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Un habitus per il nostro habitat, ovvero l’importanza della seconda natura. Inflessioni su un saggio di Andrea Poma

INTRODUZIONE: Il problema del senso della storia

Nel testo Cadenze. Note filosofiche per la Postmodernità[1], Andrea Poma[2] descrive il Postmoderno come la situazione della società e della cultura contemporanee nell’età del capitalismo realizzato. L’autore, di conseguenza, avanza la proposta di un pensiero filosofico lirico, alternativo al “pensiero” dionisiaco, che faccia leva sulla Sehnsucht, intesa come presenza dell’assenza della nuova forma, e che, in aggiunta, sfoci in una prospettiva di Umanesimo. Il progetto del volume si snoda attraverso l’elaborazione di tre temi principali: la negazione dell’identità, il soggetto infranto e l’assenza di una teleologia nella storia e nella politica. La figura di Herman Cohen e il suo orizzonte etico costituiscono, forse più di ogni altro, il filo conduttore che rende il libro un sistema orientato a un fine. D’altronde, è opportuno segnalare un pregio del saggio, vale a dire l’accenno all’argomento che sarà trattato nelle pagine successive, alla fine delle varie cadenze, il quale favorisce di certo la lettura.  

            Il terzo tema (che abbiamo deciso di esaminare nel dettaglio in tale sede) affronta la questione dell’assenza di una teleologia nella storia e nella politica, in particolare attraverso l’esame del concetto di humour e della prospettiva del finalismo. In realtà, già fin dalla prefazione dell’opera (in riferimento alla posteriorità come unica indicazione per la denominazione dell’epoca postmoderna) Poma individua il problema: «E’ anzi perfino difficile immaginare come una cultura possa pensare se stessa senza riferimento al futuro, a un progetto, a un programma, senza un fine né un orizzonte[3]». Il “post-”, dunque, pare condurre soltanto all’aporia dell’oblio radicale: «E’ chiaro che il “novum” assoluto, senza rapporti con il passato, per ciò stesso si nega anche ogni rapporto con il futuro, ogni significato teleologico, ogni orizzonte programmatico; esso, inoltre, per non essere tra un passato e un futuro, non ha propriamente (almeno nel senso moderno del concetto) nemmeno un presente[4]».

            Alla fine della disamina del soggetto infranto, invece, Poma appura: «L’io non è una funzione di identità, nemmeno una funzione di coerenza, tuttavia esso è pur sempre una funzione di raccolta e di selezione degli eventi. E’ qui posto il grave problema della teleologia. La serie di eventi che mi costituisce come è selezionata? E, in secondo luogo, tale serie è una cronaca o una storia[5]?». Tali interrogativi introducono l’argomento della “cadenza” che apre il III tema, ovvero la “differenza etica”, tramite il confronto tra la “sapienza sotto il sole” e la “sapienza del cuore”. «Molti oggi negano ogni significato del finalismo», prosegue l’autore:

 

«Se tale negazione è una tesi sulla realtà, essa è certamente vera, ma è anche segnata dal limite delle proposizioni empiriche. Certamente il fine non è un dato di fatto, ma esso non hai mai preteso di esserlo, al contrario si è sempre configurato come un significato al di là dei fatti, un’interpretazione di essi[6]». 

 

La mancanza di una teleologia, d’altra parte, è uno dei caratteri decisivi che contraddistingue la postmodernità dall’era moderna, e che perciò determina anche la frammentazione del soggetto: «La cultura moderna credeva di poter riconoscere un fine degli eventi e quindi una storia in essi e riteneva anche di sapere quale fosse questo fine. […] Noi oggi non siamo più sicuri di vedere e di sapere il fine e quindi, per noi, anche la coscienza del soggetto è meno salda e sicura[7]».

Dopotutto, la questione della storia è cruciale per i teorici del Postmoderno fin dagli inizi, come dimostra la sfiducia nei “grandi racconti” della modernità, che Jean - François Lyotard tratteggia nel suo libro del 1979, La condition postmoderne. Da ciò deriva il rifiuto dell’enfasi del “nuovo” e, conseguentemente, l’abbandono dell’idea di “progresso” necessario. In questo senso, anche la nozione di posthistoire  coniata da Arnold Gehlen (per quanto questo non sia propriamente un autore postmoderno) conduce inevitabilmente al medesimo risultato, cioè alla tesi secondo cui la storia non appare più come un processo universale. Per il Postmodernismo, insomma, è chiara l’esigenza di oltrepassare la concezione moderna della storia come macrosapere onnicomprensivo e legittimante:

 

«Il disincanto dell’uomo postmoderno gli rende ormai impossibile credere in una teleologia necessaria o comunque garantita, che muova il senso della storia verso un suo fine o destino ineluttabile, sia esso la realizzazione dello spirito, dell’idea o della scienza. La fine della teleologia sembra comportare anche la fine della storia[8]».

 

Tuttavia, gli stessi autori postmoderni arrivano a problematizzare più a fondo l’assunto del “post-istorico”, specialmente quando esso implica rilevanti conseguenze etiche o politiche. E’ il caso, ad esempio, di Lyotard il quale, nel corso dei dialoghi con Jean-Loup Thébaud, mette in discussione le proprie convinzioni teoriche domandandosi se sia possibile in definitiva fare politica in assenza di finalità[9].

Insomma, come emerge chiaramente nella cadenza finale del testo di Poma, dopo la fine delle grandi narrazioni, ossia assodata l’inesistenza di una “Storia dell’umanità”, si può parlare per lo meno di “storie dell’umanità”? E’ allora sensato cercare un senso delle storie all’interno dell’accidentalità degli episodi? A ben vedere, «una storia senza senso non può essere narrata[10]». Ma che cosa si intende per “senso”? Il termine, infatti, assume almeno cinque significati: 1) sensibilità, in relazione ai cinque sensi; 2) coscienza o consapevolezza in genere, sensazione; 3) sentimento; 4) significato; 5) direzione. Possiamo perciò ancora leggere la storia per interpretarne il senso, almeno in uno dei suoi significati? E’ possibile credere a versioni differenti di una medesima storia[11]? Non sarebbe desiderabile invertire la rotta e dirigersi verso orizzonti migliori? E’ quello che ci siamo chiesti nello sviluppare il presente lavoro, partendo dalle riflessioni di Poma e prendendo in considerazione i contributi dei filosofi citati in Cadenze, approfonditi e messi a confronto con altri pensatori secondo noi utili per una ulteriore comprensione.

1. Il sistema dei flussi nel capitalismo realizzato

Abbiamo impostato la relazione che segue in tre parti: nella prima, dopo aver contestualizzato il sistema dei flussi nel dogmatismo capitalistico e tecnocratico, così come compare in Cadenze, esporremo la descrizione del problema che Poma formula in “La sacralità della seconda natura, ovvero il capitalismo trionfante”. Nella seconda, invece, delucideremo la questione grazie alle considerazioni sociologiche che Zygmunt Bauman compie nel suo saggio Modernità liquida. Nella terza, infine, proporremo una serie di riflessioni conclusive su cosa possa voler ancora dire essere alternativi al sistema oggi.

Nella precedente cadenza, dedicata alla figura di Hermann Cohen e alla nozione di Sehnsucht della forma, Poma riabilita il ruolo della critica nel Postmoderno, in quanto «essa deve continuare a mettere in dubbio le false certezze, che si presentano innanzitutto nel dogmatismo capitalistico e tecnocratico[12]». Una decina di pagine più avanti, l’autore descrive la società capitalistica, retta dal sistema del cinismo:

 

«I flussi di desiderio circolano liberamente e indifferentemente, non codificati, ma unicamente assiomatizzati secondo regole della loro congiunzione in riferimento al capitale. Si tratta di un sistema senza limiti interni, perché capace di spostare i propri limiti, di estendere sempre oltre la propria assiomatica, a regolare qualunque nuovo flusso di desiderio, che minacci di cadere fuori dal sistema. Apparentemente, dunque, una situazione di massima libertà di circolazione dei flussi di desiderio; in realtà il sistema che più di ogni altro è in grado di controllare in modo cinico e generalizzato qualunque flusso di desiderio[13]».

 

Alla fine della sua disamina su sacro e profano, inoltre, il Professore argomenta contro i rappresentanti del laicismo e dell’ateismo scientista i quali, «nell’apparenza di una lotta contro ogni sacralità ed ogni superstizione, sostengono di fatto una concezione “sacrale” della tecnologia, come potenza sovraumana, che non può essere dall’uomo regolata, ma solo obbedita e servita sino a i suoi esiti imperscrutabili[14]». Infine, nelle ultime pagine del saggio, opposta alla proposta di un Umanesimo, Poma illustra la prospettiva anti-teleologica del Postmoderno, come accettazione del «caos dei fatti bruti» all’interno di «una natura onnipotente, nella quale le vicende umane non sarebbero altro che microscopici e irrilevanti fenomeni, assorbiti nell’ottuso magma del divenire». Questa, d’altro canto, sarebbe «l’implicazione inevitabile e nefasta di un’influente mentalità tecnologica, che spegne ogni speranza ed ogni progettualità nella fede superstiziosa nell’ineluttabilità del cosiddetto progresso tecnologico, vissuto come il fato cieco di una vera e propria “seconda natura”[15]».

           Ecco perciò configurata la cornice entro cui Poma dipinge, con uno stile quasi profetico, l’ultima cadenza del III tema, intitolata “La sacralità della seconda natura, ovvero il capitalismo trionfante”. Il capitolo si apre con l’immagine sublime di un’eclissi lunare, in cui l’impotente uomo primitivo si accorge della smisurata potenza della Natura. L’immagine successiva è il crollo finanziario provocato dalla crisi economica, in cui si assiste al sacro sacrificio di tanti impotenti “Io”, che cercano di placare l’indifferente e imperscrutabile forza del Capitale. A questo punto è narrato il cambiamento avvenuto mediante la negazione del sacro da parte dei padri urriti, e l’instaurazione del rapporto Dio-Tu. Il movimento seguente nella tecnica dei tempi moderni, tuttavia, sancisce un nuovo comandamento per cui “la Tecnologia è un sacro Tutto”. Il racconto giunge fino ai giorni nostri, dominati dal Capitale e dalle sue Tecniche, le cui momentanee ‘crisi’, in realtà, non fanno altro che ribadire la vitalità e il pulsare del Capitalismo. La cadenza, pertanto, si chiude con un appello «contro la sacralità del Capitale e della sua Tecnica[16]».  

 

2. La modernità liquida di Bauman

Al fine di comprendere più a fondo l’attuale condizione socioeconomica dei flussi delineata da Poma, ci è sembrato utile prendere spunto da Modernità liquida di Zygmunt Bauman, noto pensatore polacco. La prefazione del libro, intitolata “Sull’essere leggeri e liquidi”, si apre con una bella poesia di Paul Valéry, che funge da incipit per l’elaborazione del concetto di fluidità, intesa come la principale metafora dell’attuale fase dell’epoca moderna[17]. Nel dettaglio, Bauman parte proprio dall’analisi del diverso stato molecolare dei liquidi e dei corpi solidi e, perciò, del loro differente rapporto con il tempo e lo spazio. Infatti, il legame chimico e la forma propria dei secondi sono opposti alla leggerezza, alla mobilità e alla variabilità dei primi. «Le descrizioni dei fluidi», osserva il sociologo polacco, «sono tutte delle istantanee sul cui retro occorre sempre apporre la data», per cui «i fluidi viaggiano con estrema facilità[18]».

Quello che è importante per i nostri propositi, però, è la disamina di Bauman sulle caratteristiche fondamentali che distinguono quella che lui chiama “protomodernità” o modernità classica, dalla odierna “modernità liquida” o seconda modernità. Innanzitutto, l’autore si interroga se la modernità non sia stata fluida fin dalla sua nascita; dopotutto, “fondere i corpi solidi”, citando il Manifesto del Partito Comunista, significava profanare il sacro, detronizzare il passato e liquefare la tradizione. Tuttavia, il processo era pensato pur sempre per preparare il terreno a “corpi solidi” nuovi e migliori. D’altronde, l’intenzione segnalata da Max Weber era appunto quella di liberare lo spirito d’iniziativa imprenditoriale dalle “pastoie dei doveri familiari” e dal tessuto degli obblighi morali. Qui Bauman vede la germinazione del dominio della razionalità strumentale e del ruolo determinante dell’economia che impone il “nuovo ordine” sulla vita della società, la quale diventa una “sovrastruttura”. Da ciò deriva l’“assiomatica” tipica del capitalismo: «La rigidità dell’ordine è il prodotto e il sedimento della libertà degli agenti umani[19]». Ed è proprio la liberà, insieme alla critica, il nucleo su cui si gioca la partita tra prima e seconda modernità. Bauman rileva infatti che il terrore del “Ponopticon” o la distopia alla Orwell, in cui la libertà dei cittadini è rigidamente controllata, sono completamente svuotati di senso con l’avvento del capitalismo liquido, dove al contrario il consumatore è totalmente autonomo di scegliere come indirizzare i suoi desideri. Il contrappasso è però una forma di anomia che conduce all’impotenza di non poter evitare la scelta: «L’altra faccia della libertà illimitata è l’irrilevanza della facoltà di scelta[20]». Ancora a riguardo: «In una società di consumatori tutto è una questione di scelta, tranne l’obbligo di scegliere, l’obbligo che si trasforma in inclinazione e che dunque non è più percepito come obbligo[21]». In questo senso, «la lista della spesa non finisce mai. E tuttavia, per quanto lunga tale lista possa essere, il modo di dissociarsi dallo shopping non vi figura[22]». Ne deriva che il gusto dolce dell’infinita gamma della scelta porta con sé anche un aroma di impotenza: «Liberare le persone potrebbe significare renderle indifferenti[23]». La modernizzazione, per Bauman, confluisce perciò nell’impossibilità di sentirci veramente gratificati[24].

La specificità della modernità liquida, in particolare, si registra nella totale emancipazione del consumatore nei confronti della società, cosicché l’individuo entra in conflitto con il cittadino, in virtù dei fenomeni di individualizzazione e autodeterminazione. La situazione che si è creata è quella che l’intellettuale polacco chiama “vendetta del nomadismo”, opposta al “riaccasamento” della modernità solida. Infatti, mentre in questa fase l’individuo civilizzato mirava a una forma di collettivismo (dapprima mediante l’iscrizione come membro di uno stato, poi tramite l’acquisizione presso una classe sociale), nel momento liquido si nota un mancato accasamento che porta alla solitudine. Così si forma un intoppo nella distinzione tra pubblico/privato: «Dover diventare ciò che un altro è costituisce l’elemento peculiare della vita moderna[25]»; «l’individualizzazione è un destino, non una scelta[26]» – l’inclinazione diventa una obbligo. Ecco perciò l’impotenza pratica del Grande Fratello o del despota illuminato, tanto che Bauman afferma: «Qualsiasi reale liberazione richiede oggi più, non meno, “sfera pubblica” e “potere pubblico”[27]». In altre parole, il fosco presagio di un mondo rigidamente controllato, come descritto ne Il mondo nuovo di Huxley o in 1984 di Orwell, non ha più motivo di preoccupare, data l’emancipazione totale del flussi individuali[28].

      Bauman continua il raffronto tra le due tappe dell’era moderna mediante la distinzione tra il capitalismo pesante e quello leggero: il primo, rappresentato dal mondo fordista e dal principio tayloriano di regolamentazione, era ben descritto dal discorso di Giosuè, in cui l’ordine è la regola e il disordine l’eccezione. Il secondo, invece, è tratteggiato piuttosto dal discorso della Genesi, dove il disordine è la regola e l’ordine l’eccezione. Inoltre, mentre nel primo vige un razionalismo strumentale rappresentato dalla burocrazia, dall’Ufficio supremo e dalla “gabbia di ferro” di weberiana memoria, in cui quella tra capitalismo e socialismo appare una lite in famiglia, il secondo è qualificato dal dolce sapore col retrogusto amaro del banchetto del mondo, ove si ripete l’agonia del consumatore, sempre “automunito, disposto a viaggiare”. Qui, difatti, si corre la maratona infinita del consumatore che, come un razzo ausiliare di una navicella spaziale, insegue i propri desideri. In tale contesto, lo shopping diviene il codice della politica della vita, che ha la sua base nel corpo del consumatore: il bisogno, il desiderio e il capriccio segnano il passaggio dal solido principio di realtà al fluido e gassoso principio di piacere[29].

Così, se la società dei produttori protomoderna risultava ancorata ai criteri di adeguatezza e salute, viceversa la società dei consumatori aderisce agli standard di assenza di norme e fitness. E se termini quali ‘autorità’, ‘notorietà’, ‘leader’, ‘noi’ assumevano ancora un senso nell’epoca della “Politica con la P maiuscola”; oggi quei profili sono sostituiti da ‘consulenti’ che guardano all’io della politica della vita, in cui si assiste al gareggiare di numerose autorità: «La leadership è stata sostituita dallo spettacolo, e la sorveglianza dalla seduzione[30]». Il parallelismo tra le due fasi della modernità, insomma, è ben spiegato da Bauman attraverso la comparazione tra Rockefeller e Ford da una parte, contro Bill Gates e Microsoft, dall’altra[31]. L’autore insiste ancora sul carattere ingannevole della scelta consumistica, per cui si è “liberi di far compere – o almeno così sembra”, poiché la beatitudine di poter scegliere nasconde il fatto che «solo il desiderio è desiderabile: quasi mai il suo soddisfacimento[32]». Lo shopping, anzi, diventa una sorta di rito di esorcismo, un rituale quotidiano dove si cerca una via di fuga dall’ansia della insicurezza, mediante il riscorso al fai-da-te e a una data di scadenza. Per tali motivi, il consumatore è forse la figura più emblematica di quello che Poma chiama soggetto infranto, alla disperata ricerca di appagamento dentro al supermercato delle identità[33].

            Il passaggio dalla modernità pesante a quella leggera ha anche effetti sulla percezione del tempo e dello spazio, come ricordato in precedenza: con l’hardware il  tempo è standardizzato e impiegato per la conquista dello spazio; col software, invece, lo spazio diviene irrilevante e il tempo si annulla. Tuttavia, se da un lato tale mutamento produce il seducente vivere all’istante nella leggerezza dell’essere, dall’altro lato esso comporta anche ingenti trasformazioni, per esempio nel mondo del lavoro: si è passati dalla mentalità a lungo termine a quella a breve termine, in cui la flessibilità è sintomo di incertezza e disimpegno. Così cambiano pure i legami umani nel mondo fluido, permeato da una “cultura da casinò”. Procrastinazione e non-fiducia influenzano la disintegrazione delle unioni, come emerge dalla preferenza della coabitazione rispetto al matrimonio. Inoltre, dopo lo smantellamento dello Stato-nazione, sostituito da un volgare e violento nazionalismo, le comunità assumono ormai la funzione provvisoria di “guardaroba”[34].

 

3. Essere alternativi al sistema

Dopo aver preso atto della desolante condizione postmoderna illustrata sia da Poma che da Bauman, ci sembra lecito domandarci: come si può uscire dall’impasse capitalistica? E’ auspicabile, dopo tutto? In caso di risposta affermativa, quali vie sono percorribili? Esaminando il quadro affrescato da Poma, la natura sembra raffigurata, per certi versi, con toni affini a quelli che utilizza Leopardi nel celebre Dialogo della Natura e di un Islandese, ove il poeta si fa portavoce del pessimismo cosmico tramite la figura della natura matrigna. Nell’operetta morale, com’è noto, l’Islandese arriva presso «l’interiore dell’Affrica», dove la Natura, nelle fattezze di una gigantesca donna «di volto mezzo tra bello e terribile» dimostra più che altrove la sua potenza[35]. Proprio questo aspetto della natura, tuttavia, sembra essere quello avallato da coloro che Poma definisce «idioti che cantano inni alle meraviglie progressive della Tecnica» circondati da «eunuchi, prostitute e nani di una corte demente[36]». Ciò che essi forse non tengono in debita considerazione è che la prima natura determina pur sempre la seconda, tant’è che il capitalismo non può vivere senza risorse naturali. Ne consegue che l’unico avvenimento che può porre fine al capitalismo è forse la catastrofe naturale. E’ davvero questo il destino dell’umanità? L’intellettuale francese Serge Latouche risponde indicando nella “decrescita felice” un sentiero per essere alternativi alla deriva consumistica occidentale, grazie a “obiettori di crescita” che lottano «con mezzi possibilmente pacifici: non-violenza, disobbedienza civile, defezione, boicottaggio, armi della critica[37]». Ma cosa significa essere critici o alternativi al sistema? E’ possibile una rivoluzione ai tempi del capitalismo? Infatti, la fine delle grandi narrazioni ha comportato non solo la messa in discussione di alcune categorie filosofiche tradizionali quali ‘critica’ e ‘dialettica’, ma anche la crisi delle ideologie e di categorie politiche rigide, come per esempio ‘destra’ e ‘sinistra’. Quello che si nota, a tal proposito, è una palese incoerenza tra i rumorosi progetti di “ribellione” e il fatto di essere comunque pienamente assorbiti dalla lava del capitale.

            Quello che proponiamo allora è un radicale mutamento nella considerazione della natura: essa non deve più essere vista né come un Ente onnipotente da venerare e a cui offrire sacrifici per placare la sua ira; né alla stregua di un oggetto inerme infinitamente manipolabile per le nostre irrazionali logiche di profitto o, alla peggio, un immondezzaio dove finiscono i nostri desideri scaduti. La natura deve essere intesa come un patrimonio dell’umanità da salvaguardare e custodire con cura. Secondo noi è inoltre necessario ripensare seriamente le nozioni di economia e tecnologia, oltre che quella di “benessere”, per riproporre un autentico ben-essere, che non può non tenere conto della prima natura, quale ricchezza fondamentale per la nostra salute psicofisica. A ben vedere, la tecnica di per sé non è un male, anzi ha oggettivamente fatto progredire il genere umano. Si pensi, a titolo esemplificativo, alle applicazioni mediche volte alla riduzione del dolore, inerenti al campo della bioetica. Allo stesso modo, il denaro non è necessariamente sterco del demonio. Forse il capitalismo così come si è attualizzato è davvero una sorta di seconda natura, cieca e irrazionale, ma è possibile un capitalismo razionale? A noi, intanto, sembra importante sostituire la tecnocrazia dei nostri tempi con una forma più cauta di τέχνη (téchne), intesa nell’accezione originale di “arte” nel senso di “perizia”, “saper fare”, “saper operare”. Parimenti, sarebbe utile passare dall’economia dello spreco e dello shopping consumistico ad una autentica eco-nomia – da οκος (oikos, “casa”) e νόμος (nomos), “norma” o “legge” –, vale a dire letteralmente al “management del beni di famiglia” o “amministrazione della casa”. In questo senso, l’economia è per definizione economia domestica, volta alla gestione dei beni comuni di un ecosistema – un habitus per il nostro habitat. Ma essa è degenerata nella schizofrenica virtualità dei flussi finanziari[38] a cui assistiamo impotenti, che attanaglia le nostre vite e satura le nostre pattumiere, purtroppo drammaticamente reali. Siamo portati a sostenere ciò valutando che magari quegli attributi dell’umano elencati da Poma nelle ultime pagine del suo libro – equità, cortesia, benevolenza, tenerezza, pace[39]– si possono conquistare più facilmente anche grazie all’ausilio di nuove tecnologie e di liquidità.

Date le condizioni in cui verte il nostro Pianeta, concludendo, servirebbe opporsi allo «scetticismo e al cinismo dionisiaci della cultura dell’effimero e dei simulacri[40]», come sollecita Poma, per riaffermare però il concreto sostrato materiale come subjectum o Ùποκείμενον, cioè come “ciò che sta sotto” alla realtà. In questo senso, sarebbe forse più vantaggioso che il rovesciamento del platonismo si attuasse dall’Iperuranio o cielo delle idee a quello che si può chiamare Ipogèo[41] e che, in aggiunta, il pensiero della differenza si realizzasse concretamente passando, per esempio, dalla mono-coltura alla conservazione della biodiversità, e dall’indifferenziato omologante della globalizzazione alla raccolta differenziata. Ora che gli urriti si sono emancipati dallo strapotere della natura mediante la loro cultura, occorre preservare la prima come elemento imprescindibile della seconda, in quanto indispensabile ricchezza per l’autentico ben-essere dell’uomo e, in caso estremo, onde evitare l’estinzione della specie umana e la distruzione del pianeta Terra.

 

 

APPROFONDIMENTO

Alla luce di quanto esposto sopra, ci è sembrato opportuno svolgere alcune considerazioni circa il ruolo del pensiero postmoderno nella situazione del capitalismo realizzato. A tale proposito, introdurremo in primo luogo il “pensiero debole” di Gianni Vattimo come espressione del Postmodernismo e, in secondo luogo, presenteremo il “nuovo realismo” di Maurizio Ferraris come sua alternativa. Da ultimo, ci siamo riservati uno spazio per sviluppare degli spunti di riflessione sulla funzione della filosofia al giorno d’oggi.

 

1. Il pensiero debole

La ripulsa della mentalità prometeica, ossia l’opposizione alla mera ragione tecnico-scientifica (che ha favorito il radicarsi del movimento ecologista), è per certi versi un elemento in comune con alcune costole del Postmodernismo[42]. Tuttavia è doveroso notare che altri esponenti del “movimento” hanno invece accolto con entusiasmo l’avvento delle tecnologie informatiche e multimediali, scorgendovi un nesso tra mass-media e democrazia, e ritenendo che la realtà, divenuta l’insieme delle immagini e delle interpretazioni, si potesse finalmente emancipare in favore delle minoranze e del pluralismo. Ci riferiamo alle prime formulazioni del “pensiero debole” di Gianni Vattimo, dove il pensiero delle differenze e delle minoranze sbanda circa le previsioni ireniche sul potenziale delle tecnologie nel processo di emancipazione dal pensiero unico. Ciò che si è verificato, piuttosto, è l’affrancamento dai fondamenti della natura ad opera della tecnica che però, come avverte Deleuze richiamandosi alla prudenza, può condurre all’«autodistruzione per overdose[43]».

Il Postmoderno, invero, ha determinato notevoli trasformazioni nella direzione di una filosofia sostenibile, anche in ambito strettamente scientifico, in cui si è assistito, per esempio, al passaggio dalle cosiddette scienze “dure” o teorie forti alla scienze “deboli” o teorie ingenue[44]. Oltre a ciò, il pensiero strumentale e totalitario volto alla riduzione/soppressione dell’altro è stato fronteggiato da un reale pensiero della differenza, come dimostrano le teorie della complessità e dei sistemi complessi. Esse invitano a prendere atto della limitatezza delle facoltà mentali umane e a riconoscere i limiti delle cosiddette “scienze esatte”, basate sul calcolo matematico ma pur sempre soggette a previsioni di tipo probabilistico. Al contrario, esse propongono una nuova concezione del sapere, ossia una scienza post-normale che tenga conto dei nei all’interno delle discipline specialistiche serrate nei rispettivi dipartimenti accademici e, viceversa, dei vantaggi che scaturiscono da un metodo multidisciplinare ai problemi[45].

Tuttavia, cosa comportano globalmente la flessibilità, la plasticità e l’elasticità del Postmoderno? Questi attributi rivendicati dai pensatori postmoderni hanno influito sul diffondersi del dogmatismo capitalistico e tecnologico? Abbiamo precedentemente preso in esame alcune caratteristiche del Postmodernismo, inteso nell’accezione squisitamente filosofica. Ma il termine vale anche per nominare più in generale uno stato di cose, ovvero il fatto di vivere in una società complessa e pluralista, multirazziale e multiculturale, con una fisionomia policentrica e diversificata. Al dato del mondo frammentato i filosofi postmoderni rispondono offrendo un paradigma della molteplicità, i cui simboli sono, da una parte, Orfeo – il semidio mitico che persiste nel canto anche dopo la morte per smembramento – e, dall’altra, la torre di Babele – emblema della proliferazione dei linguaggi. Cosicché, se dal punto di vista teorico essi fanno leva sulla differenza, la loro dimensione etica ha come centro focale la tolleranza e, in ambito politico, la prospettiva postmarxista e postliberale sfocia in programmi attenti alle cause delle minoranze. Certo, resta aperto il problema secondo cui non è lecito accettare a priori ogni minoranza per il solo fatto di essere marginale rispetto a una maggioranza dominante. Questo, d’altra parte, è il terreno su cui Lyotard inizia ad indietreggiare, costretto a rivedere le proprie idee quando gli si chiede se sia possibile giustificare il terrorismo. La difesa della plurivocità, in effetti, comporta il rischio del revisionismo, fino alle gravi conseguenze del negazionismo. Da qui è nato, ad esempio, il dibattito circa il caso di denazificazione heideggeriano, tra Vattimo e Maurizio Ferraris, di cui non ci è possibile trattare in questa sede[46].

Tuttavia, Vattimo e Ferraris ci servono in quanto rappresentanti di spicco di due modelli teorici opposti della filosofia contemporanea, nonostante una iniziale convergenza. Il primo è stato infatti uno dei più influenti pensatori postmoderni che, in opere quali La fine della modernità, Il postmoderno, Le avventura della differenza, Al di là del soggetto, elabora in maniera originale le nozioni di nichilismo e di filosofia del mattino di provenienza nietzschiana, vale a dire l’assunzione della morte di Dio o il venir meno degli assoluti metafisici. Un altro punto di riferimento della filosofia di Vattimo è certamente Heidegger, con la sua concezione epocale dell’essere, che implica uno strutturale indebolimento di esso. La temporalizzazione dell’essere, per Vattimo, va per altro ricercata a fondo nei concetti di pietas, Verwindung e Andenken.

Uno degli sviluppi maggiormente significativi della filosofia di Vattimo è, come accennato in precedenza, il “pensiero debole”. Il primo cardine di tale prospettiva è appunto l’annuncio nietzschiano della morte di Dio, anche se, avverte Vattimo, «questo annuncio non è l’enunciazione metafisica della non-esistenza di Dio; vuole essere la vera presa d’atto di un “evento”, giacché la morte di Dio è proprio, prima di tutto, la fine della struttura stabile dell’essere, dunque anche di ogni possibilità di enunciare che Dio esiste o non esiste»[47]. Sempre da Nietzsche deriva la constatazione che l’uomo rotola via dal centro verso la x e che, in aggiunta, dato l’elogio degli uomini moderati, la debolezza deve essere ormai intesa propriamente come forza. Il pensiero debole sorge dunque nell’assenza di fondamento, che lascia spazio per molte storie e molteplici narrazioni. Queste idee sgorgano anche dall’altro autore essenziale del Postmoderno, ossia Heidegger, che elabora il pensiero della fine della metafisica come storia dell’essere, indicando la deriva destinale di quest’ultimo. Heidegger, com’è noto, associa i fenomeni di oblio dell’essere e declino della metafisica, di modo che l’essere è inteso come “ac-cadere” o “tras-missione”. Ne consegue che l’Occidente è propriamente interpretato come terra del tramonto dell’essere, che sfocia quindi nel nichilismo.

Proprio il vuoto di forme, in effetti, sembra essere la caratterizzazione peculiare del Postmoderno che si è declinato nell’irrazionalismo deleuziano e nel nichilismo debole alla Vattimo. Per contrasto, ad essi si può opporre un pensiero “forte” che o insiste sul razionalismo critico, come illustra Poma circa la filosofia pura di Cohen, o denuncia la convergenza carsica tra Postmodernismo e capitalismo tecnocratico. Infatti, se per realtà si intende l’insieme delle immagini e delle interpretazioni, lo scacco del pensiero debole sta proprio nella virtualità a cui esso conduce, in accordo col binomio capitalismo-tecnocrazia. In altre parole, gli oggetti sono ormai diventati mera mercanzia, se non feticci o simulacri misurabili in bytes, prescindendo dalla consistenza del loro peso gravitazionale; salvo poi accorgerci degli elementi chimici di cui si compongono una volta che i PC, fatti di plastica, metallo e silicio, intasano le nostre discariche. Allo stesso modo, gli animali hanno un valore in quanto articoli di compravendita e attrazioni circensi, oppure cavie per esperimenti di laboratorio. Parimenti, gli esseri umani figurano al più come clienti o consumatori; avatar di una Second Life dove l’identità è un profilo, il dialogo una chat e la libertà d’opinione un cinguettio. Cosicché possiamo affermare: «Nichilismo, relativismo e scetticismo formano, infatti, una costellazione unitaria che, nell’attuale congiuntura, maschera il fondamentalismo integralistico del capitale, rendendo impossibile, per chi ne accetti l’ideologia, una critica radicale di ciò che siamo[48]». D’altra parte, gli stessi autori ascrivibili al pensiero debole si erano accorti di tale rischio: «Evitare che la debolezza del pensiero venga erroneamente pensata come abdicazione di tipo storico-culturale, una apologia indiretta dell’ordine delle cose esistente, nel quale la direzione della storia sembra affidata ad agenti assai diversi dalla meditazione filosofica[49]». In un altro passo del medesimo volume, Vattimo si chiede: «Debolezza anche nel senso della accettazione dell’esistente e dei suoi ordini dati, e dunque una incapacità di critica sia teorica sia pratica? […] Non nascondiamoci che il problema esiste[50]». Anche se, in un’altra opera, ovvero Della realtà. Fini della filosofia, lo stesso Vattimo individua una certa “nevrosi di realismo” che può condurre alla “dittatura del presente”, da cui è necessario fuggire in virtù del concetto di essere come sospensione o sottrarsi. Franco Crespi, invece, altro autore riunito nel progetto del pensiero debole, nel capitolo intitolato “Assenza di fondamento e progetto sociale”, dopo un’analisi sulle esperienze dei limiti del pensiero, prendendo come riferimento Wittgenstein e il suo insistere sui confini del dicibile tramite il al tacere, si sofferma, in primo luogo, sull’indebolimento del soggetto, dell’essere e della teoria della conoscenza e, in secondo luogo, sul nesso tra neopositivismo e violenza, implicato nelle posizioni forti della metafisica classica, dell’idealismo e del positivismo[51]. Pier Aldo Rovatti, in aggiunta, osserva: «Il prete e il tiranno, pur continuando a esistere materialmente sono già fuori di scena. La scena è appiattita. E’ questo appiattimento, che tutti condividono, l’attuale figura del “pensiero forte”». Lo stesso autore prosegue così: «In questo ovvio semplificare le cose, sta il carattere forte del pensiero[52]».

 

2. Il nuovo realismo

L’accusa di accettazione dello status quo è anche stata mossa nei confronti di Massimo Ferraris e del suo Manifesto del nuovo realismo. In questo testo, egli si schiera contro la deriva dell’ermeneutica, e contro quelli che lui definisce i “due dogmi del postmoderno”: che la realtà sia socialmente costruita e infinitamente manipolabile; che la verità sia una nozione, in fin dei conti, inutile[53]. Il “Nuovo realismo”, viceversa, è descritto come la fotografia di uno stato di cose, e la presa d’atto di una svolta[54]. Nel dettaglio, Ferraris muove contro l’attacco postmoderno alla realtà, che è finito col diventare populismo, ovvero quello che lui chiama “realitysmo”: l’utopia realizzata dei talk show. Di particolare interesse è il fenomeno “ironico” della «virgolettazione del mondo», sintomo di pressapochismo e parassitismo. Infatti, considerando il pensiero alla stregua di una mascherata caricaturale («un Hegel “filosoficamente barbuto”»), i postmoderni deboli si sono fatti portavoce di un clima anti-illuministico, annunciando addirittura la fine della filosofia. Un altro tema degno di nota individuato da Ferraris è la “desublimazione”, cioè il conservatorismo a cui approda la “rivoluzione desiderante[55]”. Prendendo come riferimento la teoria della “desublimazione repressiva” di Horkheimer e Adorno, Ferraris mostra in che modo la critica della morale e il relativismo abbiano condotto a un opinione pubblica moralista, che fa leva sul gossip. Ma il vero campo di battaglia dell’autore è la manovra postmoderna della “deoggettivazione”, per cui la verità nietzschiana, il ricorso al mito e la radicalizzazione del kantismo hanno portato alla delegittimazione del sapere umano, vale a dire a uno scetticismo diffuso e all’addio alla verità.

Di conseguenza, ciò che propone Ferraris è un ritorno al realismo, in cui giustapposizione, drammatizzazione e onirizzazione[56] sono sostituiti dalla fine della svolta linguistica, da una riabilitazione della percezione e, infine, da una “svolta ontologica”. In questo caso, l’ontologia è l’arma contro cui combattere quella che lui chiama «fallacia trascendentale o dell’essere-sapere» (secondo cui l’ontologia è ridotta all’epistemologia), così come la critica serve contro la «fallacia dell’accertare-accettare» (per cui la conoscenza corrisponde a rassegnazione). Da ultimo, l’Illuminismo è indicato come il dardo che affronta la terza «fallacia del sapere-potere», per la quale conoscere significherebbe necessariamente manipolare. In opposizione all’intuizione costruzionista, secondo cui il conoscibile è ciò che è costruibile, Ferraris sostiene invece che «il reale è nudo», e che quindi «posso sapere (o ignorare) tutto quello che voglio, il mondo resta quello che è[57]». In effetti, ragiona l’autore, ci sono cose che esistono dall’inizio del mondo, inemendabili, che si incontrano nell’ambito percettivo e che non si può correggere ma, viceversa, offrono resistenza e contrasto. Ma questo non significa accettare il presente così come è dato, piuttosto che la critica può solo iniziare laddove è accertata la realtà. Altrimenti, prosegue Ferraris, sarebbe «come dire che l’ontologia accetta la realtà e l’oncologia accetta i tumori[58]». Anche perché, di fatto, la derealizzazione sognata dalla postmodernità liquida non ha significato affatto emancipazione[59]. A questo punto il dibattito con Vattimo entra nel vivo, in quanto il suo cosiddetto “esperimento dell’addio alla verità” sarebbe l’esito estremo della fallacia sapere-potere, poiché comporterebbe scetticismo e relativismo. Infatti, più delle tre versioni della fallacia, tra cui Foucault e Rorty, quella di Vattimo radicalizzerebbe fino alle sue estreme conseguenze il motto di Nietzsche: “Non ci sono fatti, solo interpretazioni[60]”.

 

3. Il destino della filosofia

A nostro parere, l’analisi che svolge Ferraris sui processi di “deoggettivazione” e “derealizzazione” messi in moto da certo postmodernismo risulta, in definitiva, corretta. Essa, per altro, può costituire un saldo punto di partenza per i nostri propositi sulla necessità di una nuova Weltanschauung nei riguardi della natura. Avviandoci verso la conclusione di questo testo, ci permettiamo ancora di svolgere una serie di riflessioni, anche se sicuramente manchevoli e limitate, sul pericolo di un ritorno del pensiero dell’identità. Prima di tutto, a noi pare che anche la filosofia analitica rientri nell’insieme del “pensiero forte” e unico. D’altra parte, come intuisce Poma: «Nell’epoca della “svolta linguistica”, paradossalmente, la parola non ha più luogo». Effettivamente, se A=A, allora si verifica una riproposizione del pensiero dell’identità. A noi, invece, sembra che l’esigenza della filosofia di oggi sia quella di non appiattire, livellare, semplificare ma al contrario stratificare, differire (rimandare a un surplus di senso mai totalmente afferrabile), diversificare, differenziare e problematizzare. Che non significa complicare le cose, ovvero renderle caotiche e disordinate, sparpagliarle alla rinfusa (come intende fare certo pensiero postmoderno di indirizzo deleuziano), quanto piuttosto inserire dei punti interrogativi (pensiero critico) al posto dei numerosi punti esclamativi (pensiero totalitario: “ordinare”, mettere in ordine e comandare) e dei punti fermi (pensiero strumentale) nel presente, affinché la realtà sia più ricca. Pertanto, forse mai col punto fermo dovrebbe concludersi un trattato, ma sempre con un punto di domanda o con puntini di sospensione, per invitare a proseguire nella ricerca, stimolando il dubbio, il confronto, il dibattito e, inoltre, per aprire una dimensione di trascendenza rispetto allo status quo. Questo, per certi versi, è anche il senso del metodo trascendentale della filosofia pura di Cohen, in cui il fondamento corrisponde alla fondazione stessa: «La verità non è un tesoro, è un metodo per scoprirlo». In altre parole, come suggerisce Poma: «Nella domanda, non nella risposta, sta il senso da ricercare[61]».

Da ultimo, ci sembra importante riattivare un concetto ormai in disuso nel linguaggio filosofico, ossia quello di utopia. Nel fare questo, riportiamo un passo tratto da Cadenze, in cui Poma commenta un’idea centrale nella filosofia pratica di Kant, secondo cui è giusto credere a « “ciò che deve accadere, anche se non accade mai”». Infatti, prosegue Poma, «tolta la trascendenza del dover essere, ciò che è reale sarebbe criterio di ciò che deve esserlo; mentre, al contrario, una prospettiva etica esiste soltanto laddove si riconosce che ciò che deve essere è il criterio di ciò che è[62]». Crediamo quindi che l’essere del dover essere, dato che ingloba realismo e utopia, sia un presupposto basilare da cui partire per poter cercare di dare ancora un senso al ruolo della filosofia oggi, nonché alla nostra storia di esseri umani, tenendo conto della polisemia della parola “senso”. Ecco perché la Sehnsucht, nelle intenzioni di Poma, può rappresentare una bussola per il «vagare svagato del soggetto nomade[63]» dei giorni nostri. A noi piace infatti immaginarla come la stella polare che guida i naviganti durante la loro traversata sulle onde del mare tumultuoso della liquidità postmoderna, offrendo loro orientamento nel freddo buio della nera notte, pur nell’incertezza di trovare la terraferma alla fine del viaggio. Oppure come la luce verde del faro che, nell’adattamento cinematografico de Il grande Gatsby di Fitzgerald, dona speranza all’infranto protagonista: «Gatsby credeva nella luce verde, nel futuro orgastico che anno dopo anno si ritira davanti a noi. Ieri c’è sfuggito, ma non importa: domani correremo più forte, allungheremo di più le braccia...e un bel mattino...Così continuiamo a remare, barche contro corrente, risospinti senza sosta nel passato[64]».

 

 

BIBLIOGRAFIA

 

AAVV, Il pensiero debole, a cura di G. Vattimo e P. A. Rovatti, Feltrinelli, Milano, 1984

 

AAVV, Per un pensiero forte, a cura di L. Grecchi e D. Fusaro, in Koiné – Periodico culturale, Anno XIX – NN° 1-4, Gennaio-Dicembre 2012

 

AAVV, Storia dell’ontologia, a cura di M. Ferraris, Bompiani, Milano 2008

 

Z. Bauman, Modernità liquida, Laterza, Roma - Bari, 2007

 

G. Bologna, Manuale della sostenibilità. Idee, concetti, nuove discipline capaci di futuro, Edizioni Ambiente, Milano, 2008

 

M. Ferraris, Manifesto del nuovo realismo, Laterza, Roma - Bari, 2012.

 

S. Iovino, Ecologia letteraria: Una strategia di sopravvivenza, Edizioni Ambiente, Milano, 2006

 

S. Latouche, Come si esce dalla società dei consumi. Corsi e percorsi della decrescita, trad. it. di F. Grillenzoni, Bollati Boringhieri, Torino, 2011

 

G. Leopardi, Dialogo della Natura e di un Islandese, in “Operette morali”, consultato online su http://www.leopardi.it/operette_morali12.php

 

A. Poma, Cadenze. Note filosofiche per la Postmodernità, Mimesis, Milano - Udine, 2014.

 

J.-F. Lyotard, J.-L. Thébaud, Au juste. Conversation, Christian Bourgois Éditeur, Paris, 1979.

 

G. Vattimo, Della realtà. Fini della filosofia, Garzanti, Milano, 2012


[1] A. POMA, Cadenze. Note filosofiche per la Postmodernità, Mimesis, Milano - Udine, 2014.

[2] Professore di Filosofia morale presso l’Università degli Studi di Torino.

[3] Ibi, p. 9.

[4] Ibi, p. 12.

[5] Ibi, p. 196.

[6] Ibidem.

[7] Ibi, p. 197.

[8] Ibi, p. 352.

[9] J.-F. LYOTARD, J.-L. THÉBAUD, 1979, p. 147.

[10] Cfr. A. POMA, 2014, pp. 352-356.

[11] Questo è senz’altro uno dei messaggi che intende trasmettere anche il romanzo Vita di Pi di Yann Martel, recentemente proiettato nella versione cinematografica di Ang Lee. Il protagonista della vicenda, infatti, scommette con il giovane intervistatore – in cerca di una storia che colpisca l’attenzione del pubblico – che, alla fine del suo racconto, gli farà credere in Dio. In linea, tra l’altro, con quanto scrive Poma: «La prospettiva etica, che non è altra realtà rispetto a quella “sotto il sole”, ma un altro modo di leggere, di interpretare, di vivere e quindi di trasformare quella medesima realtà, riconoscendone il senso e contribuendo con le proprie azioni a realizzarlo, fugge alla sapienza mondana e può essere considerata, anche se non compresa, da un altro tipo di sapienza, che Qohelet, come in genere la Bibbia, chiama “timore di Dio”» (p. 207).

[12] A. POMA, 2014, p. 92

[13] Ibi, p. 103. Cfr. anche p. 347: «La società capitalistica è un sistema anonimo di flussi e interruzione di flussi, nel quale i soggetti sono al più effimeri incroci di traiettorie, sempre più interscambiabili, privi di qualunque permanenza e identità e destituiti di ogni potere di decisione e di azione rilevante sugli eventi».

[14] Ibi, p. 279

[15] Ibi, p. 353

[16] Ibi, p. 286

[17] E’ interessante il fatto che Bauman consideri l’odierno momento storico ancora all’interno dell’era moderna.

[18] Z. Bauman, 2007, p. VI

[19] Ibi, p. X

[20] Ibi, p. 27

[21] Ibi, p. 76

[22] Ibi,  p. 77

[23] Ibi, p. 28

[24] Ibi, p. 18-20

[25] Ibi, p. 23

[26] Ibi, p. 26

[27] Ibi, pp. 47-48

[28] Ci permettiamo di segnalare che qui l’analisi di Bauman forse risulta eccessivamente superficiale, dal momento che oggi il potere pubblico è certamente meno appariscente rispetto a quello descritto dal genere letterario distopico, ma non per questo assente. Esso, piuttosto, opera in maniera più subdola, celandosi dietro ad apparati telematici e informatici più soft.

[29] Cfr. Ibi, pp. 57, 61-62, 78-79

[30] Ibi, p. 179

[31] Ibi, pp. XX-XXI, p. 57.

[32] Ibi, p. 95

[33] Ibi, pp. 86-88

[34] Cfr. Ibi, pp. 235-238

[35] http://www.leopardi.it/operette_morali12.php

[36] A. Poma, 2014, p. 284

[37] S. Latouche, 2011, p. 9

[38] Ben rappresentata da film quali The Wolf of Wall Street di Martin Scorsese e Wall Street - Il denaro non dorme mai di Oliver Stone.

[39] A. Poma, 2014, pp. 334-346

[40] Ibi, p. 92

[41] Ipogèo: dal gr. comp. di υπó «sotto» e γή «terra»; agg. – Sotterraneo, che si trova o vive sotto la terra: in ecologia, l’ambiente che costituisce l’habitat degli organismi vegetali e animali viventi sotto la superficie del suolo. Da http://www.treccani.it/vocabolario/ipogeo/.

[42] S. Iovino, 2006, cfr. “Introduzione” 

[43] A. Poma, 2014, p. 88

[44] M. Ferraris, 2008, pp. 273-293

[45] Cfr. G. Bologna, 2008

[46] Cfr. M. Ferraris, 2012, pp. 13-15

[47] G. Vattimo, 1984, p. 21

[48] Per un pensiero forte, in Koiné, “Intenzioni”, 2012

[49] G. Vattimo, 1984, p. 10

[50] Ibi, p. 27

[51] Cfr. ibi, pp. 243-258

[52] Ibi, p. 45

[53] Cfr. M. Ferraris, 2012, p. XI

[54] Cfr. ibi, p. IX-XI

[55] Cfr. ibi, p. 18

[56] Cfr. Ibi, pp. 24, 26.

[57] Ibi, p. 46.

[58] Ibi, p. 61.

[59] Cfr. Ibi, pp. 76-78.

[60] Tuttavia, secondo noi Ferrarsi non tiene conto del fatto che «anche questa è un’interpretazione». In secondo luogo, è giusto notare che ci sono anche studiosi che riflettono sulla “segreta complementarietà di realismo e postmodernismo”. Cfr. D. Fusaro, Il realismo, fase suprema del postmodernismo? Note su «New Realism», postmodernità e idealismo, in “Per un pensiero forte”, Koiné - Periodico culturale, Anno XIX – NN° 1-4, Gennaio-Dicembre 2012.

[61] A. Poma, 2014, p. 334.

[62] Ibi, p. 214.

[63] Ibi, p. 351.

[64] Da Il grande Gatsby di Baz Luhrmann, http://it.wikipedia.org/wiki/Il_grande_Gatsby_%28film_2013%29




Aggiunto il 31/01/2015 18:39 da Fabio Dellavalle

Argomento: Filosofia morale

Autore: Fabio Dellavalle



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