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Aristotele. Etica Nicomachea. V.

ARISTOTELE


ETICA NICOMACHEA


V.


di Davide Orlandi




Il libro V è interamente dedicato alla giustizia. Al problema della giustizia Platone aveva dedicato la Repubblica, che muove proprio dalla domanda sul come costruire uno Stato giusto e aveva concluso che la giustizia non è la virtù specifica di un gruppo di persone, ma è la risultante generale di uno Stato equilibrato, in cui ognuno svolge al meglio la sua funzione. La giustizia è quindi una virtù importantissima tanto che per certi versi essa è considerabile come identica alla virtù nel suo complesso. Infatti, dice Aristotele, chi commette un’azione viziosa lo dichiariamo vile, avaro, incontinente, a seconda di quale azione abbia compiuto, ma in generale lo diciamo ingiusto (e allo stesso modo azioni coraggiose, liberali, continenti sono definite giuste). La giustizia è quindi una virtù perfetta perché è esercizio della virtù nella sua completezza, ed è esercitata verso gli altri e non solo verso se stessi.

Giusto è definito come “ciò che è conforme alla legge” e “ciò che rispetta l’uguaglianza”. Questa definizione pone un problema: c’è la possibilità (e Platone nella Repubblica ne aveva discusso a lungo) che ciò che è conforme alla legge non rispetti l’uguaglianza. In questa sede Aristotele però non si pone esplicitamente questo problema. Possiamo tentare di rispondere ricordando quanto detto relativamente al bene e a ciò che appare bene: per chi è virtuoso le due cose coincidono, per chi non lo è no (a sua volta il virtuoso è paragonabile all’individuo sano, e il non virtuoso al malato). Se lo Stato è sano, ciò che è conforme a legge è ciò che rispetta l’uguaglianza; se invece lo Stato degenera allora le due cose non coincidono più (Aristotele stesso parla di tre forme sane di Stato, che possono degenerare: la monarchia degenera in tirannide, l’aristocrazia in oligarchia, la timocrazia o politeia in democrazia).

Oltre a questo senso ampio, che quasi coincide con la virtù, vi è però un senso più specifico di giustizia, che possiamo analizzare quindi anche come una virtù particolare. Di questa virtù particolare Aristotele individua due forme, la giustizia distributiva e quella correttiva.

La giustizia distributiva è quella relativa alla ripartizione tra i membri della cittadinanza di onori e beni. Questa tipologia di giustizia implica almeno 4 termini: un primo uomo (A), gli onori a lui tributati (B), un secondo uomo (C) e gli onori a lui tributati (D). Perché ci sia effettiva giustizia distributiva deve essere rispettata la proporzione A : B = C : D. Se un uomo di valore riceve un certo numero di onori, c’è giustizia solo se un uomo doppiamente valoroso rispetto al primo riceve il doppio degli onori. Il principio ultimo di questo tipo di giustizia sta quindi nel rispetto del criterio di proporzionalità: l’ingiusto è ciò che viola la proporzione. Due persone non uguali avranno cose non uguali, in proporzione alla loro disuguaglianza; in questo senso la giustizia distributiva cerca di armonizzare le disuguaglianze senza eliminarle. Questo tipo di giustizia è pubblicistica, nel senso che trova applicazione nella dimensione pubblica del soggetto agente.

L’altro tipo di giustizia, che regola invece i rapporti tra i privati e può quindi esser detta privatistica, è la giustizia correttiva che si occupa di correggere eventuali torti. Per la giustizia correttiva gli uomini sono tutti uguali tra di loro e non fa differenza se sia un uomo buono a commettere ingiustizia contro un malvagio o viceversa (si tratta di un principio assolutamente innovativo). Quando ad esempio un padre lascia la propria eredità ai due figli in parti uguali, ma uno dei due figli si appropria di una parte dell’eredità del fratello, si ricorre alla giustizia correttiva, che ha il compito di ristabilire l’equilibrio, l’uguaglianza. Per questo dice Aristotele il giudice è chiamato mediatore, perché ricostituisce l’equilibrio e la medietà. Il giudice quindi rende a colui che è stato derubato la somma di cui è stato derubato, prendendola a colui che ha rubato. Non si tratta, precisa Aristotele, di pura e semplice reciprocità, ma della ricomposizione di un giusto equilibrio che era stato rotto. La giustizia è legata alla società e allo scambio e proprio in relazione allo scambio Aristotele discute il tema del denaro: affinché tutti riescano a soddisfare nel migliore dei modi i propri bisogni è stata inventata la moneta (νόμισμα) che non esiste per natura ma per νόμος (legge positiva, convenzione). La moneta è il mezzo di scambio universale che permette di paragonare tra loro tutte le merci, le rende tra loro commensurabili e permette quindi di scambiarle in modo più razionale: in questo modo è resa possibile la comunità. È peraltro necessario che tutta la comunità concordi nell’attribuire al denaro il suo valore di medium universale, in caso contrario lo scambio non è più possibile o viene fortemente limitato: si presuppone quindi una reciproca fiducia tra coloro che accettano la moneta come mezzo di scambio.

La giustizia e la legge prevedono la volontarietà: questo chiarisce che non è possibile subire volontariamente ingiustizia (si possono però subire atti ingiusti) né commettere ingiustizia contro se stessi. In questo medesimo contesto va sottolineato che la giustizia nella famiglia non è identica alla giustizia nella società: non essendo possibile ingiustizia nei confronti di noi stessi non è nemmeno possibile che un capofamiglia commetta ingiustizia contro i suoi figli (minorenni) e i suoi schiavi, che sono pensati come suoi possessi personali. La situazione della donna non è accomunata a quella degli schiavi e dei figli (infatti lei è soggetta alla legge come il marito), ma Aristotele dice che la giustizia tra marito e moglie non è identica alla giustizia in senso politico (intendendo una non meglio specificata subalternità della donna).

La legge ha di mira la giustizia, ma entrambe riguardano necessariamente l’universale e a volte non è possibile trattare adeguatamente i singoli casi con leggi universali: pur essendo giusta, la legge ha dei limiti (dovuti alla natura di ciò su cui si legifera). Per questo Aristotele parla dell’equità che è «un correttivo della legge, laddove è difettosa a causa della sua universalità» [1137b 27-28]. L’equità dice come la legge sarebbe stata, se avesse preso in considerazione anche il singolo caso che non rientra nella norma universale. Per questo l’equo è più in alto del giusto, perché non si limita al generale. L’uomo equo rispetta lo spirito della legge, perché agisce in conformità alla volontà del legislatore qualora esso avesse presente il singolo caso nell’atto di legiferare. Anche in questo caso Aristotele riconosce la positività di un principio generale (la legge) che però non è mai rigidamente e assolutamente sovrano: vi è anzi la necessità di riconoscere alcuni casi in cui la legge deve venire applicata non rigidamente, ma avendo di mira l’equità (non la giustizia).

L’equità rappresenta un motivo di particolare interesse per l’obiettivo teorico generale del corso. Stante, infatti, la distinzione proposta tra etica (ethos condiviso, norme universali) e morale (conflitto e caso limite di contro alla norma universale), si può qui vedere come Aristotele, mediante il tema dell’azione equa, introduca la necessità di una riflessione sui casi particolari che non possono essere risolti solo secondo giustizia, che richiedono cioè – si potrebbe dire – un surplus di giustizia. Questo, rispetto alle intenzioni del corso, potremmo chiamarlo l’ambito specificamente morale.






Aggiunto il 07/09/2018 13:11 da Davide Orlandi

Argomento: Filosofia antica

Autore: Davide Orlandi



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