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Aristotele. Etica Nicomachea III

ARISTOTELE


ETICA NICOMACHEA


III.


Di Davide Orlandi




Il secondo libro dell’Etica nicomachea ha per oggetto la virtù. Dopo aver tratteggiato, alla fine del libro precedente, la differenza tra virtù etiche (relative alla parte dell’anima che non è razionale in sé, ma può dare ascolto alla ragione) e virtù dianoetiche (relative alla parte dell’anima che possiede la ragione), Aristotele sottolinea che le prime vengono perfezionate con l’abitudine, mentre per le seconde gioca un ruolo fondamentale l’insegnamento. In questo libro, come nei due successivi, Aristotele si concentra principalmente sulle virtù etiche. È compiendo azioni virtuose che diventiamo effettivamente virtuosi; le azioni virtuose sono sempre legate a un contesto concreto, a una situazione.

La virtù non è per natura né contro natura: apre un altro mondo. Così è per l'etica, così è per la filosofia: queste discipline aprono a nuove possibilità, a nuovi mondi. In questo senso, l'etica è un'invenzione, così come l'arte, come la politica. Inventare, in latino invenire, significa al tempo stesso trovare e immaginare: in tutto il mondo della cultura per trovare qualcosa devo prima immaginarlo e l'operazione riesce quando ciò che invento “trova” (una corrispondenza, un oggetto reale adeguato). Con ciò però non si vuole dire che l'etica sia una convenzione o un'artificialità. Quando si immagina qualcosa che trova un oggetto adeguato, accade qualcosa di irreversibile, da cui non si può tornare indietro: si fa un salto dalla pura naturalità all'umanità. Quando Aristotele dice che le virtù non sono né per natura, né contro natura, sta dicendo quindi che sono un prodotto culturale.

Prima di affrontare nel dettaglio l'analisi per circoscrivere cosa sia la virtù, Aristotele tratta del rapporto delle virtù con il piacere e il dolore. La virtù non prescrive di fuggire il piacere e cercare il dolore, ma nel poter esercitare la scelta indipendentemente da essi. Aristotele chiarisce anche quali sono le condizioni dell’agire morale: in primo luogo si deve conoscere quali azioni rendono virtuosi (azione consapevole), inoltre si deve scegliere tali azioni (scelte non come mezzo per qualche altro scopo ma in se stesse), infine bisogna compierle con una disposizione d’animo ferma (azione scelta con tale fermezza da farla diventare un habitus). La prima di queste condizioni non solo non basta per agire in modo virtuoso (come pensava in certo senso l’intellettualismo etico), ma secondo Aristotele è la meno importante tra le tre (cfr. il paragone tra chi non compie le azioni e il malato che ascolta i medici, ma non mette in pratica ciò che essi gli prescrivono).

Tra i tre atteggiamenti dell’anima (passioni, capacità e disposizioni), Aristotele mostra che la virtù non può essere né una passione né una capacità e non può quindi che essere una disposizione (έζις).

La parola greca έζις, che è stata tradotta in latino con habitus, è particolarmente importante. Come già detto un singolo atto virtuoso non rende virtuoso chi lo compie: è necessario che compiere atti virtuosi divenga un’abitudine, una seconda natura. L’uomo non è virtuoso per natura, la virtù va infatti acquisita e non tutti sono virtuosi (questo spiega perché la virtù non è una capacità, una δυνάμις, che è una capacità naturale); ma la virtù non è nemmeno contro natura, perché l’uomo ha la possibilità di diventare virtuoso compiendo azioni virtuose. La virtù diviene quindi una seconda natura (come diciamo che l’abito è una seconda pelle). Aristotele risponde alla possibile obiezione secondo cui se un uomo compie azioni virtuose è già virtuoso chiarendo che un’azione virtuosa può essere compiuta per caso o per suggerimento altrui, ma si è virtuosi solo quando si faranno azioni virtuose risultanti da una disposizione abituale. Più questa disposizione abituale è messa in pratica più saremo in grado di agire virtuosamente in ogni situazione perché saremo in qualche modo allenati ad essere virtuosi: l’habitus orienta la scelta (questo esclude che si possa essere virtuosi per caso). In generale si giunge alla virtù tramite avvicinamenti continui, non si procede, come in Kant, per assoluti.

Più specificatamente la virtù è la disposizione a scegliere il giusto mezzo tra due estremi entrambi viziosi. Tutti e due, vizi e virtù, sono indeterminati, ciò che è determinabile sono l'eccesso e il difetto. Ci sono due tipi di medietà: una è nella cosa (ad esempio tra 2 e 10 la media è 6) ed è una e identica per tutti, l’altra, la medietà per noi non è identica per tutti, ma varia a seconda del contesto. Aristotele sottolinea che ci sono sempre due estremi viziosi, uno per eccesso e l’altro per difetto e che quindi c’è anche sicuramente un modo virtuoso di comportarsi che consiste sempre nel tenere una linea mediana. Possiamo immaginare la medietà come il vertice di un triangolo che abbia alla base i vizi: è più facile passare da un vizio al suo opposto che arrivare alla virtù. Questo anche perché il vizio è molto spesso una reazione istintiva, non ragionata, mentre il giusto mezzo, che è sempre virtuoso, prevede una scelta razionale.

Il fatto che si parli sempre di una medietà relativa a noi, alla situazione, esclude che si possa dare una formula generale assoluta per trovare il giusto mezzo. Aristotele fornisce una regola empirica, ricavata dall’esperienza, legata alle nostre inclinazioni: si tratta di tendere nella direzione verso cui sentiamo di non essere inclinati. Se per esempio in una battaglia ci sentiamo inclinati verso la viltà, dobbiamo allora compiere azioni che tendono alla temerarietà (il vizio opposto): in questo modo ci ritroveremo sempre più inclinati verso il giusto mezzo perché avremo modificato la nostra iniziale inclinazione alla viltà (Aristotele introduce in questo contesto la metafora del legno storto da drizzare, e che può essere raddrizzato con una tensione verso l’estremo opposto. La stessa metafora sarà ripresa da Kant, che sottolineerà però il fatto che un legno storto rimane storto e non può essere raddrizzato).

Possiamo riassumere quanto detto finora con questa formula aristotelica: «La virtù, dunque, è una disposizione concernente la scelta, consistente in una medietà, in rapporto a noi, determinata in base ad un criterio, e precisamente al criterio in base al quale la determinerebbe l’uomo saggio. Medietà tra due vizi, tra quello per eccesso e quello per difetto» [1106b 35-1107a 3].

La morale consiste nell'avere una struttura personale (έζις) che fornisca, di fronte a un problema o a un imprevisto, le risorse per fare la scelta giusta. La scelta si opera razionalmente, cioé portando argomenti, resistendo agli argomenti contrari, dando così saldezza alla scelta o mettendola in discussione se non è adeguata. Come si vede la virtù etica è determinata dalla ragione, ma in modo non assoluto, non apodittico; in questo senso Aristotele indica l’uomo saggio come punto di riferimento. E allo stesso modo nessuna definizione assoluta della virtù può essere accettabile: «ci sono alcuni che definiscono le virtù come stati di impassibilità e di riposo: definizione non buona, perché parlano in senso assoluto, senza aggiungere “come si deve” e “come non si deve” e “quando si deve”, e così via» [1104b 24-28 ]. Come abbiamo già sottolineato, la morale aristotelica non è interessata a definire cosa sia la virtù, non è un'etica sostantiva, ma piuttosto avverbiale.







Aggiunto il 09/09/2018 01:32 da Davide Orlandi

Argomento: Filosofia antica

Autore: Davide Orlandi



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