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Eclisse della ragione

Eclisse della ragione



di Davide Orlandi




Esaminiamo il testo di Max Horkheimer, “Eclisse della ragione – critica della ragione strumentale”, testo del 1969. La prefazione sottolinea la situazione di impasse in cui si dibatte ancora oggi il pensiero filosofico. C’è un declino del pensiero filosofico in ragione del quale Horkheimer pensa sia necessario ritornare ad esaminare il concetto di razionalità che sta alla base della nostra cultura. Osserva per prima cosa che all’aumento delle possibilità pratiche degli uomini, all’aumento delle conoscenze tecniche corrisponde in maniera inversamente proporzionale il venir meno dell’autonomia dell’individuo, fino a che questo processo assume il carattere di una vera e propria disumanizzazione.








PRIMO CAPITOLO: “MEZZI E FINI”






In questo capitolo Horkheimer spiega il concetto di ragione soggettiva o strumentale: è quella per la quale ragionevole è ciò che è utile. È una ragione a cui interessa il rapporto mezzi-fini, dove i fini devono rispondere all’interesse del soggetto per l’auto-conservazione. È una ragione funzionale, è uno strumento: deve essere capace di coordinare i mezzi con un determinato fine. La ragione soggettiva è prodotto di un processo avvenuto negli ultimi secoli che riguarda il pensiero occidentale. Per molto tempo era prevalsa un’altra concezione di ragione: la ragione oggettiva che è individuale. La ragione oggettiva non negava la soggettiva: comprendeva il tutto entro cui rientrava anche l’uomo e i suoi fini. La ragione oggettiva considerava la ragione soggettiva una parte della razionalità universale da cui si potevano ricavare i criteri per tutte le cose e per tutti gli esseri. La prevalenza andava ai fini e non ai mezzi: è una posizione diametralmente opposta rispetto alla soggettiva, a cui interessa individuare i mezzi per raggiungere un qualsiasi fine. All’oggettiva interessano i fini, i valori e le mete ideali. Fin dal principio, l'aspetto soggettivo ed oggettivo della ragione sono stati compresenti perché da sempre la ragione è in rapporto col soggetto. Ma all’inizio questa ragione è capace di oggettività: mira a definire il contenuto ultimo del pensiero, che va al di là del pensiero ma che il pensiero può riconoscere (teoria platonica delle idee: c’è un mondo che va al di là del pensiero ma esso lo riconosce, c’è un contenuto oggettivo che trascende la soggettività ma la soggettività può riconoscerlo, comprenderlo). Da un certo momento il pensiero è diventato incapace di riconoscere questa oggettività e l’ha definita un’illusione. Soggettivizzandosi, la ragione si è formalizzata: qua si ritrova tutta l’analisi di “Dialettica dell’Illuminismo” sul pensiero che si formalizza. I concetti diventano involucri formali, funzionali, degli strumenti che non hanno più bisogno di essere pensati. La labilità degli ideali (i principi fondamentali dell’etica e della politica) sono fatti dipendere da fattori diversi dalla ragione, come la scelta soggettiva. A questo punto il pensiero può servire a qualsiasi scopo, buono o cattivo, perché è un semplice strumento. Qua Horkheimer inizia un percorso di storia della filosofia per indicare questo processo a partire da Socrate e Platone, che credevano che la ragione riflettesse il vero essere delle cose, l’ordine eterno delle cose da cui l’uomo poteva ricavare la norma del suo comportamento. Questo resta anche nei pionieri del progresso, della civiltà borghese: i primi illuministi credevano che la ragione fosse un’entità, una forza spirituale che stava dietro alle idee e a cui gli uomini dovevano consacrare la loro esistenza: credevano fosse una forza universale e necessaria, comprensibile e raggiungibile da tutti. Dal Rinascimento in poi, dal ‘300 in avanti, gli uomini si sforzarono di formulare una dottrina comprensiva quanto la teologia ma tutta umana: questa stabiliva da sola i fini, i valori ultimi invece di accettarli da un’autorità spirituale. La filosofia si scopre il mezzo per spiegare il contenuto della ragione in cui si rispecchiava la vera natura delle cose e da cui ricavare la norma del proprio comportamento (Spinoza e l’etica: avendo una conoscenza perfetta dell’ordine delle cose automaticamente trai la norma etica, la norma del comportamento umano). L’aspetto oggettivo della ragione predomina sino al XVII° secolo, sino al 1600: c’è una filosofia razionalistica dove la dottrina dell’uomo e della natura è capace di svolgere la funzione che una volta era svolta dalla religione. Questa convinzione di poter attingere ad una struttura intelligibile comprensiva di tutta la realtà viene meno con l’età moderna: la ragione rivela una tendenza a dissolvere il proprio contenuto oggettivo. Si rivela più debole del concetto religioso di verità e più facile ad arrendersi a interessi prevalenti, a subordinarsi ad essi e adattarsi alla realtà qual è. Torna il tema della secolarizzazione del Cristianesimo. Inizialmente la filosofia non si propone di negare l’esistenza di una verità oggettiva e questa è la ragione del conflitto tra Illuminismo e mito e filosofia e religione: entrambe pretendono di formulare una verità globale e oggettiva. Il pensiero vuole dare fondamenti razionali a quella verità: c’è un terreno comune che spiega la conflittualità tra religione e filosofia, tra Cristianesimo e Razionalismo europeo. Poi questa lotta evapora nel momento in cui si decide che religione e filosofia sono due branche della cultura totalmente distinte tra di loro: questo fa venir meno il conflitto tra le due ma al tempo stesso la religione è ridotta ad un bene culturale tra gli altri e viene negata quella pretesa di verità assoluta che aveva in precedenza. In questo modo, però, secondo Horkheimer, si arriva a negare il concetto stesso di oggettività della ragione, capace di una verità universale, totale ed omnicomprensiva. Gli illuministi attaccarono la religione in nome della ragione ma in definitiva - secondo Horkheimer - uccisero il concetto oggettivo di ragione, quello da cui le loro stesse idee traevano forza. Oggi l’idea che ci sia una ragione che possa percepire la natura eterna vera della realtà, che sia capace di stabilirne i principi ultimi è giudicata una ragione metafisica e la metafisica è equiparata a mitologia e superstizione. La ragione ha liquidato se stessa in quanto strumento di comprensione etica, morale, religiosa e questo non ha prodotto un ritorno alla religione perché è venuta meno la convinzione che ci potesse essere una ragione depositaria della verità assoluta, qualsiasi forma essa assumesse. È una verità che precedentemente si credeva comune alla religione, all’arte, alla filosofia, alla politica e che si credeva uguale per tutto il genere umano: questo viene meno. La morte della ragione speculativa si rivela catastrofica anche per la religione. A questa ragione oggettiva si sostituisce una ragione formalizzata, relativistica e nell’era industriale prende il sopravvento il principio dell’interesse egoistico, principio basilare del Liberalismo. Questo però non è un principio razionale di coesione sociale: il Liberalismo, per ottenere l’ordine, deve ricorrere alla forza. Il Liberalismo è alleato del fascismo: nell’apparente libertà degli interessi plurali, non riuscendo ad avere una base comune per uniformare, per coordinare questi interessi, deve imporre l’ordine con la forza e diventa pertanto fascista. Avendo rinunciato alla sua autonomia, la ragione diventa strumento che si piega a contenuti eteronomi, altri. Il pensiero diventa parte del processo di produzione. C’è un filosofo (Toenbie) che dice una frase attualissima: “nel mondo dell’azione sappiamo che trattare animali ed esseri umani come se fossero cose inanimate ha conseguenze disastrose. Perché supporre che trattare nello stesso modo le idee sia meno sbagliato?”. Il rischio per il pensiero teoretico è quello di trattare le idee come cose, come mezzi a disposizione. Di fatto è così: le idee sono considerate come cose ed il linguaggio come strumento. Una volta che il significato è soppiantato dalla funzione si usano concetti e parole come cose non più da pensare: il pensiero rinuncia a pensare a se stesso. È il paradosso della “Dialettica dell’Illuminismo”. Si impone una sorta di economia intellettuale dove bisogna fare a meno di pensare i pensieri, le parole e limitarsi a utilizzarli come semplici strumenti. La ragione soggettiva è adattativa: si adatta a ogni tipo di contenuto e si lascia usare sia dagli avversari che dai difensori dei tradizionali valori umani; fornisce tanto l’idea del profitto e della reazione quanto l’idea del progresso e della rivoluzione. Si adatta ad ogni fine: per questo è così pericolosa. L’Illuminismo, giunto ad un certo punto di sviluppo, tende a trasformarsi in superstizione e paranoia, in nuova mitologia. A fine ‘800 era ancora possibile riconoscere delle sacche di resistenza a questo modo uniformante di pensare: Horkheimer si rifà ai simbolisti francesi (Baudelaire). Ci sono ancora reazioni di non conformismo rispetto alla realtà: il soggetto esprime la volontà di resistere all’adattamento imposto e all’irrazionalità della logica utilitaria. Ma nel XX° secolo – secondo Horkheimer - si è raffinata la capacità di inglobare anche queste forme di resistenza: viene meno il rimpianto per lo svanire della ragione oggettiva, in realtà non si percepisce nemmeno il venir meno del significato della realtà. Si accetta e ci si rassegna al fatto che non ci sia più un significato. Su queste basi la filosofia vincente è il pragmatismo: idee, concetti e teorie sono solo schemi di azione veri solo quando hanno successo. Le nostre idee sono vere perché le azioni che le seguono hanno successo. Se falliscono, sono false. Il pensiero, per dimostrare il proprio diritto a esistere, deve dimostrare la sua utilità pratica: ecco l’astio del pensiero speculativo, che di fatto non serve a nulla da un punto di vista pratico. Deve avere questa libertà interiore che magari lo porta ad avere una ricaduta sulla realtà, ma di non rispondere immediatamente alla domanda: a che cosa serve? Non è questa la domanda che muove il pensiero filosofico. L’effetto è una umiliazione della ragione e qua Horkheiemer fa un’osservazione acuta. Noi siamo – anche oggi – pieni di uomini intelligenti, ma Horkheimer dice che l’uomo intelligente, per essere tale, non deve solo saper ragionare in modo esatto: non è la capacità del ragionamento. Intelligente è colui la cui mente è aperta alla percezione di contenuti oggettivi. Il pensiero incontra qualcosa che non è pensiero, che è una forma di oggettività, che non è la verità assoluta degli inizi, il valore assoluto: per i francofortesi è il non identico, è ciò che si sottrae. L’uomo intelligente è aperto alla percezione di contenuti oggettivi, di cui sa vedere le strutture essenziali e sa parlarne, sa portarle al linguaggio, anche se in maniera mai esaustiva, mai risolutiva, dirimente, perché non sono oggetti a disposizione.

Axley, autore de “Il mondo nuovo” del 1932, illustra bene questo processo di formalizzazione della ragione. È un autore che va nella stessa direzione dei francofortesi: riesce ad individuare quel processo in cui la ragione si trasforma in stupidità, riesce ad individuare questo processo di rincretinimento generale.

Ripudiare ingenuamente questa degenerazione in nome della cultura di una volta secondo Horkheimer è inutile, inefficace e non produce nessun effetto. Non ci si può porre fuori e dire che cosa è meglio perché questo porta solo al disprezzo per le masse, al cinismo e rafforza quella tendenza che la critica vorrebbe ripudiare.


















SECONDO CAPITOLO: “CONTRASTANTI PANACEE”






Inizia in modo simile al precedente, dicendo che quasi tutti ritengono che oggi, per la società, non sia stata una grande perdita quella del pensiero filosofico perché il suo posto è stato preso da un mezzo ancora più potente che è il pensiero scientifico. Naturalmente, anche in questo stato di cose, ci si rende conto del bisogno di dare un fondamento teorico alle proprie gerarchie valoriali. Vi è allora questa diffusa tendenza a rimettere in circolo delle filosofie di una volta, della ragione oggettiva: ci sono dei revivals filosofici. Possono avere diversi livelli: ci possono essere sistemi spirituali pseudo-scientifici, semi-scientifici o pseudo-religiosi: lo yoga, lo spiritualismo, l’astrologia e il misticismo. Horkheimer avverte che è un’operazione illegittima e fallimentare: il passaggio dalla ragione soggettiva alla ragione oggettiva è un passaggio avvenuto non per caso. Questo processo non si può invertire a nostro piacimento. Indietro non si torna. Se la ragione soggettiva ha potuto soppiantare la ragione oggettiva, ha potuto distruggere le fondamenta di convinzioni che erano state parte essenziale della cultura occidentale, ciò significa che quelle fondamenta erano troppo deboli. Fossero state forti e radicate non ci sarebbe stato questo processo. Se la ragione oggettiva si è fatta sopraffare dalla soggettiva, di per sé più debole, più legata al soggetto umano finito, allora questo significa che non si può tornare a riprenderla dopo la sua crisi, il suo passaggio nella ragione soggettiva. La ragione della sua debolezza è che le idee, le cose non restano mai uguali a se stesse: una cosa che poteva valere ed essere forte in quel contesto, in quel tempo, in altri contesti e realtà sociali non vale più nella stessa maniera. Quindi Horkheimer dice: non si possono riprendere vecchie dottrine per salvarci dal caos perché significa solo cercare di colmare le proprie lacune (è il Dio tappabuchi bonhofferiano): è l’idea di qualcosa di forte che serve a colmare ciò che non c’è. Quello però non è Dio, è la proiezione del soggetto.
Qual è il paradosso? In questo caso all’assoluto si fa ricorso come ad un mezzo. Quell’assoluto è un mezzo e la ragione oggettiva diventa un metodo utile a scopi soggettivi. Questo è l’esito dello stravolgimento.


In filosofia questi revivals hanno un significato di tradimento delle dottrine a cui si rifanno perché la verità muta, cambia nell’evoluzione della storia. Horkheimer parla di neo-tomismo. Nomi di riferimento: Maritain, Gilson, Maréchal. Il neo-tomismo riprende il tomismo. Mentre il tomismo originario poteva adattare il Cristianesimo alla scienza e alla politica, dal momento che per Tommaso è facile riassorbire l’aristotelismo (le sue idee metafisiche rappresentavano il sommo della conoscenza scientifica del suo tempo); ora questo per i neo-tomisti non è più possibile. Si è creata una divaricazione incolmabile tra quella che è l’idea metafisica e quella che è la scienza. Non si può ricavare dalla cosmologia una fisica contemporanea. Allora non possono più integrare teologia e scienza naturale in un sistema intellettuale: non possono più creare una sintesi tra elementi ad esso incompatibili, che invece non lo erano ai tempi di Tommaso.

Gli avversari dei neo-tomisti sono i neo-positivisti che sanno che prima o poi il dogmatismo, di cui accusano i neo-tomisti, porta il pensiero ad un punto morto. Horkheimer allora sì chiede: ma il neo-positivismo non è anch’esso dogmatico? Anche il neo-positivismo glorifica l’assoluto della scienza, ne fa un’autorità assoluta e inverificabile come principio intellettuale. Nomi di riferimento del neo-positivismo: Russell, Popper, Whitehead. Horkheimer riprende la sua critica alla scienza e dice che in sé e per sé l’osservazione non è un principio ma uno schema di comportamento, un modus procedendi. Di per sé l’osservazione non è un principio fondante e in qualsiasi momento potrebbe condurre alla sua negazione: è un elemento indebolente di qualsiasi dottrina scientifica. Il neo-positivismo, come il suo antagonista, il neo-tomismo, hanno in comune una debolezza che è quella di bloccare il pensiero critico con dichiarazioni autoritarie. Smettono di pensare ad un certo punto ed affermano: così entrambi ignorano o fanno finta di ignorare le contraddizioni insite nei loro stessi principi. Le ignorano perché se le mettessero in discussione verrebbero meno i loro principi e crollerebbe il sistema. Sono forme apologetiche del loro stesso sistema. Il pensiero filosofico indipendente e negativo, il pensiero critico, deve superare sia il concetto di valore che sta alla base del neo-tomismo sia il concetto di fatto, alla base del neo-positivismo. La scienza moderna positivisitica riguarda i fatti e presuppone la reificazione della vita: presuppone una vita fatta di dati e di fatti e non vede il rapporto tra la trasformazione del mondo in fatti e il processo sociale. Questa scienza è coerente al suo interno ma non si pone il problema del rapporto col mondo esterno reale, non quello dei fatti sperimentabili in laboratorio ma quello della realtà sociale. Il compito della riflessione critica è quello di comprendere i fatti nella loro evoluzione storica e approfondire il concetto di fatto, vedendolo nella sua relatività. Il fatto non è un assoluto, è relativo. Occorre non scambiare una forma cristallizzata della realtà con una legge di verità. Lo dicono i fatti: ma i fatti cosa sono? Possono essere il cristallizzarsi di forme sociali, magari giuste. Occorre smantellare quest’apparente monoliticità del reale: il reale è fatto così, bisogna accettarlo così e studiarlo così. Siamo sicuri che i fatti siano quelle realtà così compatte, solide e che bisogna accettare come tali? Il pensiero critico deve problematizzare questi concetti che noi diamo per scontati.

Per Horkheimer il delitto, la responsabilità degli intellettuali moderni contro la società non è tanto quella di essersi isolati e rinchiusi nella loro torre d’avorio ma sta nell’aver rinunciato ad affrontare le contraddizioni e la complessità del pensiero cedendo al cosiddetto senso comune. Per Horkheimer l’intellettuale moderno non fa più il suo lavoro, che è quello di insistere su ciò che non tiene, sulle contraddizioni, sul fatto che le cose sono complesse. Noi viviamo in una mentalità di semplificazione. La filosofia di vita di oggi è: cerchiamo di renderci la vita più semplice. Anche lo scienziato va in quella direzione: cerchiamo la formula che riesca a ricondurre a sé il maggior numero di fenomeni. Il filosofo critico deve andare controcorrente e dire che ciò che sembra semplice è complesso, ciò che sembra compatto e solido è in realtà fragile e cede al primo soffio. Adorno propone un’immagine criticando Husserl che dice che ogni cosa ha un adombramento prospettico che non si riesce a vedere. Adorno dice: bisognerebbe commisurare questa frase di Husserl alla Germania di oggi dove tu vedi la facciata di una casa e non ti rendi conto che dietro non c’è niente. Ci sono cose che non hanno più la loro completezza, la loro solidità: con questo bisogna fare i conti. Allora davvero si commisura la filosofia alla realtà storica.

Il pensiero negativo critico deve insistere su quest’esperienza della complessità contro la tendenza alla semplificazione. Oggi – dice Horkheimer – bisogna registrare questa sorta di ostilità, insofferenza verso un pensiero insolito, che non si adatta, non remissivo e che va oltre alle semplici esigenze dell’ordine sociale. Questo tipo di pensiero dà fastidio perché non è funzionale. Il massimo difetto del neo-tomismo e del neo-positivismo sta nell’identificare immediatamente la verità con la realtà. Entrambi pensano che adattandosi a quella che essi chiamano realtà l’uomo uscirebbe dall’impasse in cui si trova oggi. Questa è una delle cause fondamentali della decadenza intellettuale: far risaltare questa situazione di razionalità irrazionale.
















TERZO CAPITOLO: “LA RIVOLTA DELLA NATURA”





Il soggetto, una volta considerato autonomo, viene svuotato di ogni contenuto e viene liquidato. La soggettivizzazione che esalta il soggetto lo condanna a morte. L’essere umano, nel processo della sua emancipazione, condivide il destino di tutto il resto del suo mondo. Qua troviamo quella circolarità: nel dominio sulla natura è incluso anche il dominio sull’uomo. Nella società industriale l’uomo rinuncia a se stesso e questo porta ad una razionalità per quanto riguarda i mezzi ma alla più assoluta irrazionalità per quel che riguarda la vita umana. Tutto funziona meglio, tutto è più razionale ma non ha più senso la mia vita. Tutto funziona ma non si sa bene per cosa, per chi, perché. Questa è la situazione dell’uomo in una cultura in cui il principio fondamentale è quello dell’auto-conservazione per l’auto-conservazione. Trionfa il processo di adattamento per cui la sopravvivenza e il successo dell’individuo dipende dalla sua capacità di adattarsi alle pressioni che la società esercita su di lui. Non c’è più un ideale a cui plasmare la realtà ma è la realtà che diventa l'ideale a cui conformarsi. C’è una passività totale del soggetto. In questo sistema le forze economiche e sociali assumono la forma di quelle forze cieche della natura da cui l’uomo è uscito con la sua emancipazione. Il risultato finale di questo processo vede da un lato il soggetto, l’Io, con l’unico tentativo di trasformare tutto quanto in strumento per la sua sopravvivenza e dall’altro una natura degradata a semplice materia, a materiale di sopravvivenza, dominata senz’altro scopo fuorché di dominarla. Non deve incantare l’apparente accrescimento di libertà: la libertà ha cambiato il suo significato e il suo carattere. Ad essa si è sostituito un atteggiamento mentale dal quale scappiamo da ogni emozione e idea che potrebbe diminuire la nostra prontezza a rispondere alle esigenze impersonali che premono su di noi da ogni parte. La libertà è libertà di adattarsi. Per adattarsi il primo requisito è eliminare tutto ciò che è disfunzionale rispetto all’adattamento: l’emozione, l’espressione, la naturalità e l’ideale. Tutto ciò viene addomesticato e represso dall’individuo perché rende più difficile l’adattamento alle esigenze impersonali che provengono dall’esterno. L’uomo che si arrende a questo processo - dice Horkheimer – non lo fa come un bambino che riconosce fiducioso l’autorità a cui dà il proprio assenso ma come un adulto che deve rinunciare ad un autonomia già conquistata. Questo spiega l’astio e il rancore represso che c’è nella nostra civiltà: ogni essere adulto sa che deve rinunciare alla propria autonomia per adattarsi. C’è un carico enorme di frustrazione che comunque viene utilizzato dal sistema.

Anticamente – dice Horkheimer – la libertà dalla pressione immediata dalla natura permetteva all’uomo di pensare disinteressatamente alla natura: è la contemplazione teoretica coltivata dalla filosofia che oggi, dal punto di vista economico, è ritenuto un lusso di élite. Chi si permette di pensare in modo disinteressato alla natura? Solo quei quattro filosofi che non hanno altro da fare e se lo possono permettere. Il pensiero speculativo disinteressato e disfunzionale viene liquidato e – dice Horkheimer – non si può certo definire un progresso. Privata della possibilità di parlare attraverso lo spirito degli uomini, la natura allora si sta prendendo la sua rivincita attraverso l’esplosione di impulsi repressi. Mentre prima la natura poteva parlare nella contemplazione teoretica, nella libertà di spirito del filosofo, adesso che questo non è più consentito perché tutto deve rispondere ad un interesse, la natura si prende la sua rivincita attraverso l’esplosione di impulsi repressi che ci sono e che permangono: l’essere adulto si adatta ma sta male perché sa il prezzo di quell’adattamento (la repressione dei suoi istinti naturali). L’interiorizzarsi del dominio avviene in forza dello sviluppo di un soggetto astratto, l’ego, che da sempre ha manifestato delle funzioni di dominio, comando, coordinazione: l’ego è il soggetto che domina conoscitivamente, che comanda già prima dell’ego filosofico. Anche il soggetto inizialmente nella sua forza brutale esprime queste funzioni e successivamente le esprimerà in forma spirituale e filosofica. In nessun momento l’ego è liberato da questo suo vizio originario, quello di essere espressione di dominio sociale, da Cartesio in poi (Razionalismo, Idealismo, Fichte). L’ideologia moderna ha eliminato queste metafisiche, tuttavia continua a ritenere la natura strumento dell’uomo e la sua fame di potere è insaziabile. La natura è oggetto di sfruttamento che non conosce limiti. Questa sete di potere che è del soggetto non è però appartenente all’uomo, non è una sua caratteristica innata, dipende sempre da una storia, una società, da un rapporto relazionale tra gli uomini. La natura umana per Horkheimer non è malvagia. Il rapporto con la civiltà si dà per ogni essere umano nella relazione che egli ha col padre che è la figura dell’autorità. Qua Horkheimer tenta la sua lettura psicoanalitica. Va tenuto presente l’approccio gestaltico alla natura umana: l’uomo non è mai un atomo che riflette il suo disagio psicologico sulla civiltà, sulla società e sugli altri; bisogna considerare la relazione che ha con la famiglia, con Dio e con l’altro. L’uomo è un essere costitutivamente relazionale. Allora – dice Horkheimer – c’è un astio degli individui verso la civiltà. Questo astio ha la sua prima manifestazione nel rapporto tra il bambino e il padre, che è la figura della legge. L’adolescente arriva al conflitto con questa figura perché si accorge che la rinuncia a soddisfare i suoi bisogni istintivi non è compensata come merita. La figura autoritaria è sempre censoria: è colui che limita, che nega che tu possa soddisfare i tuoi bisogni. Questo arriva fino all’adolescenza: nell’adolescenza l’individuo commisura le due cose: il processo adattativo e ciò che la realtà gli dà. Il conflitto si impernia attorno agli ideali per i quali è stata stabilita la rinuncia: spesso da adolescente ci si accorge che quegli ideali nascondono il dominio del più forte o del più furbo. Non sono perciò ideali oggettivi, non hanno forza cogente in sé, ma mi sono stati imposti. E qui si danno due possibili reazioni: o la ribellione o la rassegnazione.

  • L’individuo ribelle si oppone a ogni tentativo di conciliare le esigenze della verità con le irrazionalità dell’esistenza. La sua sarà una vita di lotta ed egli dovrà affrontare il rischio di rimanere solo. Il ribelle è colui nel quale prevale la volontà di realizzare ciò che il padre rappresentava per la sua infanzia: la verità. È colui che resta legato a quell’idea di verità e che si rende conto dell’irrazionalità dell’esistenza in cui si trova a vivere. Per questo si ribella. Tuttavia, dice Horkheimer, è il destino di pochi che rimarranno isolati: nell’esperienza vediamo che la maggior parte della gente si adatta e percorre l’altra via che è quella della rassegnazione

  • La rassegnazione è la reazione di chi rinuncia a se stesso identificandosi col mondo, di chi accetta la coincidenza di ragione e dominio. Si accetta il dominio del più forte come se fosse una legge: è così, bisogna accettarlo. Questo vuol dire continuare a reprimere in sé gli impulsi naturali. Tuttavia tali impulsi permangono, non vengono fatti sparire. In questi soggetti ci sono due possibili atteggiamenti:



  1. Il conformismo servizievole.

  2. L’esplosione nel delitto.


Questa lettura psicoanalitica va attualizzata secondo Horkheimer perché non esiste più quel rapporto genitori-figli: il padre non è più quel padre, la famiglia ha in qualche modo demandato ad altre figure ed entità la funzione educativa. Questo rende più difficile il rapporto perché è più difficile per il soggetto stesso identificare la persona con cui prendersela: ci sono entità più anonime, impersonali e quindi questo spiega il venir meno della resistenza individuale. Ci sono reazioni meno forti perché l’individuo è sollecitato in maniera meno diretta.

Adattarsi significa identificarsi con la realtà esistente perché si vuole sopravvivere. La realtà a cui noi ci adattiamo è una realtà insufficiente, deludente. Questo fa sì che l’individuo ritorni al suo istinto represso e vi ritorni in forma regressiva, violenta. Qua Horkheimer fa uso di un concetto: fa riferimento all’istinto mimetico. L’istinto mimetico inconscio è quello che consente al bambino l’apprendimento e appartiene all’origine della nostra civiltà. È un mezzo di sopravvivenza mediante cui impariamo delle cose. Successivamente, nella storia dell’umanità e dell’individuo (ontogenesi e filogenesi), questo istinto inconscio viene subordinato all’imitazione consapevole ed ha un ordinamento razionale. La civiltà nasce da naturali istinti mimetici dell’uomo ma li trascende, li sublima e li converte in atteggiamenti razionali. L’istinto mimetico diventa strategia mimetica.

Se l’uomo, grazie a questo adattamento, perde la speranza di realizzarsi, rinunciando al suo impulso naturale, questo se ne starà sempre in agguato e pronto a esplodere con una forza distruttiva. Molti demagoghi moderni hanno sfruttato intenzionalmente l’istinto mimetico: i nazisti hanno favorito l’accrescimento del loro potere lavorando sulla possibilità di dare via libera agli istinti mimetici socialmente repressi. La forza dell’ascesa del nazismo non è data da motivi razionali o da argomenti persuasivi ma è data dalla capacità di risvegliare questi istinti mimetici fino ad allora repressi. I nazisti hanno lavorato sulla frustrazione dei desideri degli individui. Come si fa a lavorare sugli istinti repressi delle persone che vogliamo manipolare per metterle a servizio delle nostre intenzioni? Gli istinti repressi vanno sollecitati ad arte proponendo dei modelli di mimesi studiati razionalmente per accostarsi all’ambiente ma solo per renderlo proprio. Sì è attuata una strategia simile alla strategia del lupo che nella favola di cappuccetto rosso si traveste da nonna per ottenere un obiettivo che è l’esatto opposto del comportamento della nonna. Ha un effetto caricaturale su di noi: l’effetto della nonnina è comico, non è drammatico. Il lupo vestito da nonnina non è drammatico, fa sorridere. Horkheimer prende in esame alcuni dei personaggi della propaganda nazista e mette in rilievo come ad esempio Goebbels sembri la caricatura del commesso viaggiatore ebreo, Mussolini sembrava una prima donna di provincia o un caporale da operetta, Hitler pareva fosse andato a scuola da Chaplin. Sono personaggi che sembrano buffi, non hanno la serietà dei loro argomenti. Evocano quegli istinti che la gente normalmente deve cancellare: è una falsa mimesi, basti pensare al trasformismo di Mussolini che va a mietere il grano e sembra il contadino, Mussolini che va a cavallo ecc: questo vuol dire: io sono tutti voi. Questa falsa mimesi è imposta dall’esterno, è perseguita intenzionalmente ed essendo artificiale ha in sé la possibilità della menzogna e della falsificazione. È una forma di mimetismo che rispetta fedelmente la strategia di Ulisse che si adatta al mondo, alle persone di tutti i giorni ma solo per poterle dominare, assimilare, conquistare. Si camuffa da persona normale ma solo per poterla assimilare, per farla propria. Dando espressione a istinti repressi questi personaggi sembrano ribellarsi alla civiltà: è un Bossi qualsiasi, è uno che parla di cose basse, prosaiche, sessuali. Danno voce a istinti repressi, cosicché la gente veda finalmente la possibilità di liberarsi dall’adattamento imposto per la sopravvivenza. Finalmente c’è qualcuno che dà voce all’astio che tutti provano per dover rinunciare alla propria naturalità. Sembrano dare voce alla ribellione contro la civiltà ma questa protesta non è autentica, è una mimesi mistificata perché in loro non viene mai meno quello che è il loro obiettivo: è quello di tentare la natura presente in noi stessi (nella forma della natura repressa) a unirsi alle forze di repressione da cui la natura stessa era scacciata. È una maniera ancora più subdola, viscida di dominio della natura perché va a liberare la tua natura repressa ma per sottometterti ancora di più. Quando gli uomini danno il via libera alla loro natura, le loro azioni diventano terribili secondo Horkheimer. Hitler si rese conto che i metodi di persuasione razionale non erano efficaci perché non in sintonia con la parte istintuale e repressa a cui lui si rivolgeva. Quella parte andava colpita perché era quella di un popolo civilizzato solo superficialmente. Così era il popolo tedesco in particolare, ma il discorso vale sempre e ovunque. La nostra civiltà è fatta di individui superficialmente civilizzati in cui è facile, grattando un po’, raggiungere gli istinti profondi che rendono le persone manipolabili perché risvegli in loro esattamente la cosa che interessa, che non è l’adattamento, il conformismo. La nostra civilizzazione è fragile: per quello l’olocausto e il totalitarismo sono sempre possibili. Nel fascismo moderno la razionalità ha toccato un punto in cui non si accontenta più solo di dominare la natura ma sfrutta la natura incorporando nel proprio sistema gli istinti ribelli latenti nell’inconscio.











Eclisse della ragione (parte 2)



I nazisti utilizzarono gli istinti repressi del loro popolo e il fascismo presenta questa sintesi satanica di ragione e natura. In America la situazione è uguale per quanto riguarda il rapporto della ragione con la natura: c’è ugualmente la tendenza molto forte a dominare la natura che in America ha assunto la forma di un darwinismo popolare, proprio di una cultura di massa. È quindi la mentalità della sopravvivenza del più adatto: questa sta alla base dell’etica e della norma di comportamento. In questa mentalità la ragione diventa un organo: lo spirito e la mente diventano cose della natura. In altre parole la ragione pure mentre svolge la funzione di dominare la natura si riconosce parte di essa: è qualcosa di organico che sopravvive solo perché più efficace. L’idea implicita in tutta la metafisica idealistica (il mondo è prodotto dello spirito) in questo caso si rovescia nel suo opposto: lo spirito è un prodotto del mondo, dei processi naturali. Questa equazione di ragione e natura fa sì che la ragione venga svilita e la natura esaltata nella sua primitività: è uno dei paradossi dell’epoca della razionalizzazione. Anche nel caso in cui la natura venga esaltata nella sua primitività, la natura è misconosciuta: non considerata – dice Horkheimer – un testo che la filosofia dovrebbe interpretare: in questo caso essa racconterebbe una storia infinita di sofferenze. L’umanità può riconciliare ragione e natura, sicuramente non commettendo l’errore di metterle sullo stesso piano. Occorre salvare il rapporto ma mantenendo la distinzione: l’errore sta nell’identificarle perché questo snatura entrambi i termini: e la ragione e la natura. Le dottrine che esaltano la natura in realtà non favoriscono la riconciliazione con essa e, al contrario, aumentano la cecità nei suoi confronti. Ogni volta che la ragione sceglie la natura come principio – dice Horkheimer – regredisce agli impulsi primitivi. È naturale che ci siano delle esperienze in cui questo è giusto: i bambini e gli animali esprimono degli impulsi naturali e possono anche essere crudeli. La lettura della natura non è mai sempre univocamente positiva per la Scuola di Francoforte perché la natura è anche la prima entità che pone un dominio sull’uomo, è anche una natura matrigna, ha degli elementi di malvagità o di freddezza verso l’uomo: la natura è tale anche senza l’uomo, per cui non tiene conto dell’uomo. C’è allora un aspetto positivo e un aspetto negativo: esistono in natura dei comportamenti anche umani, nel caso del bambino, che sono previsti, fan parte della crescita degli esseri umani. Il bambino può anche essere malvagio in ragione della sua spontaneità però per Horkheimer sono innocenti perché non ragionano. Se la stessa cosa avviene nell’uomo adulto, questo ha il significato di una regressione colpevole. C’è una responsabilità nel caso in cui il filosofo o il politico abdicano alla ragione arrendendosi alla realtà. Il capitolo si conclude dicendo che bisogna riconoscere che siamo eredi dell’Illuminismo e del progresso tecnico: questo è qualcosa che ci appartiene come eredità ed è inutile rinnegare quest’eredità regredendo a stadi primitivi perché in questo caso non faremmo altro che sostituire delle forme ragionevoli di dominio sociale con altre forme di dominio assolutamente barbariche. Quando l’uomo torna alla natura e lo fa dopo essersi emancipato da essa, l’esito è sempre il regresso, la barbarie. L’unico modo per agitare la natura sta nel pensare, nel togliere ogni vincolo a quello che sembra il suo avversario: il pensiero indipendente. Solo il pensiero può riconoscere la distinzione e la relazione tra ragione e natura. Questo rimedio lo si trova nei francofortesi e in Hannah Arendt: il male è sempre legato all’assenza di pensiero, alla distorsione dell’attività del pensare. Se gli uomini si riappropriano di questa capacità che è per i francofortesi anzitutto una capacità critica, è possibile sperare qualcosa di diverso.










QUARTO CAPITOLO: “TRIONFO E DECADENZA DELL’INDIVIDUO”




La crisi della ragione coincide con la crisi dell’individuo. Un tempo l’individuo vedeva la ragione come uno strumento dell’Io e adesso la situazione è rovesciata: l’Io sta diventato strumento della ragione. La ragione che strumentalizza l’uomo, che lo domina, è la ratio, la ragione strumentale soggettiva. La macchina ha gettato a terra il conducente e corre alla cieca (questo assomiglia molto alla lettura huserliana che c’è nella Krisis). Al culmine del processo di razionalizzazione la ragione si scopre irrazionale e stupida. Quando Horkheimer parla di individuo intende un’entità storica, non un ente spazio temporale, ma un essere consapevole della propria individualità di essere umano dotato di coscienza. Si tratta di ritornare a questo individuo, appunto un essere umano dotato di coscienza. Tutti questi termini sono ormai obsoleti: oggi al potere sociale si arriva tramite il dominio sulle cose. Tuttavia, dominando le cose, il soggetto si fa dominare da esse. Tanto più le cose lo dominano e tanto più perde il suo carattere individuale.

“La storia dell’individuo è ancora in gran parte da scrivere”: all’insegna di questa frase Horkheimer fa un breve percorso storico dell’individualità.

  • L’eroe greco non è ancora individuo anche se lo preannuncia. In qualcosa lo preannuncia perché anche se le sue azioni sono malvagie o terribili non hanno origine in una sua caratteristica e non derivano dalla sua natura malvagia. Anche se agisce in modo terribile reagisce ad un contesto, un conflitto e questo si riallaccia al discorso che l’essere umano non è un essere monadico che intrapsichicamente ha delle cose che proietta all’esterno ma reagisce all’esterno, è un essere relazionale. Quindi ogni azione è sempre una reazione. L’eroe agisce perché ha il desiderio di vendicare un delitto, di sfuggire ad una maledizione. Non è ancora individuo però perché da questo conflitto esce sempre sconfitto. Ecco il segno della sua mancata individualità: l’eroe è il fallimento dell’individuo. L’unico personaggio omerico che possiamo già riconoscere come individuo è Ulisse che però a fatica riusciamo a chiamare eroe perché è troppo astuto per apparirci eroe: affronta il conflitto astutamente e riesce a uscirne vincitore

  • Nella “Politica” Aristotele descrive il “borghese” greco come un individuo che possedendo il coraggio dell’europeo e l’intelligenza dell’asiatico, quindi la capacità di autoconservarsi con la riflessione, ha imparato a dominare. In un momento di massima fioritura della civiltà e della cultura urbana (qua fa riferimento alla Firenze del ‘400) si raggiunge un analogo equilibrio di forze psicologiche (coraggio ed intelligenza) che naturalmente sono sempre giocate in relazione con l’esterno, il tessuto sociale. Anche i principali contestatori della città (Rousseau e Tolstoj) sono comunque legati al contesto urbano. Anche nei teorici dell’abbandono e della contestazione della civiltà urbana troviamo degli individui che sono in relazione strettissima al contesto (anche chi contesta il contesto lo fa per rispondere al contesto che lo circonda). C’è un antagonismo tra individualità e le condizioni economiche e sociali della sua esistenza e questa conflittualità è costitutiva dell’essere individui. L’individuo delinea se stesso in questo antagonismo che non c’è più o c’è meno: non a caso, non percependo più l’antagonismo tra l’individuo e la società, il contesto urbano, sociale, collettivo e l’individuo viene meno. Questo segna la crisi dell’individuo perché non percepisce più la conflittualità ma si adatta alla realtà così com'è.

  • Platone fece il primo tentativo sistematico di elaborare una dottrina della individualità in accordo con la dottrina della polis: uomo e stato, microcosmo e macrocosmo come strutture armoniose di intelligenza, coraggio e desiderio. Platone apre la strada all’individualismo perché l’uomo si realizza attuando le sue possibilità. Aristotele ricava dalla dottrina platonica la conseguenza legittima: questo è possibile perché qualcuno può utilizzare qualcun altro per essere libero, per potersi realizzare nelle sue potenzialità. Aristotele teorizza la legittimità della schiavitù. Se io voglio essere un uomo libero ed attivo nella polis devo essere liberato dalle necessità biologiche perché possa dedicarmi alla vita pubblica. Nel sistema platonico parliamo di ragione oggettiva, è una filosofia che esprime la ragione oggettiva. Questo spiega una sorta di distacco, di freddezza nei confronti dell’uomo che si trova anche nel Medioevo e nella visione del cosmo armonioso della filosofia medievale.

  • Nel Medioevo c’è un ordine immutabile dell’universo, c’è una natura statica della storia che preclude la possibilità di una effettiva emancipazione del soggetto nella comunità come nella natura. È quasi necessario e logico che ad un certo punto l’individuo si stacchi da questa realtà per diventare se stesso: è quasi necessario il passaggio dalla ragione oggettiva alla ragione soggettiva. Horkheimer dice: però attenzione perché anche l’idea di un modello del progresso, quello che dovrebbe restituire il soggetto a se stesso, è problematico per l’individuo. Se le ontologie (la ragione oggettiva) ipostatizzano in maniera indiretta le forze della natura nei concetti (il passaggio dalle cieche forze naturali ai concetti che sono quasi delle personificazioni di quelle forze naturali), questi concetti permettono il dominio sulla natura che è l’interesse primario dell’uomo. Rispetto a questo la dottrina del progresso ipostatizza direttamente l’ideale del dominio sulla natura e degenera in una mitologia di seconda mano (è la Dialettica dell’Illuminismo): il progresso porta alla regressione. In ogni caso sia la mitologia statica che la dottrina del progresso dimenticano l’uomo. L’esito è comunque una scarsa attenzione e sensibilità per la vita individuale.

  • Vero araldo dell’idea di individualità è stato Socrate, figura molto positiva per Horkheimer. Ha affermato esplicitamente, per primo, l’autonomia dell’individuo sostenendo l’esistenza di una coscienza individuale. L’universale è una verità intima che si manifesta allo spirito dell’uomo: la scelta cosciente è conditio sine qua non della vita virtuosa. C’è il riconoscimento della centralità dell’individuo in Socrate. Il soggetto comincia a pensare a se stesso come alla più alta delle Idee: questa posizione ha il suo rischio. Pensando a se stesso l’uomo si distacca o si contrappone alla realtà. Gradualmente, via via che cresce la sua importanza come individuo, svanisce l’interesse per la realtà esterna: infatti, non a caso, le filosofie post-socratiche aumentano questo bisogno di un’armonia intima, staccata dal mondo. La filosofia diventa consolazione, sono filosofie della rassegnazione, dove l’uomo deve essere autarchico, rinunciare al desiderio di qualsiasi cosa per raggiungere l’apatia e questo porta alla dissociazione dell’ideale dal reale, al distacco dell’uomo dalla sua realtà. Ma questa individualità così isolata è di fatto menomata quando decide di occuparsi solo di sé. Quando l’uomo decide di rinunciare alla vita politica non fa che favorire il ritorno alla legge della giungla. Se l’individuo crede di potersi realizzare staccandosi dal contesto a cui appartiene, l’esito non può che essere la degenerazione del contesto stesso e dell’individuo stesso. L’idea di un isolamento individuale è sempre stata un'illusione perché anche le virtù migliori dell’individuo (l’indipendenza, la capacità di simpatia, l’amore per la libertà e il senso di giustizia) sono virtù sociali oltre che individuali: si nutrono della relazione con gli altri e della pluralità degli uomini. L’individuo può sperare di realizzarsi pienamente solo se si considera vincolato ad una società pienamente realizzata. L’individuo realizza se stesso e pensa al bene per sé se questo bene è anche bene per tutti ed il bene per tutti è anche il bene per ciascuno (Ugo Perone): ci dev’essere questa circolarità. Quando noi parliamo di emancipazione non dobbiamo pensare all’emancipazione dalla società: se c’è una possibilità per l’individuo di realizzarsi, questa può esserci solo in società. Semmai bisogna arginare l’altro rischio cioè quello di una società atomizzata, cioè una società che è semplicemente la somma quantitativa di tanti individui isolati tra loro come avviene nella cultura di massa. Nella società di massa ci sono tanti individui isolati, che non fanno nulla in comune, che non hanno nulla in comune se non quelle caratteristiche che servono per dominare.

  • Horkheimer parla del Cristianesimo. L’individuo e l’individualità torna come idea portante nel cammino della civiltà nel cristianesimo. L’individuo cristiano emerge dalle rovine della società ellenistica con molto vigore perché nella dottrina cristiana l’uomo è fatto ad immagine e somiglianza di Dio. Inoltre l’idea dell’immortalità dell’anima dice due cose importanti per quanto riguarda l’individualità:

  • Del valore assoluto ed insostituibile della vita dell’individuo perché l’immortalità dell’anima prevede l’immortalità di ogni singola anima.

  • L’elemento disperante della morte. Il Cristianesimo si presenta duplice: da una parte valorizza l’individualità tanto da nutrire la speranza di una continuità al di là della morte ma relativizza la vita mortale perché se diventa troppo forte l’altro riferimento viene meno l’importanza della vita terrena. In qualche modo viene allora mortificato l’istinto di autoconservazione e vengono repressi gli istinti naturali. Poiché – osserva acutamente Horkheimer – all’uomo viene sempre male reprimere gli istinti naturali e questo spiega l’insincerità che caratterizza la nostra civiltà. Gli uomini non riescono fare a meno di pensare e di manifestare il desiderio per ciò a cui han dovuto rinunciare per la loro civilizzazione: questa è la dinamite che c’è nella storia dell’umanità.

    • Amleto, 1600-1602, la prima figura vera e propria dell’individuo moderno che incarna l’idea di individualità perché teme la morte, l’abisso dell’annullamento. In questo lascia intendere il condizionamento del Cristianesimo: Amleto, non più cristiano, mantiene un’anima cristiana: questo segna la nascita dell’individuo moderno. C’è la percezione e la consapevolezza della propria mortalità senza più la speranza che poteva garantire l’adesione ad una fede.

    • L’Umanesimo rinascimentale mantiene questo valore assoluto dell’individuo concepito dal Cristianesimo ma elimina la relatività della vita mortale finita: c’è un’assoluta positività della vita e dell’individualità umana. In questo modo però prepara la distruzione dell’individualità: c’è un segnale che ci dice quando le cose andranno sicuramente male, cioè quando si verifica una qualunque forma di assolutizzazione e quando manca uno dei due termini che bilancia l’esperienza umana. Allora se io assolutizzo l’individuo e non considero ciò che lo relativizza (morte, trascendenza) sicuramente quell’individuo, al massimo della fioritura, consocerà la decadenza.

    • Liberalismo, periodo della libera iniziativa, dove l’individuo infatti degenera poiché diviene una sintesi di interessi materiali, facile da sottoporre al principio livellatore del commercio e dello scambio.

    • Oggi: c’è una descrizione piuttosto disperante da parte di Horkheimer anche se in fondo lascia una nota positiva (domani è un altro giorno). Oggi l’uomo comune trova sempre più difficile fare progetti non solo per i suoi eredi ma anche per se stesso. Non riesce nemmeno più a pensare al proprio futuro. La nostra politica e la nostra economia hanno perso la capacità di fare programmi per le prossime generazioni. Il problema è che non riusciamo neanche a garantire il presente di noi stessi. Il soggetto individuale si rattrappisce il suo futuro dipende sempre meno dalla sua prudenza e sempre più dalle lotte nazionali ed internazionali delle classi di potere. Il soggetto non padroneggia più la situazione, neanche le sue private finanze e non c’è più la possibilità di gestire nemmeno il proprio piccolo capitale. Diminuisce la base economica dell’individuo, che dipende da circuiti di cui non è parte e che deve in qualche modo accettare. Allora prevale il tipo rassegnato. La lezione è: se c’è un modo di farsi strada nel mondo, questo coincide con la rinuncia a realizzare se stessi. Se vuoi sopravvivere, devi adeguarti: non devi essere eccentrico, devi essere uniforme perché altrimenti come corpo estraneo verrai espulso dal sistema. Horkheimer ci dice queste cose per rafforzare in noi lo spirito critico che ci fa dire: non voglio che sia così. Arrivando all’estremo, all’insopportabilità di una situazione, qualcosa succede e una reazione si dà sicuramente. Questo è anche un voler vedere nella crisi un’opportunità di ripartenza. L’esito di una crisi è: o il suicidio (culturale, spirituale, civile) o una qualche forma di rinascita, cioè una ripartenza. L’uomo rassegnato si identifica con l’attività che svolge all’interno del sistema: questo non toglie la rabbia che prova quando acquista la coscienza di un desiderio non integrato, non inquadrabile negli schemi esistenti e che andrebbe represso perché non funzionale. Questo è sintomo di uno scontento che cova sotto la cenere. Perché la situazione è peggiore rispetto al passato? Perché in passato esistevano sistemi di idee (religiosi, ideologici, artistici, logici, filosofici e politici) che affermavano ognuno di essere la verità universale. Dove c’era possibilità di sopravvivenza per l’individuo? Nel fatto che questi schemi organizzativi non coincidevano esattamente con la vita pratica dell’uomo: in questo modo l’individuo trovava delle scappatoie e i sistemi spirituali rimanevano autonomi dalla loro diretta applicazione pratica. Erano sistemi non integrati e quindi c’era la possibilità di pensare altrimenti. C’era ancora una frattura tra la cultura e la produzione, frattura che ora non c’è più perché tutta la cultura è divenuta prodotta (si parla di industria culturale). Ora l’individuo è ridotto a essere una cellula di una semplice risposta funzionale: tu sei un consumatore, rispondi a certe esigenze, anche indotte e a certi ruoli che devi ricoprire. Oggi non ci sono possibilità di trasgressione vera e propria: anche le possibilità di trasgressione sono date perciò la trasgressione è prevista ed è assimilata. Nessuna di quelle dottrine del passato, anche così autoritarie, fece ciò che intende fare la cultura di massa. Essa cerca di vendere agli uomini il genere di vita (squallida, uniformata) che già conducono e che inconsciamente loro odiano. La cultura di massa gliela vende come cultura che essi accettano pur odiandola. Ecco perché siamo su un barile di polvere da sparo: la repressione continua dei veri desideri che pur si sentono ma che bisogna frustrare continuamente per accettare il sistema prima o poi porta all’esplosione. Con questo Horkheimer non dice di tornare indietro, sicuramente però qualcosa ci si potrebbe attendere dalla consapevolezza di questa tendenza monopolistica: cominciamo a riconoscerla. Quando aumenta il numero dei tuoi ruoli e delle tue funzioni, aumentano anche le tue responsabilità in questo senso. Il compito è pensare coscientemente a ciò che stai facendo e se la tua presenza è così funzionale all’interno del sistema. Il filosofo riveste un ruolo significativo in tal senso. Dovrebbero tutti essere disfunzionali al sistema, dovrebbero far pensare ad un diversamente, ad un altrimenti, sennò mancano la loro funzione. Non si deve demonizzare il progresso della tecnica né l’istinto di autoconservazione, che è sì responsabile della nostra decadenza se assolutizzato, però deve entrare a far parte di una maniera equilibrata di concepire la propria vita. Il lavoro, l’invenzione, il progresso scientifico di per sé non sono un male, sono la risposta al bisogno. Diventano male quando vengono assolutizzati e quando diventano fini a se stessi. Pensiamo al lavoro: biblicamente il lavoro è una maledizione, si comincia a lavorare dopo la cacciata dall’Eden. Oggi gli uomini dove sperano di realizzarsi? Nel lavoro. È divenuto la glorificazione dell’umanità. Questo è drammatico: nell’ordine sano di pensare alle cose, si lavora per vivere, non si vive per lavorare. La situazione allora è difficile perché abbiamo scarsissime possibilità di resistenza individuale. È difficile fermarsi perché non ci sono zone di sosta, tutto va avanti, tutto corre. Anche l’imprenditore e l’esperto è diventato un funzionario: sono tutti sottomessi allo stesso principio. L’adagio latino di Ovidio: “ha vissuto bene chi ha saputo vivere nascosto” è incompatibile con gli attuali cicli dell’economia moderna. Ecco perché il filosofo è disfunzionale: perché non lavora, deve oziare, si può permettere l’inutilità, la meditazione senza fini utilitaristici.


      • Horkheimer però dice che l’individuo è ancora vivo. È migliore del mondo in cui vive. Tuttavia “la sua vita sembra seguire schemi tali da quadrare perfettamente con qualunque questionario che gli si chieda di riempire”. È prevedibile in ogni suo aspetto: non c’è nulla che sia fuori, eccentrico e fuori dai binari previsti nella vita. Siamo tutti materiale da statistica. Bisogna considerare che la pressione che tutti patiscono non è inevitabile, irresistibile: se c’è è perché noi la accettiamo. Bisogna sperare che gli uomini capiranno un giorno che questo dipende dalla struttura sociale, dalla realtà sociale, che è una realtà storica, non è necessaria e può cambiare. Si può modificare la storia e si può partecipare alla storia. È possibile pensare di dar vita a un mondo nuovo in cui il mondo sia più umano. Ci sono stati dei veri individui che secondo Horkheimer sono coloro che hanno sopportato la violenza, la sopraffazione: i martiri, che hanno voluto resistere all’oppressione. Sono eroi quasi sempre dimenticati che hanno sottoposto la loro vita alla distruzione. Sono figure che non hanno di per sé voce: il filosofo ha la responsabilità di tradurre in linguaggio quell’esperienza di sofferenza. Il vero individuo non è quello che si è realizzato come persona felice, sono stati individui patendo la sofferenza dell’essere individuo che vuol dire magari sacrificarsi perché altri siano.





QUINTO CAPITOLO: “SUL CONCETTO DI FILOSOFIA”





Horkheimer registra una situazione culturale paradossale: da un lato si raggiunge in quest’epoca il culmine dell’antagonismo tra Io e natura, dall’altro il pensiero filosofico cui spetterebbe il compito di tentare la riconciliazione tra Io e natura, è giunto a negare o a dimenticare l’esistenza di quest’antagonismo, a cui la storia è legata. La storia inizia la sua storia negando la natura: il conflitto è ormai giunto all’apice e la filosofia lo nega o lo omette, non ne fa un argomento di riflessione. Se la filosofia diventerà consapevole di questo conflitto e della relativa omissione o indifferenza, allora – dice Horkheimer – sarà possibile contribuire a cambiare il corso del suo svolgimento. Bisogna difendere la cultura dalla deflagrazione. Il processo è irreversibile, è inutile ripescare vecchie antologie perché queste apparenti panacee sono pericolose perché rischiano di diventare a loro volta strumenti di repressione. Il capitolo si intitola “sul concetto di filosofia”: l’attenzione si sposta dal problema Io-natura e passa a spiegare il titolo. Non esiste una definizione, un concetto di filosofia. Esistono diverse definizioni che acquistano il loro significato solo nel corso del processo storico. Si deve sempre dubitare di definizioni che fanno a meno della storia. Se eliminiamo gli elementi storici cercando di dare definizioni atemporali manchiamo il bersaglio: la filosofia è fatta dalla storia del pensiero e dell’esperienza umana. Anche il linguaggio ha un’anima storica: l’attenzione dei filosofi deve andare al carattere storico del linguaggio. Il linguaggio è la sedimentazione dell’esperienza dell’umanità ed è fatto di significati semi-dimenticati: il filosofo deve trovare nel linguaggio il principio guida delle sue ricerche. Il linguaggio va protetto e seguito rigorosamente: bisogna saper parlare bene. È un attenzione alla sostanza del linguaggio che è esp


Aggiunto il 13/11/2020 16:08 da Davide Orlandi

Argomento: Filosofia della storia

Autore: Davide Orlandi