporteranno però mai l’abbandono completo della teoria ma l’allargamento della stessa: ci sono teorie vere, ma non assolute, non onnicomprensive. Una teoria che ha una solida struttura matematica e che si espone alla verifica sperimentale è debole o forte? È forte, anche se sempre potenzialmente soggetta a revisione. La terza via si chiama metodo ipotetico-deduttivo: osservo, costruisco una teoria di struttura matematica, che ha ancora una dimensione ipotetica. Mi libero della dimensione ipotetica con la verifica sperimentale, che dà però un carattere di provvisorietà. Sono teorie forti e provvisorie: è la provvisorietà la loro forza. Una scienza che elabora teorie provvisorie ammette progresso. La scienza, fino all’elaborazione del metodo ipotetico-deduttivo, esclude da sé l’idea di progresso (così faceva la scienza aristotelica). È dal ‘500 che nasce l’idea della possibilità del progresso scientifico, cosa non scontata. La scienza aristotelica non conosce progresso perché qualunque pioggia occasionata dal 99% di umidità la distrugge: la scienza è vera, non ha storia, non ha progresso. Il fuoco sale verso l’alto perché è leggero. Se la mia teoria è che i corpi leggeri sono tali perché sono dotati del principio generalissimo della leggerezza e che quindi vanno sempre verso l’alto non può accadere che un corpo leggero vada verso il basso. Se la scienza è conquista della verità, se non accetta di essere provvisoria, la scienza non è progresso. Fino al ‘500 la scienza non è concepita come suscettibile di progresso: o è o non è. Una scienza che interpreta se stessa secondo il metodo deduttivo non ha storia, né progresso: non concepisce la possibilità di allargare se stesso. Viceversa, le nuove teorie elaborate nel ‘600 saranno teorie forti perché la scoperta dei fatti non immediatamente inquadrabili nella teoria non la distruggono: la teoria è elastica, accetta e aspetta il fenomeno che la rimette in discussione: il fenomeno che la rimette in discussione non la distrugge ma fornisce qualcosa di prezioso per autocorreggerla, per andare avanti. È un processo conoscitivo che accetta la propria incompletezza e che si mette nelle condizioni migliori per poter progredire. Il ‘600 è il periodo in cui sorge e s’afferma quel complesso di metodi e di concezioni epistemologiche che oggi designiamo con il termine unico di scienza moderna. La scienza del ‘600 è rivoluzionaria per l’azione di rottura rispetto al passato che compie e per lo sviluppo impetuoso che la nuova epistemologia conferisce a quasi ogni disciplina. La scienza nel ‘600 è rivoluzionaria per i nuovi metodi e la nuova concezione che gli scienziati hanno della scienza piuttosto che per i suoi contenuti, per le scoperte – pur numerose e importanti – alle quali i nuovi metodi hanno dato luogo. È un atteggiamento nei confronti della realtà umana che si è elaborato faticosamente e che comincia con quell’atteggiamento rivoluzionario tipico del ‘600.
Cosa è necessario fare per elaborare, per far proprio il metodo ipotetico-deduttivo? Si tratta di capire che bisogna distaccarsi da teorie conseguite trasformando in concetti astratti quelle che sono qualità sensibili, ricavate a livello della percezione. Bisogna liberarsi di una prospettiva qualitativa per sforzarsi di conseguire un’interpretazione quantitativamente connotata dei fenomeni. Non è cosa che nasce in una notte ma che affonda le sue radici nei secoli precedenti. Fin dalla seconda parte del medioevo c’erano stati tentativi di contestazione della dinamica aristotelica: una scuola di fisici parigini aveva criticato l’aristotelismo, ma senza intaccare l’epistemologia aristotelica. Abbiamo già visto che il lavoro degli umanisti ha liberato la grande trattatistica della scienza antica dalle deformazioni che tali trattati avevano avuto nei secoli medievali. L’approccio critico del filologo si traduce nell’approccio critico dello scienziato: come il filologo ha depurato il testo dagli errori che si sono sovrapposti nelle copie medievali, così lo scienziato pone il testo antico medesimo, già sacro ed inviolabile, alla prova dell’esperienza. Si interroga direttamente la natura per superare le discordanze che eventualmente esistono tra i testi della scienza antica. In quest’epoca di contestazione si perdono l’ordine e la sistematicità tipiche della scienza aristotelica, ma manca qualcosa con cui sostituire quell’ordine e quella sistematicità. Dopo secoli si osa dire che la scienza aristotelica mostra delle crepe: mostra delle crepe sia perché si è verificato sperimentalmente che ci sono degli errori e sia perché l’epistemologia aristotelica è debole. È falso che il metodo deduttivo spieghi i fenomeni naturali ponendo delle categorie generalissime ed astratte. Come le ha costruite? La leggerezza l’ha posta la ragione? No, non l’ha posta la ragione, ma la sensibilità. Cosa finge il metodo deduttivo? Finge di porre, con la pura ragione, il concetto di leggerezza, per poi spiegare i fenomeni leggeri. In realtà ha osservato, magari molte volte, che il fumo sale verso l’alto, come il fuoco: ma non l’ha osservato con la ragione, bensì con gli occhi. Ha preso qualità semplicemente sensibili e le ha entificate, trasformandole in entità generali ed astratte.
Distrutto Aristotele e l’epistemologia aristotelica tra la seconda metà del ‘400 e il ‘500, non si ha ancora qualcosa di altrettanto solido e potente. Ecco che si spiegano tante cose della cultura cinquecentesca che già abbiamo visto, come l’assenza di ripugnanza concettuale nei confronti della magia. Non si hanno regole per dire cosa è scienza e cosa non lo è, quindi vanno bene sia il mago che l’ingegnere. L’ingegnere va già un po’ meglio, perché è un po’ più efficace, ma non si sa perché. Perché una spiegazione tendenzialmente matematizzante è più efficace? La scienza del ‘500 non lo sa. È un quesito che si pone il secolo successivo e al quale cercherà di rispondere il ‘600. Distrutto l’aristotelismo, non rimane che la curiosità: il ‘500 è un secolo di curiosità, di bulimia osservativa. Si osserva tutto e osservando tutto la curiosità è ulteriormente alimentata, soprattutto da fenomeni stravaganti ed inconsueti. La curiosità però non riesce a tradursi in nuove teorie solide. Caduta la frattura tra scienza e tecnica, gli scienziati non disprezzano aristotelicamente le arti meccaniche. Tuttavia le macchine sono ancora viste come entità globali, come dei grossi animali, non si ragiona su come sono costruite o sul perché funzionano. Distrutta la metafisica, la fisica e l’ontologia aristotelica i rinascimentali si trovano senza fisica, metafisica ed ontologia o quasi. Mancano criteri di verità solidi: ne deriva un’apertura totale, ma anche una credulità senza limiti. C’è una fede cieca nei confronti dell’immediatezza del dato sensibile, un vivo interesse per la multiformità del reale che spiega la grande diffusione delle pratiche magiche. Ci sono grandi sperimentatori che sono anche osservatori e maghi: non soffrono del fatto di avere, nella propria figura professionale, aspetti per noi contrastanti. Fanno oroscopi e studiano equazioni di terzo grado. Keplero fa oroscopi, a Galileo si chiedono gli oroscopi.
Gli storici si sono interrogati su ciò che ha giocato un ruolo di importanza sulla nascita della scienza moderna. Alcuni storici hanno insistito sul venir meno del principio di autorità, la fede cieca nei confronti dei libri del passato: l’esaltazione delle capacità e della ragione umana, l’esaltazione dell’autonomia della ragione umana che si collega all’Umanesimo, che esalta la ragione e la libera dai limiti è un fattore importante. Il pensiero antico serve, ma se viene vagliato e all’occorrenza modificato.
Si acquisisce l’idea che la scienza è sapere progressivo e collettivo. La scienza non è l’opera del singolo, grande eroe della scienza ma è qualcosa che si costruisce, che implica una rete di collaboranti e questo è qualcosa che nasce, che trae origine dal mondo delle botteghe artigiane, in cui c’è il maestro e una rete di allievi.
Altro fattore su cui gli storici hanno insistito è la nuova concezione, che si delinea nel ‘500 e si sviluppa nel secolo successivo, dell’universo infinito: è un cosmo non più finito, come per Aristotele, ma infinito, che fa tutt'uno con l’idea di un sapere illimitato, senza confini.
Ancora, si insiste sull’importanza della matematizzazione dei fenomeni naturali: in realtà questo comincia già nel tardo medioevo.
La nuova scienza conquista una funzione apologetica: la scienza è al servizio della religione. Alcuni storici hanno messo in evidenza come la conquista del nuovo metodo scientifico e l’imbrigliamento dei fenomeni naturali in una nuova razionalità conferiscano alla scienza una funzione apologetica. La nuova scienza stabilisce un nuovo metodo ed una nuova epistemologia e individua leggi precise, stabili per inquadrare i fenomeni naturali. Se noi poniamo delle leggi ai fenomeni naturali salviamo la possibilità del miracolo. L’evento miracoloso è quello che va contro la possibilità della spiegazione scientifica poiché si colloca al di fuori delle leggi naturali, è contro il corso naturale degli eventi. Perché alcuni storici hanno insistito sul fatto che la nuova scienza, stabilendo leggi precise, può avere una funzione apologetica, che invece si era un po’ persa nel ‘500? Nel ‘500 possiamo parlare di miracoli? Nel ‘500 non c’erano leggi ferme e stabili, quindi tutto poteva potenzialmente essere un miracolo, tutto era possibile. Se tutto è possibile, non è più possibile il miracolo. Nel momento in cui, invece, la nuova scienza costruisce leggi solide e stabili salva la possibilità del miracolo. Pone un freno a certe deviazioni irrazionalistiche a cui nel ‘500 il sapere si espone, avendo perso la bussola dell’aristotelismo.
A tutti questi fattori dobbiamo aggiungere un elemento ancora più globale, di presa ancora forse più incisiva, dato dal meccanicismo. È una concezione che investe non solo tutte le discipline scientifiche del tempo ma che arriva a condizionare il modo di pensare del secolo e tutta la cultura del XVII secolo. Il meccanicismo è la rivendicazione dell’autorità della ragione sull’autorità storica, che si fonde con la nozione di progresso, che accoglie quindi il tema della matematizzazione della natura e che su questa base costruisce regole, leggi precise e rigorose. È un nuovo aristotelismo: dell’aristotelismo rivendica la dimensione umana. È un nuovo razionalismo, che però dell’aristotelismo rifiuta quell’approccio deduttivo alla realtà naturale a causa dell’inganno di cui si è detto. Liberarsi di quell’approccio deduttivo è stata forse l’impresa più difficile per la nascente scienza meccanicistica del ‘600. L’approccio deduttivo è difficile da sradicare perché ha a proprio vantaggio il prestigio secolare della tradizione aristotelica. Oltretutto è un modo di spiegare i fenomeni naturali più vicino al senso comune, all’evidenza immediata dell’uomo comune: è comune pensare che il fumo, in quanto leggero, vada verso l’alto e la pietra, perché pesante, tenda al basso. Una spiegazione dei fenomeni naturali che pone dei concetti generali che sono in realtà delle qualità entificate da cui dedurre i fenomeni naturali è quanto di più spontaneo esista. Combattere contro la concezione essenzialistica e qualitativa della realtà è cosa difficile, mentre il principio di autorità era già stato posto in crisi. Ma perché chiamiamo questa nuova concezione del mondo meccanicismo? Meccanicismo deriva da meccanica: nel ‘600 si esalta ed amplifica il carattere privilegiato che la meccanica ha da qualche decennio rispetto alle altre scienze empiriche. Perché la meccanica fa progressi rispetto ad altre scienze? Perché è nella fortunata posizione di trattare del movimento dei corpi in generale. La meccanica studia la materia nelle sue condizioni più semplici: non studia i corpi gialli o verdi ma la materia in movimento. I successi conseguiti dalla meccanica sono uno sprone per altre discipline, soprattutto uno sprone per la riflessione epistemologica e metodologica sul perché le discipline che ne assumevano metodi e procedure cominciavano a galoppare. C’è un carattere esemplare della meccanica che pone le basi del meccanicismo come generalizzazione dei metodi e delle leggi della meccanica. Il meccanicismo dà portata universale ai principi fondamentali della meccanica. Leggi e principi della meccanica devono essere estesi a tutti gli ambiti di fenomeni naturali di cui le altre scienze si occupano. È una rivoluzione: in certi ambiti la cosa può sembrare facile da accettare, ma per un uomo della prima metà del ‘600 si trattava di applicare la meccanica anche allo studio dei movimenti che avvengono all’interno del corpo umano: studiare il movimento del cuore secondo le leggi della meccanica non è qualcosa di spontaneo. Il meccanicismo è dare portata universale ai principi della meccanica: significa ridurre tutta la realtà naturale a una struttura materiale di corpi in movimento. Tutto dev’essere interpretato secondo le leggi che regolano il movimento dei corpi: il cuore e lo stomaco si muovono come le leve o i pianeti. Le leggi che regolano il movimento della Luna sono le stesse che regolano il movimento del sangue nelle arterie. Occorre risolvere ogni fenomeno in una serie di operazioni più comprensibili: ogni fenomeno deve perdere di specificità, altrimenti non è possibile trovare una legge che ne regoli il comportamento. Occorre allora liberarsi dalla curiosità e dalla bizzarria che aveva contraddistinto il secolo precedente.
La nuova spiegazione dei fenomeni naturali fa tutt'uno con una valutazione dinamica della realtà: la realtà è materia in movimento. Non c’è più una valutazione statica dei corpi, come suggerito dalla concezione aristotelico-tolemaica. Strettamente connessa a questi principi fondamentali del meccanicismo è la scoperta della macchina come modello teorico di indagine. Come l’artigiano costruisce macchine, così lo scienziato costruisce teorie. Alle spalle sta la fine del divorzio tra scienza e tecnica: il ‘500 ha posto fine al disprezzo nei confronti delle tecniche. Nel ‘500 si erano costruite macchine per alleviare la fatica e migliorare le condizioni di vita ma si era elaborata una teoria della macchina. La macchina per il tecnologo rinascimentale è una sorta di grosso animale, utile per trascinare un peso.
Il meccanicismo. La concezione cosmologica di Aristotele. La nuova cosmologia moderna.
Non possiamo dire che nel ‘500 non c’è metodo: possiamo dire che il ‘500 ancora non ha elaborato quel consolidamento della rivoluzione metodologica ed epistemologica che nel secolo successivo si accompagna alla nascita della scienza moderna. Il ‘500 è un secolo di contestazione delle metodologie del passato, è un secolo di distruzione, di superamento ma è un secolo in cui si fa scienza e si costruiscono macchine. Si costruiscono macchine, anche se non c’è una teoria della macchina. Gli scienziati hanno davanti a sé le due vie: il metodo deduttivo e il metodo induttivo e stanno cogliendo i limiti e le debolezze di entrambi. Da qui a dire che non c’è più nulla il passo è lungo.
Ci siamo fermati ieri con il concetto di macchina come modello (strumento) teorico. Cosa vuol dire per lo scienziato meccanicista fare scienza cioè trovare la regola che interpreta un determinato numero di fenomeni? Fare scienza, ossia trovare la regola che spiega un determinato tipo di fenomeni per lo scienziato meccanicista equivale a trovare il modello, la macchina che può virtualmente sostituire il fenomeno sensibile. Dobbiamo sostituire ai fenomeni sensibili – quelli che vediamo con gli occhi e tocchiamo con le mani – il modello meccanico, ossia la macchina ad essi equivalenti perché solo così possiamo realizzare l’analisi di quei fenomeni naturali. Guardando fuori dalla finestra noi vediamo una fantasmagoria di colori, una moltitudine di odori, sapori e quant’altro. Ci fermiamo lì perché non siamo scienziati e perciò non riusciamo a trovare la legge, la regola, che spiega quei fenomeni naturali. Dobbiamo sostituire alla fantasmagoria di odori, suoni e colori il modello meccanico, la macchina corrispondente. La macchina, ossia il modello meccanico, è scomponibile, analizzabile: è possibile trovare la regola che ne spiega il funzionamento, cosa che non è possibile se ci fermiamo ai colori, agli odori ed ai sapori.
La macchina, intesa come modello teorico, ripete le caratteristiche della macchina intesa come strumento tecnico. C’è un’analogia di fondo tra la macchina come modello teorico e la macchina come strumento tecnico: entrambe sono degli assemblaggi di pezzi. Perché assembliamo dei pezzi? Li assembliamo per compiere una funzione, determinata dalla posizione, dalla figura, dalla grandezza dei pezzi ossia degli elementi che vengono messi assieme. La macchina come strumento tecnico funziona solo se è costruita secondo regole precise, ossia solo se tra i pezzi assemblati c’è una relazione corretta. La macchina non funziona se abbiamo assemblato i pezzi in modo scorretto. In modo analogo funziona la macchina come strumento teorico: il modello teorico spiega il fenomeno se ha riunito gli elementi che lo costituiscono secondo la regola corretta. In entrambi i casi i pezzi della macchina o gli elementi del fenomeno naturale avranno caratteristiche puramente quantitative. Facciamo un esempio: un orologio può funzionare o meno. Da cosa dipende il suo funzionamento? Dal modo in cui sono stati assemblati i pezzi: se è corretto, l’orologio funziona altrimenti questo non accade. Abbiamo usato il termine “modo”, ma dovremo parlare di legge, di rapporti: i rapporti che intercorrono tra gli elementi determinano il funzionamento della macchina: i pezzi di un orologio non funzionante non erano corretti, tanto che l’orologio si è appunto fermato. La prova che la macchina è stata costruita male è il suo non funzionamento. Gli artigiani costruiscono macchine ponendo sul tavolo i pezzi, che vanno uniti non secondo le loro caratteristiche sensibili (il pezzo giallo con un altro giallo, il pezzo caldo con uno di temperatura analoga) ma secondo rapporti matematici: i pezzi sono incastrati secondo la loro figura geometrica. La stessa cosa fa lo scienziato: per spiegare un fenomeno naturale non assembla le caratteristiche sensibili del fenomeno stesso ma si sforza di capire quali rapporti quantitativi intercorrono tra gli elementi che costituiscono il fenomeno naturale. L’artigiano ha la prova immediata di quanto ha fatto, a seconda che la macchina funzioni o meno. Come fa lo scienziato a sapere se la correlazione che ha stabilito tra i pezzi dei fenomeni naturali è la correlazione corretta? Ecco che interviene il metodo sperimentale. Si osservano i fenomeni naturali, ma non ci si ferma alle apparenze sensibili: si scortica il fenomeno delle sue qualità sensibili, si trovano gli elementi quantitativi che lo costituiscono e si ipotizza che tra gli elementi quantitativi ci sia una regola, espressa in termini matematici. Si enuncia la legge, si stabilisce la regola che lega tra di loro gli elementi del fenomeno naturale. A questo punto si vede se il rapporto matematico stabilito tra le parti quantitative è corretto, tornando sul campo e sperimentando, cioè verificando sperimentalmente se le cose stanno effettivamente così. Ad esempio, si è stabilito che i corpi sul piano inclinato cadono con una certa velocità, con un certo moto accelerato, per cui l’aumento della velocità è proporzionale agli spazi percorsi. A questo punto si va in laboratorio, si costruisce un piano inclinato, ci si mette sopra una pallina e si vede come questa cade: se la sua velocità è conforme alla legge stabilita, questa è giusta. Naturalmente non lo si verifica una sola volta: c’è stato un noto medico e naturalista italiano che ha enunciato la cosiddetta regola del 12. Francesco Redi diceva che un’esperienza va fatta, rifatta e variata almeno 12 volte, cioè ripetuta tutte le volte necessarie in condizioni opportunamente variate. Se la velocità è quella pensata, la legge è giusta. Se non è così, la legge è sbagliata, per cui si deve ricominciare da capo. Se l’esperimento conferma la nostra legge, allora la macchina, lo strumento teorico, funziona. Lo scienziato e l’artigiano allora hanno molte cose in comune.
Il nuovo modo meccanicista di spiegare i fenomeni naturali sembra rappresentare un netto trionfo della concretezza – si parla di macchine, di strumenti – rispetto alla ragione astratta che accompagnava la ricerca tradizionale. Qui si parla di modelli meccanici, comprensibili, evidenti, dotati di contenuto immaginativo concreto: se lo scienziato deve spiegare il movimento di un braccio non bada al suo colore, ma guarda agli elementi materiali e al modello meccanico che può tenerli assieme. Può dire, ad esempio, che il braccio si muove come un insieme di leve. Enunciando le leggi che riguardano le leve, spieghiamo come il braccio si muove. La concretezza di cui i modelli meccanici sono dotati non è immediata: è una concretezza che è il risultato di una serie di operazioni della ragione, è risultato della creatività dello scienziato. Lo scienziato esce dalla porta e non si ferma ai colori, alla fantasmagoria sensibile: quella è la concretezza di primo livello. Lo scienziato scortica i fenomeni, quindi consegue macchine, modelli esplicativi dal contenuto concreto, ma alle spalle c’è un lavoro della ragione non indifferente. È una concretezza di secondo livello, non immediata, che lo scienziato si costruisce. Questo è un altro punto in comune con gli artigiani: non solo lo scienziato costruisce macchine, come fa l’artigiano ma lo scienziato costruisce macchine, modelli teorici così come l’artigiano costruisce modelli tecnici. Entrambi hanno in comune questa dimensione operativa, attiva, costruttiva, artificiale. Cos’è artificiale? L’orologio è artificiale, non c’è l’albero degli orologi, è una produzione artigianale, che scaturisce dalla mano dell’uomo. Altrettanto si deve dire delle leggi scientifiche: le leggi che la scienza elabora sono una costruzione. C’è stato uno scienziato che ha detto che fare scienza è come mettere la natura sotto tortura: la scienza è un’inchiesta. Le ricerche scientifiche sono inchieste, i fenomeni naturali vengono interrogati, anche con metodi pesanti. La natura non ci rivela nulla da sola, ma i fenomeni vanno scorticati: non c’è modo di conoscere la realtà nell’immediatezza, occorre superare l’immediatezza. Tradurre la realtà in schemi concettuali e in rapporti quantitativi è il compito dello scienziato.
Perché fare scienza vuol dire tradire gli occhi, le mani, le orecchie? Perché fare scienza significa andare alla struttura matematica dei fenomeni, che né si vede né si tocca? I tradizionalisti fecero quest’obiezione, tra ‘500 e ‘600, alla scienza che nasceva. La grande ambizione del meccanicismo è di generalizzare leggi e metodi della meccanica a tutte le discipline. Gli innovatori applicano questi metodi anche alle scienze della vita e i medici si sforzano di spiegare come funzionano i corpi viventi in questi termini. I tradizionalisti dissero che era tutto sbagliato: spiegare il movimento dello stomaco facendo riferimento a quadrati e triangoli, a loro avviso, non portava da nessuna parte. Per altro, nell’immediato, l’obiezione dei tradizionalisti era forte: l’immediato è durato per lo meno due secoli e mezzo, durante i quali la nuova struttura matematica, data ad esempio alle discipline mediche, non apportò alcun progresso. Durante il Seicento ed il Settecento la medicina pratica non fece alcun progresso e l’aver iniziato a spiegare il corpo vivente in termini meccanicisti non fece avanzare di un passo la medicina pratica. I meccanicisti diedero una risposta ad obiezioni così forti, soprattutto nell’ambito delle scienze fisiche-matematiche e tentarono di darla anche per le discipline mediche. I meccanicisti edificarono un’ontologia, una teoria dell’essere che fosse solidale rispetto al nuovo metodo. La metodologia meccanicista fu inseparabile dalla prospettiva ontologica coerente, che postulava che la realtà vera non fossero i colori, gli odori, ecc. ma gli elementi materiali di cui la struttura del reale è costituita. Alla base della nuova ontologia stava la dottrina della soggettività delle qualità sensibili. La nuova ontologia meccanicista stabilisce che il mondo concreto della sensibilità non ha riscontro oggettivo. La novità di questa dottrina, che distingue tra qualità prime e seconde, sta nel fatto che le qualità prime vengono trasvalutate, trasformate sino a creare una struttura ontologica omogenea. Ciò che c’è di reale nel mondo non sono le qualità seconde, che sono soggettive, ma è la materia, con le sue qualità prime e con la determinazione essenziale del movimento. L’osservazione delle qualità sensibili è il punto di partenza per spiegare i fenomeni della realtà: bisogna andare però oltre la sensibilità soggettiva cercando gli elementi strutturali di base, i corpuscoli (gli atomi) caratterizzati esclusivamente da qualità prime, come il peso, la figura e così via. Le qualità seconde nascono dall’incontro degli elementi costitutivi di base del reale (gli atomi, termine che verrà poi utilizzato) con la soggettività del soggetto percipiente. Se avessi occhi diversi, vedrei colori diversi: le qualità seconde dipendono dalle strutture della soggettiva sensibilità. Non si può far scienza di ciò che è soggettivo. C’è un’analogia di fondo tra lo scienziato meccanicista e Dio: Dio ha creato il mondo, lo scienziato sta creando leggi che fanno emergere la struttura matematica creata da Dio. Dio è il massimo artigiano, è un artefice che ha creato forme matematiche all’inizio del tempo. Lo scienziato riproduce, all’interno di un ambito delimitato, ciò che Dio ha fatto all’inizio del tempo. La costruzione filosofica è necessaria: se la realtà non è fatta di quadrati e triangoli collassa tutto il sistema.
Per rendersi conto della grandezza e della violenza della Rivoluzione scientifica come rivoluzione del meccanicismo è bene richiamare alcuni aspetti fondamentali del sistema del mondo tradizionale, teorizzato da Aristotele, cioè quello all’assalto del quale andrà l’astronomia di Copernico, Galilei e Keplero.
In primo luogo bisogna rifarsi alla distinzione fondativa tra mondo celeste e terrestre (o sublunare), tra moti naturali e moti violenti. Il mondo terrestre risulta dalla mescolanza dei quattro elementi fondamentali (terra, aria, acqua, fuoco). La leggerezza di ogni singolo corpo dipende dalla diversa proporzione nella quale questi elementi sono presenti: quanta più terra ed acqua ci saranno in un corpo, tanto più sarà pesante; quanta più aria e quanto più fuoco saranno presenti e tanto più il corpo risulterà leggero. Il divenire, cioè il mutamento nel mondo terrestre deriva dalla mescolanza di questi elementi: l’aria e il fuoco tendono verso l’alto, gli altri due verso il basso. Se mettiamo insieme questi elementi accade il mutamento, il divenire. Il divenire caratterizza il mondo terrestre in quanto mondo costituito dalla mescolanza di elementi diversi, che tendono verso luoghi diversi. Se gli elementi non fossero mescolati, avremmo un universo in riposo: la terra sarebbe tutta al centro, immobile; l’acqua sarebbe immediatamente sopra la sfera della terra, poi avremmo tutta l’aria e infine il fuoco. Il moto naturale dei corpi terrestri è verso il basso per i corpi pesanti e verso l’alto per i corpi leggeri. Il moto rettilineo, verso l’alto o verso il basso, dipende dalla tendenza dei corpi a raggiungere il loro luogo naturale. Siccome noi siamo costituiti da elementi leggeri ed elementi pesanti, raramente avremmo un movimento rettilineo perfetto: nel mondo terrestre ci sono i movimenti più vari, verso l’alto o verso il basso. Cosa sono i movimenti violenti? Sono movimenti che cadono sotto l’occhio dell’esperienza quotidiana, come ad esempio una fiamma che devia verso il basso. La fiamma è leggera, dovrebbe andare verso l’alto ma può intervenire una folata di vento che la fa deviare verso il basso. Le pietre, ancora, sono elementi pesanti e dovrebbero cadere verso il basso. Queste, però, possono essere scagliate, lanciate ed andare verso l’alto. Questi sono moti violenti, dovuti all’azione di una forza esterna che si applica all’oggetto costringendolo ad un movimento che ripugna alla sua natura. Cosa dimostra che il moto sia violento e che ripugni alla natura del suo oggetto? Il fatto che la pietra cada: una volta che la forza impressa viene meno, il corpo riprende la sua naturale direzione. Il concetto di moto tipico della fisica aristotelica è diverso da quello della fisica moderna o della fisica attuale: nel concetto di movimento secondo Aristotele entrano non soltanto i movimenti fisici, meccanici ma anche fenomeni che potremmo definire chimici, biologici. Il nostro mondo è dato dalla mescolanza di elementi diversi e questo porta al divenire, alla nascita, alla generazione e alla morte, alla corruzione. Non ci sarebbe nascita né morte se non ci fosse mescolanza di elementi, tipica del nostro mondo. Il mondo terrestre è il mondo dell’alterazione, del divenire, del mutamento, della nascita e della morte.
Il mondo celeste è del tutto diverso. Il mondo celeste è tutto quello che sta oltre la nostra sfera, l’atmosfera. La Terra è circondata da una striscia d’aria, che fa parte della sfera terrestre. Ciò che sta al di là è celeste: ecco perché il mondo terrestre è sublunare, perché sta sotto la sfera della luna. Il mondo celeste è ontologicamente diverso dal mondo terrestre: è fatto di una materia diversa dai quattro elementi. Questa materia è la quintessenza o etere. Se i quattro elementi sono la causa del divenire, l’etere è la sostanza perfetta: è un solido cristallino, imponderabile, perfettamente trasparente, non modificabile né soggetto a trasformazioni. Nel mondo celeste non c’è nascita né morte, non c’è divenire. Della stessa materia dei corpi celesti sono fatte le sfere solide nelle quali i pianeti sono incastonati. I pianeti sono identici, tutti fatti di materia cristallina e perfetta. Le sfere sono piene, a perfetto contatto le une con le altre: il movimento che connota i corpi celesti, essendo questi fatti di etere, è un movimento perfetto. Il movimento perfetto è circolare, perché non ha inizio né fine, non cambia mai, è a velocità costante e ritorna sempre su se stesso, per cui non c’è divenire. Questa è la macchina celeste che Aristotele teorizza e sistema come cosmo materiale. Questa cosmologia in realtà è ripresa da Aristotele, che si rifà ad un astronomo vissuto nel IV secolo a.C., Eudosso di Cnido. Se per Eudosso e per l’astronomia successiva, quella di Tolomeo, il tutto ha consistenza di ipotesi matematica, per Aristotele invece il tutto ha la consistenza di un sistema fisico: le sfere ci sono davvero e sono corpi fisici. Viceversa Eudosso aveva parlato di una costruzione puramente intellettuale, matematica e la stessa cosa la si avrà con Tolomeo, vissuto nel II secolo d.C. Le sfere aristoteliche sono enti reali, solidi, cristallini. Perché è importante tenere presente le caratteristiche della cosmologia aristotelica? Perché ci serve per capire quanto rivoluzionaria è l’asserzione della scienza meccanicistica, secondo cui tutto è fatto degli stessi atomi: il cane, la luna, il lombrico e l’uomo sono tutti fatti di elementi strutturali di base identici, caratterizzati soltanto da proprietà matematiche diverse. Per Aristotele non è così: per lui i corpi celesti sono fatti di etere mentre quelli terrestri sono costituiti dai quattro elementi. Sono due ontologie diverse, che producono scienze fisiche agli antipodi. Fino al Seicento si è ritenuto che i corpi celesti e i corpi terresti fossero totalmente diversi. La scienza meccanicista compie una rivoluzione che forse nessuno mai ha compiuto prima né dopo: l’autorità di Aristotele dice che i corpi celesti sono fatti in un certo modo e si muovono in un certo modo, mentre i corpi terrestri sono risultati del miscuglio dei quattro elementi. Ora si dice che siamo fatti tutti allo stesso modo, non esistono corpi perfetti né moti perfetti. Bisogna avere una forza mostruosa per opporsi ad un sistema che aveva dalla sua secoli e secoli di storia e che funzionava bene. Comincia a perdere colpi già con Tolomeo ma per secoli funziona perfettamente: l’astronomia costruita su queste assunzioni funzionava, consentiva a chi navigava di notte di non perdersi. Personaggi come Copernico e Galilei prima e Keplero poi compiono una rivoluzione enorme di conoscenza e di concezione del mondo.
Cosmologia aristotelica
COSMOLOGIA ARISTOTELICA-TOLEMAICA: tratti fondamentali.
È importante riprendere la cosmologia aristotelico-tolemaica, altrimenti non capiremmo a cosa dà l’assalto il tentativo di una nuova astronomia e di una nuova fisica. Cosa bisognava abbattere?
Bisognava abbattere anzitutto la distinzione tra mondo celeste e mondo sublunare, ossia la distinzione di principio che debba esistere una fisica del cielo e una fisica della Terra;
La convinzione del carattere necessariamente circolare delle orbite dei pianeti: se i cieli sono perfetti, devono muoversi in modo perfetto ossia circolare;
Il presupposto dell’immobilità della Terra e della conseguente sua centralità all’interno del cosmo, supportata da argomenti che sembravano irrefutabili, come quello dettato dal senso comune (a tutti pare ovvio che il movimento di una grossa sfera su se stessa non può che causare l’allontanamento da sé dei corpi che stanno sulla sua superficie);
L’idea della finitezza del cosmo legata all’idea dei luoghi naturali e all’idea del cielo delle stelle fisse, tipica di Aristotele;
La convinzione, strettamente legata alla distinzione tra moti naturali e violenti, secondo cui non ci sia necessità di spiegare lo stato di quiete di un corpo mentre è necessario spiegare ogni movimento. Nella fisica aristotelica viene spiegato il movimento, non la quiete. Ogni corpo ha un luogo naturale verso cui tende, una volta raggiunto quel luogo però il corpo se ne sta fermo. Si deve perciò spiegare il movimento: ad esempio, si deve spiegare perché la freccia scagliata va verso l’alto e non verso il basso. Si deve perciò spiegare il movimento, non la quiete;
Idea del divorzio che, da Tolomeo in poi, aveva sempre preso maggior forza e che sussiste tra ipotesi matematiche, di cui si occupa l’astronomia e la realtà ontologica dei corpi di cui si occupa la fisica. Idea che l’astronomia non fosse una scienza matematica ma solo una scienza calcolistica: non ci dice come stanno davvero le cose ma si limita a fare calcoli.
Nel secolo che va dal 1610 al 1710, nel corso di circa cento anni, tutti i punti prima enunciati vengono discussi, criticati e respinti. Questi punti sono ripresi da più autori e saranno distrutti: ne verrà fuori un’immagine radicalmente nuova dell’universo che presuppone un rovesciamento, altrettanto radicale, delle categorie interpretative. La concezione nuova del mondo si lega ad una nuova concezione della natura, dell’uomo e di Dio.
Aggiunto il 11/11/2018 11:17 da Davide Orlandi
Argomento: Altro
Autore: Davide Orlandi
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