ARTICOLI

Stomaco, cervello, cuore. Oltre l'uomo è ciò che mangia.

Dott. Fabio Dellavalle

Università degli Studi di Torino

Corso di Laurea Magistrale in Filosofia

2013-2014

 

Stomaco, cervello, cuore. Oltre l’uomo è ciò che mangia

La nozione di corpo in Feuerbach

 

Il tema del corpo è onnipresente nelle riflessioni di Ludwig Andreas Feuerbach (Landshut, 1804-Rechenberg, 1872), centro focale dei suoi più significativi interessi filosofici. Ovunque nelle sue opere si legge di nervi, tessuti, muscoli, sangue, vene, con costante riferimento agli apparati sensoriali di cui dispongono gli esseri viventi. Quella di Feuerbach, d’altronde, è dichiaratamente una filosofia della Sinnlichkeit, ossia un sensismo o sensualismo che, specialmente nell’ultima fase della sua evoluzione, segue le direttrici teoriche del naturalismo e del materialismo. La penna avvelenata del filosofo, in realtà, si spinge ben oltre il limite del politically correct  del tempo, al di là del galateo filosofico dell’epoca quando, ad esempio, cita esplicitamente parti del corpo quali l’ano, i testicoli o le labbra della vulva, in forte polemica contro la falsa castità degli spiritualisti, secondo cui, stando alla coerenza dei loro ragionamenti immateriali, «è negata ogni differenza tra testa e culo[1]». Tuttavia, le parti del corpo su cui Feuerbach, per i motivi che vedremo, si sofferma maggiormente nei suoi scritti sono lo stomaco, il cervello e il cuore. Nella presente tesina, dopo una prima parte dedicata ai presupposti filosofici generali che stanno a fondamento dell’impostazione teorica feuerbachiana riguardo alla trattazione del corpo, passeremo a una digressione storiografica tesa a mostrare la sua considerazione del corpo attraverso alcuni dei suoi testi più rappresentativi per i nostri scopi; infine, approfondiremo brevemente, a livello tematico, i tre organi corporei sopracitati.

 

1. Presupposti filosofici

Solitamente la filosofia di Feuerbach si divide in tre periodi: il primo detto hegeliano (1828-1838), il secondo umanistico (1838-1845) e, infine, il terzo naturalistico (1845-1866). Il filo conduttore che li guida è, in generale, una concezione antropologica della filosofia, che pone l’accento sull’uomo in ogni sua manifestazione, interiore come esteriore, dalla più bassa alla più alta, alla stregua di un diamante da scrutare in ogni sfaccettatura. Pertanto, è presto spiegata l’attenzione che egli riserva a fenomeni tipicamente umani quali il dolore (sia fisico che spirituale), la religione, l’arte, le relazioni sociali tra gli individui e, nel complesso, l’eterogenea gamma delle sfere della vita. In lui non si trova mai, in effetti, un approfondito sistema della natura, una mera esaltazione della scienza o una forma di gnoseologia squisitamente empiristica. Così, anche l’ultima fase della sua filosofia, quella più riduttivistica, è caratterizzata da un’atmosfera di determinismo che però segue pur sempre l’intrinseca teleologicità del vivente, la spinta alla propria intima aspirazione alla felicità. 

         Nel periodo hegeliano, per esempio, Feuerbach si schiera non solo contro la scissione cristiana e spiritualistica di anima e corpo, ma anche contro l’impostazione meccanicistica della questione, perché se la prima rappresenta una cattiva infinità, la seconda resta la peggior rappresentazione dell’uomo, come chiarisce nelle prime lezioni di logica e metafisica tenute ad Erlangen[2]. Già da questi anni il filosofo tedesco si scaglia contro la Vorstellung religiosa dell’immortalità dell’anima; l’idealità e la spiritualità sono concepite sempre in senso hegeliano, seppur in una rielaborazione panteistica con influenze naturalistiche. Ciò vuol dire che pure per Feuerbach la realtà corrisponde alla totalità spirituale ma, a differenza di Hegel, egli procede dallo spirito in sé alle sue manifestazioni, ossia umanità e natura. In altre parole, la certezza individuale fondata sulle sensazioni viene ribadita nella sua autonoma consistenza, a differenza di quando succede nella Fenomenologia, dove essa rimane un puro momento dialettico, destinato a dissolversi nei gradi superiori della coscienza.

         Dal 1838 in poi il suo pensiero è invece contrassegnato dalla metodologia del rovesciamento. Da questo momento, infatti, egli realizza il capovolgimento dei rapporti di predicazione della metafisica speculativa tradizionale: ciò che era soggetto diventa oggetto e viceversa. Di conseguenza, le categorie della vecchia metafisica sono adesso attribuite al finito. In particolare, il pensatore intende capovolgere il sistema idealistico hegeliano, anch’esso colpevole, al pari del cattolicesimo, di una visione alienata, poiché soprannaturalistica e spiritualistica, della realtà: «Il filosofo deve accogliere nel testo della filosofia ciò che, nell’uomo, non filosofa, e che anzi è contro la filosofia, fa opposizione al pensiero astratto – ciò, insomma, che Hegel si è limitato a relegare nelle annotazioni. […] La filosofia deve quindi incominciare non con sé, ma con la sua antitesi, con la non-filosofia[3]». Per Feuerbach la cosiddetta “filosofia dell’identità”, ovvero la psicologia hegeliana, è in realtà ancora preda dello spiritualismo, poiché Hegel rinuncia solo al corpo ma non all’anima. Curioso è il fatto che nel corso degli anni Feuerbach arriverà a capovolgere il suo stesso pensiero, come risulta evidente dal cambiamento di prospettiva circa l’argomento del suicidio, dapprima baluardo della libertà di potere della realtà spirituale sul corpo (Critica all’empirismo, 1841) e, in un secondo momento, nient’altro che effetto causale dell’organismo sulla mente dell’individuo. In ogni caso, in tutta la produzione feuerbachiana è evidente una costante tensione tra l’idealismo speculativo, da una parte, e l’empirismo, dall’altra, che rappresentano, per così dire, i paletti entro cui si colloca il suo materialismo sensistico-antropologico. Ciò che intende evitare il pensatore è, da un lato, lo spiritualismo panlogistico e, dall’altro, il meccanicismo riduzionista, prodotto del positivismo. Nella sua filosofia, difatti, scorre «sangue gallo germanico», dato che essa è caratterizzata sia dal «principio antiscolastico e sanguigno del sensualismo e del materialismo francese», sia dal «flegma scolastico della metafisica tedesca[4]».

         Negli ultimi anni Feuerbach si fa sostenitore di un naturalismo organicistico e vitalistico, per cui lo spirito non è altro che un prodotto tardivo dell’uomo che nasce solamente dalla fantasia e dall’astrazione. Tuttavia, egli individua l’origine del materialismo tedesco nella culla religiosa della Riforma protestante di Lutero: «Solo nel protestantesimo quel che nel cattolicesimo era esclusivamente un’immagine o un sacramento teologico divenne essenza antropologica, cioè reale, vivente[5]». A titolo esemplificativo egli paragona l’amore dei genitori ai propri figli con l’amore di Dio per l’uomo: «“Dio è amore”; ma egli ama soltanto se ama con lo stesso cuore, con la stessa intimità e sincerità con cui l’uomo ama l’uomo, il padre o la madre il proprio figlio». Per Feuerbach «questa umanizzazione e realizzazione dell’amore divino, è l’opera propria della Riforma[6]». A testimonianza del fatto che il materialismo di cui lui si fa portavoce rappresenti una costola del protestantesimo, osserva che «Paul Luther, figlio del riformatore Martin Lutero, esprime sensibilmente e conferma nel modo più persuasivo questo rapporto genealogico del materialismo col protestantesimo[7]», dal momento che divenne medico.

         Per quanto riguarda il piano teoretico del suo filosofare si può parlare, quindi, di sensualismo, data l’importanza ontologica e gnoseologica che egli attribuisce ai sensi. Sul piano etico, invece, la sua scelta si dirige verso una forma di eudemonismo, che pone l’accento della questione morale sull’istinto di felicità che caratterizzerebbe ogni essere umano. Per quando riguarda quest’ultimo elemento, egli dichiara che «solo la libertà fondata sull’istinto di felicità – e invero non di alcuni ma di tutti – è una potenza politica popolare e perciò irresistibile[8]»; «la felicità», prosegue, «è il principio della morale[9]»; «il materialismo», sancisce definitivamente, «è l’unico solido fondamento della morale[10]». L’approccio sensualistico ed eudemonistico converge a sua volta in un umanesimo naturalistico, dal momento che l’uomo, in balia e al contempo padrone della natura, resta sempre al centro dei suoi interessi filosofici in senso stretto e pratici. «La nuova filosofia», egli spiega, «fa dell’uomo, nel quale include la natura come base dell’uomo, l’oggetto unico, universale e supremo della filosofia – e fa quindi dell’antropologia, integrata dalla fisiologia, la scienza universale[11]».

         Secondo Feuerbach la natura è il fondamento dell’uomo. Nello scritto Spiritualismo e materialismo del 1866, per esempio, egli osserva che «mediante i nostri corpi noi non siamo soltanto schiavi ma anche padroni della natura[12]». In Critica della filosofia hegeliana, di molti anni prima (1839), egli commenta in questo modo: «La filosofia è la scienza della realtà nella sua verità e totalità; ma la sostanza della realtà è la natura (nel senso più universale del termine). I segreti più profondi sono contenuti nella più semplici cose naturali, quelle che calpesta il filosofo speculativo che brama fantasticamente un aldilà. L’unica fonte di salvezza è il ritorno alla natura[13]». Feuerbach è consapevole della dipendenza ineludibile dell’uomo con gli elementi naturali, i veri demiurghi della vita: «La natura ha edificato non soltanto quella comunissima officina che è lo stomaco, ma anche quel tempio che è il cervello; non ci ha dato soltanto una lingua fornita di papille che corrispondono ai villi intestinali, ma anche orecchie che solo l’armonia dei suoni incanta, e occhi che estasia soltanto l’essenza celeste e altruista della luce[14]». Nella medesima opera, il filosofo tedesco prende in esame il rapporto tra l’uomo e gli altri esseri viventi appartenenti alla natura: «E’ vero che la natura ha fatto dell’uomo il signore degli animali, ma non gli ha dato soltanto le mani per dominarli, ma anche occhi e orecchi per ammirarli[15]». Tornando al saggio del 1866, egli rimprovera agli idealisti una concezione esclusivamente negativa della natura; a proposito della follia si domanda: «E’ mai possibile che la natura – la natura, alla quale soltanto dobbiamo esser grati se non abbiamo già perduto completamente il senno dietro le pazzie del mondo degli uomini, dietro le follie dei nostri filosofi e i raffinati inganni razionali e legali dei nostri uomini di Dio e di Stato – sia solo la fonte delle nostre malattie e follie, e non anche della sanità e della saggezza?[16]». Perciò, in L’essenza della religione del 1845 Feuerbach ammira ad esempio l’antica sapienza greca che prescriveva di seguire la natura. «I Greci», egli osserva, «non sospiravano ancora, come poi i cristiani, per il fatto di essere sottoposti alla necessità della natura, ai bisogni dell’impulso sessuale, del sonno, del mangiare, del bere; nei loro desideri si adattavano ancora ai limiti della natura umana[17]».

         Altri postulati fondamentali del suo pensiero sono i seguenti: «Spazio e tempo sono le forme di esistenza di ogni ente[18]»; «Testa e cuore sono strumenti essenziali della filosofia[19]; «Solo la verità diventata carne e sangue è verità[20]». Già da tali premesse si intuisce il carattere corporeo del suo modo di intendere l’attività intellettuale: «La nuova filosofia è la risoluzione completa, assoluta, coerente della teologia in antropologia; […] ciò che già si è risolto nell’intelletto deve infine risolversi nella vita, nel cuore, nel sangue dell’uomo[21]».

         Anche la libertà del volere, punto critico della relazione anima-corpo, non resta elusa dalla trattazione feuerbachiana, specialmente nell’ultimo periodo della sua produzione. In Spiritualismo e materialismo l’autore ribadisce che «il volere, come l’uomo in generale, è legato allo spazio e al tempo[22]». «Il volere», in secondo luogo, «è autodeterminazione, ma all’interno di una determinazione naturale indipendente dal volere dell’uomo[23]». Quindi, «un volere sradicato dal contesto del sistema nervoso e muscolare non è volere, è solo desiderio fantastico, poiché il volere è potere di eseguire; ma io sono in grado di eseguire, riesco ad eseguire soltanto quel che voglio sulla base e per ordine del cervello, del mio organismo in generale[24]». In altre parole, «anche il volere morale dipende dall’organismo, non può nulla senza di lui. Perché è vero che nella morale “io posso ciò che voglio”, ma, beninteso, solo nella fantasia, perché il volere onnipotente, in cielo come in terra, è soltanto il più sottomesso tra i servitori della fantasia umana[25]». Tali considerazioni derivano da questa constatazione: «Come sarebbe felice l’uomo, se la sua volontà non fosse una forza immanente al suo organismo, bensì trascendentale, cioè soprannaturale e ultracorporea, non legata ad alcuna materia, e di conseguenza nemmeno alla materia medica! Allora gli basterebbe voler essere sano, e sarebbe sano[26]». La volontà, perciò, è legata alla sensibilità, dal momento che «come non posso generare figli mediante il puro volere senza facoltà generatrice, così in generale il volere non è capace di nulla senza lo strumento, il materiale, l’organo per ciò che vuole. Quando per una cosa manca sensibilità e disposizione, per essa manca anche il volere[27]». Anche volere e istinto di felicità sono intimamente connessi: «Io voglio significa: voglio essere felice[28]». Una citazione che ci avvicina al carattere sensistico del pensiero di Feuerbach è perciò questa: «La mia filosofia, fondata solamente sul vangelo dei cinque sensi e non sull’apocrifo senso comune o non senso del sonnambulismo – una filosofia, che appunto per questo equivale a una non filosofia – conosce, nella sua povertà di spirito, un’unica esistenza, l’esistenza reale o naturale, ed è per giunta pienamente soddisfatta da quest’unica, irripetibile esistenza, di modo che al riguardo proclama gioiosamente con la Bibbia: “Beati gli uomini poveri di spirito”, ma pieni di talenti naturali[29]».

         Per quanto concerne, finalmente, la Sinnlichkeit, ossia la sensibilità, Feuerbach parte dall’assioma secondo cui «il reale nella sua realtà o in quanto reale è il reale come oggetto del senso: è il sensibile. Verità, realtà, sensibilità sono identici. Solo attraverso i sensi un oggetto viene dato in senso autentico – non attraverso il pensare per se stesso[30]». Nei Principi della filosofia dell’avvenire del 1843 sono contenute le linee guida programmatiche del suo innovativo manifesto filosofico, di contro all’antiquata metafisica speculativa, interamente volta allo spirito degli individui: «Le sensazioni umane non hanno quindi quel valore empirico, antropologico che loro assegnava la vecchia filosofia trascendente: ne hanno invece uno ontologico, metafisico: nelle sensazioni, e proprio nelle sensazioni più comuni, sono celate le più sublimi verità[31]». Da ciò ne risulta quindi che «il filosofo nuovo pensa in accordo ed in pace coi sensi», perché «la nuova filosofia riconosce la verità della sensibilità con gioia, con piena coscienza – essa è una filosofia dei sensi, e non lo nasconde[32]». Il pensatore tedesco identifica, inoltre, il valore conoscitivo dei sensi, strumenti essenziali della comprensione umana: «Il mondo è aperto solo per le menti aperte, e soltanto i sensi sono le porte e le finestre della mente. […] Una testa separata dal tronco non può trovare il modo di afferrare un oggetto, perché le mancano i mezzi, gli organi del prendere[33]». Ma la Sinnlichkeit per l’autore assume anche importanza per il riconoscimento dell’alterità, altro punto chiave del pensiero feuerbachiano. Il “principio” 62 enuncia: «La vera dialettica non è un monologo del pensatore solitario con se stesso, è un dialogo tra io e tu[34]». Nella pagina successiva, invece, si legge: «Il principio supremo e definitivo della filosofia è l’unità dell’uomo con l’uomo[35]». Ecco, infine, un passo particolarmente paradigmatico dell’importanza dei sensi sul piano comunitario :

 

            «I sensi non hanno come oggetto soltanto cose “esterne”. L’uomo coglie se stesso solo attraverso i sensi – è oggetto di se stesso in quanto oggetto dei sensi. […] Con i sensi non cogliamo soltanto la pietra e il legno, né soltanto la carne e le ossa; quando stringiamo le mani o premiamo le labbra di un essere senziente, allora cogliamo anche i sentimenti; con le orecchie non sentiamo soltanto il fruscio dell’acqua e il mormorio delle foglie, ma anche la ispirata voce dell’amore e della sapienza; non vediamo soltanto le superfici rifrangenti o gli spettri luminosi, ma guardiamo anche nell’occhio dell’uomo. […] E’ con ragione quindi che l’empirismo fa derivare l’origine delle nostre idee dai sensi; esso però dimentica che l’oggetto più importante, l’oggetto essenziale dei sensi dell’uomo è l’uomo stesso, e che la luce della coscienza e dell’intelletto si accende solo quando lo sguardo dell’uomo è rivolto all’uomo. L’idealismo ha quindi ragione quando ricerca nell’uomo l’origine delle idee: ha torto però quando vuol dedurle dall’io che non ha colto con i sensi un tu. Le idee scaturiscono soltanto dalla comunicazione, dalla conversazione dell’uomo con l’uomo. Ai concetti, ed in generale alla ragione, non si giunge da solo, ma in due. Due esseri umani sono necessari per generarne uno – in senso spirituale e in senso fisico: la comunità dell’uomo con l’uomo è il primo principio, è il criterio di verità e di universalità. Persino la certezza dell’esistere di cose diverse da me e che giacciono fuori di me è mediata, ai miei occhi, soltanto dalla certezza dell’esistere di un altro uomo oltre me. Io dubito di ciò che vedo da solo, ed è certo soltanto ciò che anche l’altro vede[36]».

 

         Anche nel già citato Spiritualismo e materialismo, opponendosi a chi disconosceva gli attributi positivi della sensibilità, Feuerbach riconosce che questa «non ci dà soltanto gli organi per peccare, ci da anche i rimedi contro il peccato[37]». Essa, perciò, «è la fonte del piacere, ma è anche la fonte dei dolori, delle sofferenze, delle malattie, dei migliori rimedi contro un piacere senza freni[38]». In secondo luogo, l’autore insiste ancora sul carattere aperto delle sensazioni del singolo all’interno di una comunità, poiché «l’essenza dell’uomo è contenuta soltanto nella comunità, nell’unità dell’uomo con l’uomo – una unità che però si fonda soltanto sulla realtà della differenza tra io e tu». Di conseguenza, egli afferma che «solo attraverso i sensi so che fuori di me esistono anche altri esseri, altri uomini[39]». Nelle pagine precedenti del testo il filosofo avverte: «La voce della coscienza è un’eco del grido di vendetta dell’offeso[40]». Da ultimo, Feuerbach riassume come segue i suoi presupposti dottrinali, apertamente avversi al dualismo occidentale il quale, a partire da Platone sino a Cartesio, sarebbe responsabile di una svalutazione della corporeità sia teoretica che etica: «Il cosiddetto oggetto è essenzialmente e inseparabilmente oggetto-soggetto, come d’altra parte il cosiddetto soggetto è essenzialmente e inseparabilmente soggetto-oggetto, che l’io è tu-io, che l’uomo è uomo-mondo o uomo-natura[41]».

         E’ la sensibilità, dunque, il ponte che ci consente di arrivare alla nozione di corpo in Feuerbach, poiché solo ove è presente la prima è lecito parlare del secondo. Infatti, seguendo le parole del nostro pensatore: «E’ tipico della precedente filosofia astratta il problema: “come è possibile che diverse essenze, o sostanze, autonome possano agire l’una sull’altra, per esempio il corpo sull’anima, sull’io?” […] Solo la sensibilità è in grado di spiegare il mistero dell’azione reciproca. Solo essenze sensibili possono agire l’una sull’altra[42]». Nell’autore appare gradualmente sempre più evidente che «la sensibilità si domina solo con mezzi sensibili, il corpo con mezzi fisici. Il vizio si fonda sul corpo, ma sul corpo si fondano anche la virtù e la saggezza[43]». La sensibilità, tuttavia, è anche strettamente collegata con il cuore, l’organo che assume estrema rilevanza per Feuerbach, tra la dimensione gnoseologica e la sfera etica, che unisce gli impulsi sensuali dell’uomo con le sue più precipue esigenze sentimentali. Per lo studioso la nuova filosofia che cerca di delineare «è il cuore ricondotto all’intelletto», e «il cuore non vuole oggetti astratti, essenze metafisiche o teologiche, vuole oggetti ed enti reali e sensibili[44]». E’ proprio il caso di dire che in Feuerbach cuore fa rima con amore, la manifestazione più sublime della sensibilità dell’essere umano, poiché «la nuova filosofia si fonda sulla verità dell’amore, sulla verità della sensazione[45]». L’amore, come analizzeremo più avanti nello specifico, per l’autore «è la vera prova ontologica dell’esistenza di un oggetto fuori dalla nostra testa, né l’essere può essere provato in altro modo che attraverso l’amore, e in generale attraverso la sensazione. Esiste soltanto ciò la cui esistenza ti allieta e la non esistenza ti addolora[46]».

 

2. Il corpo in Feuerbach

Feurbach si situa in quella fase della storia delle idee caratterizzata dalla moderna rivalutazione della corporeità, prendendo in considerazione l’integrità dell’essere umano e attuando, pertanto, il superamento della tradizione dualistica occidentale sul problema di anima e corpo. Per lui, in questo caso, «non c’è niente qui che sia esclusivamente causa o esclusivamente effetto. Quel che è effetto diviene causa, e viceversa[47]». La considerazione del corpo in Feuerbach segue la tripartizione del suo pensiero, cosicché troviamo, nella prima fase, cioè quella hegeliana, un approccio idealistico-panteistico nei confronti del corpo, in cui ciò che gli interessa è la vivente unità dialettica spirito-corpo. Nei Pensieri sulla morte e l’immortalità (Todesgedanken) del 1830, ad esempio, egli scrive: «Questo infinitamente molteplice, questo immenso tutto, diventa Uno; tutto è uno, uno è tutto, questo è il segreto della vita, dell’unità dell’anima con il corpo. L’uno come molteplice è il corpo, il molteplice come uno è l’anima[48]». Dalle pagine di questo testo, emerge una sorta di corpo “incorporeo”, derivante dall’influsso dell’idealismo e del romanticismo del tempo, dal momento che «né il corpo è esterno all’anima, ne questa ad esso, l’anima non proviene da chissà dove, ma viene solo dal corpo e nel corpo, poiché questo non è puro materiale, nuda materia; e come il materiale che brucia è infiammabile, così il corpo è in se stesso, in sé e per sé animabile, animato; l’animabilità e l’esser animato è l’interna determinazione identica con esso stesso; l’anima è la realizzazione o l’esistenza reale di questa interna animabilità; nell’anima solo viene alla luce e ad esistenza quanto è nel corpo in e per se stesso[49]». Nel 1837 esce il Leibniz, che può essere reputato l’ultima opera hegeliana del filosofo tedesco, perché temi quali l’anima come passione, la salvaguardia della molteplicità e dell’individualità, l’interesse per la materia sono sicuramente spunti non hegeliani, anche se non ancora antihegeliani. Qui si legge:

 

         «Solo l’anima è perciò anche l’essenza del corpo, solo attraverso l’anima il corpo non è fantasma, ma un essere reale, effettivo. Senza di essa sarebbe qualcosa di puramente dissolto, privo di difesa e di sé, non avrebbe neanche una volta la capacità di esprimere reazione e resistenza – poiché dov’è resistenza v’è forza, e dov’è forza, vi è anima -, sarebbe un niente privo di stabilità e di fermezza, in se stesso logorato e dissolventesi nel nulla; poiché solo l’unità tiene unita la molteplicità, la semplice forza unisce il divisibile, solo l’anima tiene unito il corpo[50]».

 

         Insomma, il giovane Feuerbach si assesta su posizioni fortemente speculative, per cui il corpo non possiede valore autonomo, ma riceve la propria forza dalla razionalità, dall’idea e dalla vita che ne è l’espressione. Nel primo Feuerbach, in altri termini, troviamo una concezione dinamica della corporeità, come qualcosa che si sviluppa dall’interno per opera della vita. Per lui il vero corpo spirituale non è quello fantastico dell’aldilà, bensì quello terreno, vivente, organico, in cui le membra sono in funzione di un unico fine, ovvero la manifestazione di un principio interiore. Questi scritti, infatti, esprimono un senso di universalità spirituale, di unità nella totalità, di superamento delle particolarità nell’essenza del Geist. Tale visione speculativa e onnicomprensiva, però, manifesta già il rapporto di continuità e rottura con Hegel, che diverrà sempre più drastico quando l’allievo criticherà aspramente il vecchio maestro, reo di una falsa “filosofia dell’identità”. 

         Nel secondo periodo del filosofare feuerbachiano il superamento della separazione tra anima e corpo non avviene più su base idealistica, come negli anni giovanili, nell’unità del Geist, bensì in un’idea razionalistica di uomo e natura. Nel 1841, anno di pubblicazione di una della sue opere più fortunate, L’essenza del Cristianesimo, Feuerbach si pone i seguenti interrogativi: «V’è un sistema di “realismo vivente” diverso dal sistema del corpo organico? La natura senza corpo non è un concetto vuoto, dedotto? Il mistero della natura non è il mistero del corpo? Conosci un’altra esistenza, un’altra essenza della natura oltre l’esistenza corporea, l’essenza corporea? Ma non è il sommo, il più reale, il più vivente corpo di carne e sangue? Conosci un’altra forza opposta all’intelligenza oltre la forza della carne e del sangue, un’altra potenza della natura oltre la potenza degli impulsi sensibili? E l’istinto sessuale non è forse il più forte impulso naturale contrapposto all’intelligenza?[51]». Ormai la sostanzialità e l’ontologicità dello spirito sono sempre più in ombra, la cui essenza pare definirsi ora come energia, attività, dinamismo. Un anno più tardi, nella recensione a uno scritto di Reiff, è chiaro come per Feuerbach sia la corporeità ad assumere il valore di apertura ontologica del soggetto al mondo: «l’Io non è in alcun modo “mediante se stesso” come tale, ma mediante sé come essere corporeo, dunque mediante il corpo, “aperto al mondo” (Welt offen). Il corpo è il mondo oggettivo, di fronte all’Io compiuto. L’Io mediante il corpo non è Io, ma oggetto. Essere nel corpo significa essere nel mondo. Tanti sensi - altrettanti pori, altrettante nudità. Il corpo non è altro che l’Io poroso[52]». Dunque, si può definire questo momento della sua filosofia come un sensualismo umanistico, dove la verità della Sinnlichkeit diviene verità totale, in cui essere nel corpo significa essere nel mondo. La strada che intraprenderà il nostro autore è chiara ormai: il materialismo, salvo però da ogni inflessione empiristica e riduzionistica, a causa del timore di cadere nell’aridità delle scienze positive. L’opera del Feuerbach di mezzo in cui maggiormente viene rivendicato il diritto del corpo e il suo valore è certamente Principi della filosofia dell’avvenire, apparso nel 1843. Già dalle prime pagine è palese l’intento che muove lo studioso tedesco: «La filosofia dell’avvenire ha il compito di trarre la filosofia dal regno delle “anime morte” e di reintrodurla in quello delle “anime vive”, unite al corpo[53]». Come si evince da questo passo, è evidente l’impostazione che dovrà assumere la filosofia del futuro, per Feuerbach: «La vecchia filosofia partiva da questo assioma: “Io sono un’essenza soltanto pensante, astratta; il corpo non è costitutivo della mia essenza”; la nuova filosofia incomincia invece con l’assioma: “Io sono un essenza reale, sensibile: il corpo è costituivo della mia essenza; anzi, il corpo nella sua totalità è il mio io, la mia essenza stessa[54]”». Qui egli si schiera manifestamente contro ogni forma di filosofia che non tiene in conto la dimensione corporea, a partire dal neoplatonismo; per lui il filosofo neoplatonico «ritiene anzi che la morte sia da preferire alla vita corporea; egli non considera il corpo come elemento della sua essenza umana e, troncando ogni rapporto con tutte le cose corporee o, più sinteticamente, esterne, egli trasferisce la beatitudine solo nell’anima[55]». «Presso i neoplatonici», continua «l’uomo reale diventò una semplice astrazione senza carne e senza sangue, una figurazione allegorica dell’essenza divina. Plotino, stando a ciò che riferisce il suo biografo, si vergognava di avere un corpo[56]». Come nei precedenti scritti contro la tradizione religiosa, che negavano l’immortalità dell’anima dopo il corpo, lo studioso esplicita che «ciò che è morto nel corpo ed insieme dell’anima non può più ritornare, nemmeno come fantasma[57]».

         Arriviamo dunque alla terza fase della produzione filosofica di Feuerbach, dove la prospettiva assunta è quella del naturalismo eudemonistico. A questo punto, infatti, egli riconosce la rilevanza per l’uomo della comprensione della natura e di una relazione equilibrata con essa. Più nel dettaglio, il punto di vista adottato è una forma di organicismo vitalistico, che lo porterà a interessarsi ai progressi del materialismo scientifico dell’epoca. Nelle discussioni a integrazione dei Grundsätze, del 1846, il filosofo tedesco sentenzia così:

 

         «Il corpo è l’esistenza dell’uomo; togliere il corpo significa togliere l’esistenza; chi non è più sensibilmente, non è più. Ma puoi separare l’essenza dall’esistenza? Nei pensieri certamente, ma non nell’effettualità. Il superamento della mia esistenza è il superamento di me stesso – e per questo, appunto, è doloroso. Il dolore, la sensazione in generale non è altro che la chiara e comprensibilissima protesta contro la distinzione e la separazione di corpo e anima, esistenza ed essenza che compie il pensiero astratto[58]».

 

         Ma l’opera cardinale in questo periodo è sicuramente Spiritualismo e materialismo, del 1866. Qui l’autore esclama: «Quante malattie non solo fisiche, ma anche spirituali, morali, non derivano (che) dalla mancanza di questa autocoscienza corporea! Quanti fraintendimenti e maltrattamenti del nostro prossimo da maltrattamenti e fraintendimenti di ciò che più di ogni altra cosa ci è prossimo, il nostro corpo![59]». Ritorna anche il tema ricorrente della critica antireligiosa, ma questa volta il bersaglio del filosofo è il cattolicesimo in particolare, poiché egli, come abbiamo visto sopra, ravvede nella Riforma luterana la genesi del materialismo tedesco. Il Dio dei protestanti, con il suo amore fatto di carne e di sangue, è diverso dal Dio dei cattolici, il quale conosce solamente il numero dei capelli sulla nostra testa. Ecco un passo significativo a tal proposito:

 

         «L’amore teologico o ecclesiastico tormenta, anzi brucia lo stesso corpo vivente, per salvare l’anima dalle fiamme dell’inferno; l’amore reale invece si prende cura del corpo dell’amato nel modo più affettuoso e per amore dell’amato del proprio corpo. L’amore reale, fecondo, che genera ed educa gli uomini, non monaci o preti, non sa nulla del conflitto tra corpo e anima, nulla di una psicologia separata o addirittura indipendente dall’anatomia e dalla fisiologia. E quest’amore, questo Dio, al quale non sta a cuore soltanto la salvezza della nostra anima, ma anche il nostro bene e la nostra vita fisica, che non è presente nell’ostia sacerdotale ma nel nostro corpo naturale, che non si è incarnato soltanto una volta, ma si unisce ancora adesso con la nostra carne e il nostro sangue, prende realmente dimora nel nostro cervello e nel nostro cuore, e nel cervello accende la luce della conoscenza, nel cuore il fervore degli affetti, almeno degli affetti buoni, simili a lui – questo Dio è il padre del materialismo[60]».

 

         In aggiunta, la polemica con Hegel è condotta duramente, poiché agli occhi dell’ex discepolo l’armonia che cerca di realizzare il professore di Stoccarda è solo presunta: «Una vera unità di corpo e anima può essere trovata solo a patto che si rinunci sia al corpo privo di anima, morto – ché il corpo in opposizione all’anima non rappresenta altro che il cadavere – come all’anima senza corpo dello spiritualismo, e al posto della psicologia e della pneumatologia si ponga la zoologia e l’antropologia[61]». La scissione tra anima e corpo, tipica dello spiritualismo, continua a essere la questione decisiva da risolvere: «Per millenni gli uomini non hanno pensato ad altro che alla separazione dell’anima dal corpo, per assicurarsi una vita dopo la vita, per millenni non si sono occupati d’altro che di distinguere lo spirito dalla materia, senza darsi minimamente cura della conoscenza della materia, anzi senza permettere neppure l’autocoscienza corporea, l’anatomia del corpo umano[62]». A questo riguardo, l’autore enfatizza causticamente: «Quale scrupolosità e delicatezza verso i cadaveri umani, mentre pure non ci si faceva alcuno scrupolo di squartare e bruciare uomini viventi[63]!». Ecco perciò che si chiede: «Ma dove trovi mai nel corso della vita dell’uomo anche soltanto un unico punto in cui puoi sopprimere […] l’indistinguibilità di corpo e anima, e indicare un effetto isolato dell’anima, un effetto a cui il corpo non partecipi né sia presupposto?[64]». La distinzione tra spirito e materia non è concepibile secondo il nostro autore: «Una speculazione che è in contraddizione con la vita, che assume come prospettiva vera la prospettiva della morte, dell’anima separata dal corpo, è una speculazione morta e falsa – una filosofia che l’uomo condanna inappellabilmente già col primo respiro e col primo grido che emette fuori dal grembo materno[65]». Il sostrato fisiologico alla base dell’individuo diviene pertanto il nucleo concettuale da cui elaborare una nuova idea di unità psicofisica, perché «se lo spirito, sul piano delle coscienza, determina il corpo in una certa direzione, in quella stessa direzione lo spirito è già determinato, inconsciamente, attraverso il proprio corpo; […] se il corpo è posto o determinato in un certo modo e con una certa qualità, allo stesso modo e con la medesima qualità è posto e determinato anche lo spirito[66]». Anima e corpo sono intimamente collegati, in un connubio profondo e assoluto: «L’attività, la funzione di un organo è, in termini approssimativi di pensiero e di espressione, lo scopo, cioè il senso, lo spirito, l’anima di esso. L’anima dipende dall’organo; se in quest’ultimo non c’è la giusta forma e proporzione, anche la funzione e l’attività non si esercita nel modo dovuto. Ma anche l’organo dipende dalla funzione; esso s’indebolisce, si atrofizza e infine muore del tutto, se non viene usato e consumato come si conviene; poiché nutrizione e logoramento, produzione e consumo, anche in questo caso sono inseparabili[67]». La crescita dell’organismo dell’individuo va dunque di pari passo con lo sviluppo della personalità del singolo: «L’uomo» sottolinea Feuerbach, «solo nell’atto in cui diviene padrone del suo corpo, diviene padrone anche di se stesso. […] La formazione del corpo è formazione di sé, l’indurimento del corpo indurimento di sé, l’esercizio del corpo esercizio dello spirito[68]». Ancora, « “Il corpo è lo strumento dell’anima, ma anche, per converso, l’anima strumento del corpo», di modo che «quel che fai al tuo corpo, il tuo corpo lo fa a te di rimando in virtù del sacro diritto naturale del contraccambio[69]». La critica nei confronti di Hegel si fa perciò sempre più pungente, paragonato in questo caso ai neoplatonici: «Come si può dunque parlare in lui di “un’unità o armonia” per giunta “immediata” di anima e corpo? […] In ogni circostanza Hegel prende partito soltanto per l’anima; mai, mai almeno quando si tratta di esprimere la verità del corpo non in equivoci “simboli” ma in parole chiare, fa valere le ragioni e il buon diritto del corpo. Dappertutto egli si comporta come se non avesse un corpo, simile in questo al neoplatonico Plotino, il quale si vergognava del suo corpo, del resto a ragione e con apprezzabile coerenza, dato che il corpo è la vergogna e il disonore dell’anima immateriale». «Così», prosegue con sfrontatezza lo studioso, «anche quando giunge a parlare della sensazione, Hegel non ha mai sulle labbra, che in rapporto all’anima immateriale non si distinguono dalle labbra della vulva, l’oscena parola ‘corpo’, bensì definisce, anzi deduce la sensazione senza riferimento al corpo, da formule astratte generali che non determinano nulla[70]». Tuttavia, Feuerbach riconosce che pure nel padre dell’idealismo assoluto si trova la consapevolezza del valore del corpo, seppur in maniera velata: «A dire il vero in Hegel, come dappertutto, dietro l’anima si nasconde il corpo». A proposito della pazzia, per esempio, Feuerbach riconosce che il proprio maestro di un tempo ravvede che «lo spirito è suscettibile di malattia soltanto in quanto corporeo o a motivo e in virtù della corporeità». Ciononostante, si interroga Feuerbach, «non è forse un’ingiustizia, un punto di vista unilaterale, addossare e rimproverare al corpo soltanto le malattie dello spirito, e non volergli imputare anche la sanità dello spirito?[71]». Un altro elemento analizzato è il fenomeno dell’abitudine, dove:

 

         «Riveste una grande importanza la gravità del corpo, anzi anche la sua inerzia, come del resto la sua elasticità. Chi la riduce pertanto ad una faccenda dell’anima immateriale, senza prendere in considerazione il fattore, per non dire il factotum, del corpo, fa i conti senza l’oste, poiché un simile calcolo idealistico costa molti sforzi, per giunta ahimè inutili. Che però l’abitudine non sia o almeno non sia soltanto una faccenda dello spirito, ma anche una faccenda del corpo, lo dimostra ad esempio l’esperienza che ci si può assuefare ai veleni, benché i loro effetti mortali o non mortali non dipendano evidentemente dalla nostra buona volontà né dal nostro sapere, ma rimangano al di là di quelle attività a fondamento delle quali noi ci rappresentiamo un’anima; che non possiamo viceversa abituarci a cose del tutto innocue, con tutto che lo vogliamo, se il nostro corpo non le tollera a nessun costo[72]».

 

         Riportiamo ancora una citazione paradigmatica della concezione feurbachiana matura della corporeità, estrapolata dal saggio del 1866:

 

            «Ma l’anima, fintantoché ha potere sul corpo, non è forse, a dir poco, nel corpo o comunque, se si respinge questo “nel” in quanto richiama troppo dei rapporti spaziali, connessa, intimamente connessa al corpo, un’anima fatta corpo cioè? Com’è dunque possibile sciogliere questo nesso, isolare l’anima, introdurre in quanto vi è di più inseparabile la divisione politica: qui l’anima lì il corpo? Com’è possibile concepire come un semplice effetto sul corpo ciò che è effetto soltanto con il corpo e mediante il corpo? e lasciare che sia “posto” soltanto dall’anima ciò che già nella’anima stessa presuppone il corpo? Com’è possibile, infatti, mettere in accordo passioni quali l’amore, l’ira, lo sdegno, il timore, lo spavento con un’anima immateriale, incorporea e in se stessa extracorporea?[73]»

 

         Sensazione, passione e sessualità sono quindi manifestazioni comuni ad ogni essere umano, in particolare:

 

          «L’amplesso è un atto fisico, materiale, in cui anche gli spiritualisti e gli idealisti debbono riconoscere la verità e l’esistenza del corpo al di fuori della rappresentazione, almeno finché non sono in grado di dimostrarci ch’essi si abbracciano semplicemente nella rappresentazione, e nella pura rappresentazione generano figli. Come si può quindi attribuire ad un essere immateriale la gioiosa attesa e rappresentazione di quell’atto? Da dove deriva la forza di questa gioia, se non dalla forza del desiderio per l’unione corporea? Ma questo desiderio stesso non è già qualcosa di corporeo, anzi già un effetto della materia?[74]».

 

         Prosegue di conseguenza la critica dell’idealismo, colpevole di spostare l’ago della bilancia solamente dalla parte dell’immaterialità: «Io è soltanto un’ellissi verbale, che omette solo per ragioni di brevità ciò che è sottinteso, vale a dire: quest’individuo, che pensa qui, in questo corpo, e in particolare in questa testa fuori dalla tua[75]». Di particolare interesse è la disamina del suicidio di questo periodo, diametralmente opposta a quella della fase hegeliana. Sembra infatti che il vecchio Feuerbach risponda ipoteticamente al giovane Feuerbach il quale, polemizzando contro il Dorghut di Critica all’idealismo, riaffermava l’indipendenza dell’intelletto sul corpo. «Il volere», ora afferma, «che annienta il corpo, la vita, annienta se stessa e dimostra così di fatto che non è nulla senza corpo, senza vita; che io non ho il mio corpo grazie al mio volere […] ma al contrario ho la volontà soltanto grazie al mio corpo e alla vita[76]». Il volere, in altri termini, è da sempre calato all’interno della necessità naturale:

 

         «Anche l’uomo pertanto può volere la propria morte solo quando ha in sé fondati motivi per morire, quando l’abisso tra la vita e la morte, che in circostanze diverse gli rende impossibile il suicidio, è scomparso, quando il suo cervello è già così arso e consumato che egli scorge la sua immagine solo in un teschio, e il suo cuore è talmente morto al mondo che nella morte egli non cerca la morte della sua vita ma solo la morte della sua morte, quand’egli con la sua vita toglie di mezzo ormai solo un’apparenza, una menzogna, una contraddizione, e nella morte soltanto trova la vera espressione del suo essere e della sua volontà[77]».

 

3. Stomaco, Cervello, Cuore

Allo stomaco il pensatore tedesco dedica interi paragrafi, pieni di riferimenti al gusto, al cibo, al bere e al mangiare, alla digestione, finanche all’evacuazione del corpo[78]. Nel 1862 Feuerbach dà alle stampe un’opera dal titolo piuttosto controverso: Il mistero del sacrificio o l’uomo è ciò che mangia. In questo testo, l’autore intende focalizzarsi sui condizionamenti naturali dell’essere umano, partendo dalla consapevolezza dell’unità psicofisica dell’individuo. Più in generale, l’obiettivo critico che muove il filosofo è il passaggio dalla teologia alla filantropia, ossia dallo studio di Dio all’amore verso gli altri uomini. In queste pagine, infatti, risuonano chiaramente motivi polemici nonché richiami etico-politici, dato che si insiste sulla necessità di risolvere gli urgenti problemi dell’epoca concernenti la sussistenza umana, piuttosto che appagarsi di una cultura meramente speculativa: «La fame e la sete abbattono non solo il vigore fisico ma anche quello spirituale e morale dell’uomo, lo privano della sua umanità, della sua intelligenza e della conoscenza[79]». L’idea che guida questo saggio è che se si vogliono migliorare le condizioni spirituali di un popolo, bisogna innanzitutto migliorarne le condizioni materiali:

 

            «La teoria degli alimenti è di grande importanza etica e politica. I cibi si trasformano in sangue, il sangue in cuore e cervello; in materia di pensieri e sentimenti. L’alimento umano è il fondamento della cultura e del sentimento. Se volete far migliorare il popolo, in luogo di declamazioni contro il peccato, dategli un’alimentazione migliore. L’uomo è ciò che mangia[80]».

 

         A molti studiosi questa tesi è apparsa paradossale o quantomeno problematica[81]. Prima di tutto, tuttavia, occorre segnalare che l’espressione nella lingua tedesca suona come un gioco di parole, data la somiglianza tra il verbo essere (sein) e mangiare (essein): «Mann ist, was er isst[82]». In secondo luogo, è necessario ribadire l’intento feuerbachiano di dare prima di tutto dignità etica e politica alla teoria degli alimenti.

         Una dozzina di anni prima, ossia nel 1850, Feuerbach giudica felicemente uno scritto di Jakob Moleschott, Lehre der Nahrungsmittel für das Volk (“Dell’alimentazione: trattato popolare”), con un pamphlet intitolato “La scienza della natura e la rivoluzione”, in cui indulge ad affermazioni di crudo realismo. Il sostentamento, qui, viene visto come la chiave di volta per comprendere l’essere umano, poiché sarebbero il bere e il mangiare a tenere unita l’anima al corpo. La nutrizione, pertanto, rappresenta la sostanza, l’identità tra spirito e natura, cosicché l’inizio della filosofia non consisterebbe nella coscienza o nell’io-penso, bensì nell’alimentazione, dal momento che la materia nutritiva è la materia pensante. Nel suo saggio, d’altro canto, Moleschott interpreta il cibo come la base che rende possibile il costituirsi e il perfezionarsi della cultura umana, perché esiste, secondo l’autore, un’unità indissolubile tra mente e organismo, di modo che se mangiamo bene necessariamente pensiamo bene. Da parte sua Feuerbach, in questa ultima fase nella sua produzione, volge sempre di più la sua attenzione al sostrato fisiologico dell’uomo e accentua il proprio impegno di abbattere i pregiudizi e gli abbagli del suo tempo.- caratteristica, questa, di ogni suo scritto.

         Procedendo ancora a ritroso arriviamo al 1846-47, quando vengono pubblicati alcuni saggi sul problema dell’immortalità. Questa volta il riferimento allo stomaco dell’uomo serve come criterio per distinguere la certezza dal dubbio dell’esistenza:

        

          «Poiché un’esistenza senza stomaco, senza sangue, senza cuore, e di conseguenza, infine, anche senza testa è un’esistenza sommamente incerta, che non mi dà la certezza della mia esistenza, in cui non mi riconosco e non mi ritrovo, un’esistenza che non è altro che la mia esistenza pensata come non-esistenza, un’esistenza che, osservata alla luce, si dissolve nel nulla. Il dubbio che io esista come esisto qui finisce necessariamente nel dubbio che io possa esistere in generale; poiché la mia esistenza è determinata, è questa esistenza umana; con la determinazione della mia esistenza mi prendi perciò l’esistenza stessa[83]».

 

         Un’esistenza incorporea, ragiona il filosofo, è fantastica, forse desiderata, ma sommamente incerta, poiché esistenza e corporeità rappresentano l’unica identità umana dotata di certezza indiscussa.

            Nel 1843, inoltre, Feuerbach pubblica un testo che avrà risonanza lungo la storia delle idee, Principi della filosofia dell’avvenire. Qui, egli annota: «La fame, che è un dolore fisico, consiste soltanto nel fatto che nello stomaco non c’è alcun oggetto, che lo stomaco, per così dire, è oggetto a se stesso, e le pareti vuote si consumano vicendevolmente, invece di consumare materia[84]». Al paragrafo 53 della medesima opera si legge: «Lascia pure ad un uomo la sua testa e dagli lo stomaco di un leone o di un cavallo – egli cesserà sicuramente di essere un uomo[85]». Infine, concludendo questo breve excursus gastronomico, giungiamo al 1866, anno di pubblicazione di Spiritualismo e materialismo, uno dei suoi ultimi scritti, dove commenta in maniera assai spregiudicata: «Quanti falli morali non derivano che da errori di dieta![86]»

            La nota espressione “l’uomo è ciò che mangia” che, in un certo modo, sintetizza brutalmente l’approccio di Feuerbach al rapporto dell’essere umano col cibo, nella storia della filosofia ma anche da un punto di vista popolare, è spesso diventata il leitmotiv a cui è stato esclusivamente relegato il suo pensiero. In realtà, la riflessione dell’autore sulla corporeità, come abbiamo cercato dimostrare, è assai più ricca e variegata, e ricopre l’intero arco della sua produzione filosofica. Infatti, questa insistenza sullo stomaco interessa prevalentemente l’ultima fase del filosofare feuerbachiano, il momento più riduttivo, in cui cede a forme di grezza concretezza. Tuttavia, così come è sbagliato condannare Feuerbach a una lettura troppo superficiale di questa paradossale affermazione e farne di conseguenza un luogo comune, altrettanto errato sarebbe minimizzarle, poiché hanno comunque fatto epoca nel loro genere. 

Il cervello interessa prevalentemente l’ultimo Feuerbach, a partire dalla svolta naturalistica delle discussioni a integrazione dei Grundsätze, del 1846. Quello che gli interessa in questa fase della sua produzione è, infatti, il condizionamento fisiologico del pensare che, come il mangiare e il sentire, presuppone una serie di operazioni organiche che sfuggono al soggetto nella sua intenzionalità verso l’oggetto. L’autore riconosce un’aporia conoscitiva che impedisce all’individuo di calarsi nei condizionamenti fisiologici del suo pensare. Posso distinguere il mio corpo dagli altri corpi, argomenta Feuerbach, ma non posso mai distinguermi realmente dal mio cervello, perché proprio la sua attività mi permette qualsiasi forma di pensiero. In un certo senso, i meccanismi e i processi alla base della mia facoltà conoscitiva appaiono inconoscibili per essa. Il pensatore ragiona sul fatto che in tutte le altre attività corporee c’è una parte volontaria sottoposta alle mie scelte e una parte involontaria e oggettiva, come accade per esempio nella dinamica tra l’assunzione del cibo e la digestione. L’atto del cervello, invece, è quel particolare atto fisiologico in cui non c’è distinzione tra oggettivo e soggettivo, tra volontario e involontario. Pertanto, l’inoggettivabilità dell’atto di pensiero come atto fisiologico risulta essere, per il filosofo tedesco, la matrice dell’illusione spiritualistica. L’astrazione del cervello materiale, come l’astrazione dal corpo, cioè il dimenticarsi di esso è impossibile (realmente), e allo stesso tempo necessario nell’atto del pensare altro (intenzionalmente). Riassumendo, non posso separarmi dalla mia testa mentre penso, anche se posso non pensare all’oggetto che ho davanti; posso astrarre dall’uomo che vedo, ma non dall’uomo che sta dietro di me, dietro la mia coscienza; anche nel pensare astraggo dal mio corpo e dal mio cervello. Nell’essere, quindi, siamo uniti a quel corpo da cui siamo diversi nel pensare. Feuerbach non trascura la fisicità del nostro pensiero, poiché la stanchezza, le condizioni esterne e perfino i cambiamenti climatici del tempo influiscono su di esso; la conclusione è che anche l’attività di pensare è un’attività organica. I nostri pensieri rinnegano di fronte alla coscienza la propria radice organica, ma questa è la vera autrice[87].

            L’altra opera in cui Feuerbach disamina il cervello è, ancora una volta, Spiritualismo e materialismo. Qui, di nuovo, il tema deriva dalla critica all’idealismo e, nel dettaglio, all’assoggettamento della corporeità da parte dell’elemento immateriale:

 

«Nella psicologia hegeliana , dov’è mai il corpus con cui l’anima immateriale entra in possesso del proprio corpo? Non ce n’è traccia; e perché? perché, come accade nell’idealismo e nello spiritualismo in generale, il corpo è oggetto dell’anima, anche di quella del pensatore, soltanto in quanto è oggetto (Gegenstand), e non in quanto è, al contempo, fondamento del volere e della coscienza: viene così completamente trascurato il fatto che […] percepiamo il corporeo che è dinanzi alla nostra coscienza soltanto mediante il corporeo che è dietro di essa; che quanto appare alla volontà e alla coscienza “magia senza mediazione” è viceversa, in sé o secondo natura, mediato al massimo grado, mediato da innumerevoli fibre nervose; che tutto ciò che noi possiamo sul nostro corpo, lo possiamo solo a patto di trovarci nel più intimo e segreto accordo con esso […]; che però l’unità immediata di anima e corpo, cioè l’unità che non lascia nulla in mezzo a sé, che non ammette alcuna distinzione o contrapposizione tra essenza materiale e immateriale, di conseguenza il punto in cui la materia pensa e il corpo è spirito, e viceversa lo spirito corpo, il pensiero materia, è proprio il punto in cui all’attività cosciente di quell’unità non si presenta come fondamento dell’attività stessa niente di corporeo, niente di materiale, in cui perciò l’uomo, che prenda la coscienza come misura ed essenza degli esseri, valuta e spiega il pensiero come un’attività assolutamente immateriale e priva d’organo. Questo punctum saliens è il cervello[88]».

 

La polemica di Feuerbach raggiunge livelli davvero espliciti:

 

«Per un anima che in virtù della sua immaterialità abolisce tutte le distinzioni corporee c’è forse differenza tra i testicoli e le natiche del cervello e i testicoli e le natiche veri e propri, ufficiali, del corpo? Per l’anima immateriale il cervello è una materia altrettanto oscena e sozza – squalida cerebri materia – quanto quell’organo corporeo che nominalmente è “seppellito sotto silenzio” dalla buona società secondo un modernissimo metodo “schiettamente scientifico”, sebbene abbia, nella sostanza, un significato cosmico-storico ed eserciti una potenza che domina il mondo[89]».

 

Per il filosofo tedesco, l’errata interpretazione del cervello è viziata dall’ignoranza degli uomini su questa materia assai poco conosciuta. «Ma se un giorno», argomenta il nostro pensatore, «gli uomini applicheranno alla conoscenza dell’unità del corpo e dell’anima tempo mezzi e ingegno nella stessa misura in cui ne hanno applicato finora a provare la loro distinzione, scopriranno di certo anche qual è esattamente il nesso del pensiero col cervello[90]». Anche in questo ambito, tuttavia, emerge l’unità inscindibile di anima e corpo, dove pare scomparire la distinzione tra causa ed effetto, come abbiamo analizzato primariamente:

 

«Così il pensiero rappresenta il movimento, l’impulso motore del cervello, che dal pensiero viene logorato ma insieme anche nutrito, in quanto un’aumentata attività cerebrale accresce anche l’afflusso del liquido nutritivo. […] Soltanto mediante il pensiero il cervello viene costituito in organo di pensiero, viene assuefatto al pensiero, e mediante l’abitudine di pensare questo o quello, in un modo o nell’altro, viene anche modificato e stabilmente determinato in un certo modo, non diversamente da come la conformazione dell’organo visivo viene stabilmente determinata dall’abitudine di guardare vicino oppure in lontananza[91]».  

 

D’altra parte, abbiamo oramai compreso che il corpo rappresenta per lui la totalità umana e, inoltre, l’apertura ontologica del soggetto al mondo. Ciò che affascina Feuerbach, la costante in ogni fase della sua produzione, è l’unità psicofisica dell’essere umano, elusa dalla tradizione metafisica tradizionale: «Soltanto attraverso il pensiero il cervello viene costituito in effettivo organo di pensiero; ma è, viceversa, soltanto attraverso l’organo di pensiero già formato che il pensiero acquista esso stesso forma, scioltezza, sicurezza[92]».

Quella che vuole elaborare Feuerbach è una filosofia dei sensi sostenuta però a cuore aperto: «L’antropoteismo è il cuore reso ragionevole[93]». L’obiettivo teorico che muove il pensatore tedesco maturo è notoriamente il passaggio dalla teologia all’antropologia o, più precisamente, alla filantropia, autentico attributo divino dell’essere uomini. Il cuore, a tale proposito, è veramente l’organo prediletto del pensatore: a esso è conferito un valore gnoseologico, ontologico e, ovviamente, etico. «L’unità di testa e di cuore», asserisce, «che è conforme a verità, non consiste nel cancellare o nell’occultare la differenza dei due termini, ma piuttosto in questo, che l’oggetto essenziale del cuore è anche l’oggetto essenziale della testa[94]». Pertanto, è l’amore ciò a cui rimanda naturalmente il cuore, frutto di quella Sinnlichkeit che corrisponde alla reale essenza suprema dell’uomo. Queste alcune sintomatiche parole dell’autore: «Ove non è amore non è verità. Ed è qualche cosa soltanto colui che ama qualche cosa – non essere niente e non amare niente è la stessa cosa. Quanto più uno è, tanto più egli ama, e viceversa[95]». L’amore rappresenta il culmine della sensibilità, che rende opaca la zona di confine tra anima e spirito; «l’amore» , dice, «è certamente la fonte della certezza, verità e realtà dell’individuo[96]». Il cuore, in quanto amore, costituisce dunque l’infinita apertura della sensibilità, cioè l’apertura alla varietà del reale da parte della ricchezza umana, pur accettandone i limiti, la finitudine e gli aspetti negativi, mostrando pertanto l’ambiguità del corpo. La duplice influenza dello spirito hegeliano e della Stimmung religiosa – di cui si è evidentemente nutrito negli anni giovanili - da una parte e, dall’altra, del background panteistico, infatti, permette a Feuerbach di non cadere in un piatto riduzionismo, anche se resta l’intemperanza di molte affermazioni. Ne risulta una filosofia antropologica dal perimetro indefinito, che possiede un valore programmatico più che tradursi in una elaborazione articolata dell’essere umano. Ciò che ha realizzato il Feuerbach maturo è, a tal proposito, un rovesciamento completo delle posizioni idealistiche e spiritualistiche sul problema anima-corpo, rivalutando il secondo sul piano teoretico ed etico; come asserisce, però, Leonardo Casini nel suo saggio La riscoperta del corpo, «rovesciare spesso non è sufficiente per fondare teoreticamente [97]
». Concludiamo questo nostro lavoro con un ultimo passo, estrapolato da L’essenza del Cristianesimo:

 

«L’amore da forza alla debolezza e indebolisce la forza, abbassa ciò che è alto e innalza ciò che è basso, idealizza la materia e materializza lo spirito. L’amore è la vera unità di uomo e Dio, natura e spirito, Nell’amore la volgare natura è spirito e il nobile spirito è materia. Amare significa negare lo spirito da parte dello spirito e negare la materia da parte della materia. Amore è materialismo. L’amore immateriale è inesistente. Ma nello stesso tempo l’amore è l’idealismo della natura[98]».

 


[1] L. Feuerbach, Spiritualismo e materialismo – specialmente in relazione alla libertà del volere, a cura di F. Andolfi, Laterza, Roma-Bari, 1993, p. 139

[2] Cfr. Erlanger Vorselungen, cit. in L. Casini, La riscoperta del corpo. Schopenhauer, Feuerbach, Nietzsche, Edizioni Studium, Roma, 1990, p. 109 e ss.

[3] L. Feuerbach, Tesi preliminari per la riforma della filosofia, in Scritti filosofici, a cura di C. Cesa, Laterza, Roma-Bari, 1976, p. 188

[4] L. Feuerbach, Spiritualismo e materialismo, op. cit, p. 189

[5] Ivi., p. 116

[6] Ivi., p. 116-117

[7] Ivi., p. 117

[8] Ivi., p. 68

[9] Ivi., p. 69

[10] Ivi., p. 110

[11] L. Feuerbach, Principi della filosofia dell’avvenire, in Scritti filosofici, op. cit., p. 271

[12] L. Feuerbach, Spiritualismo e materialismo, op. cit., p. 109

[13] L. Feuerbach, Per la critica della filosofia hegeliana, in Scritti filosofici, op. cit., p. 96

[14] Ibid.

[15] Ivi., p. 48

[16] L. Feuerbach, Spiritualismo e materialismo, op. cit., p. 171

[17] L. Feuerbach, L’essenza della religione, a cura di C. Ascheri e C. Cesa, Laterza, Roma-Bari, 1981, p. 116

[18] L. Feuerbach, Tesi preliminari per la riforma della filosofia, in Scritti filosofici, op. cit., p. 186

[19] Ivi., p. 188

[20] L. Feuerbach, Principi della filosofia dell’avvenire, in Scritti filosofici, op. cit., p. 270

[21] Ivi., p. 269

[22] L. Feuerbach, Spiritualismo e materialismo, op. cit., p. 54

[23] Ivi., p. 61

[24] Ivi., p. 167

[25] Ivi., p. 168

[26] Ivi., p. 182

[27] Ivi., p. 51

[28] Ivi., p. 67

[29] Ivi., p. 172

[30] L. Feuerbach, Principi della filosofia dell’avvenire, in Scritti filosofici, op. cit., p. 251

[31] Ivi., p. 253

[32] Ivi., p. 254

[33] Ivi., p. 269

[34] Ivi., p. 272

[35] Ivi., p. 273

[36] Ivi., pp. 258-259

[37] L. Feuerbach, Spiritualismo e materialismo, op. cit., p. 109

[38] Ivi., p. 110

[39] Ivi., p. 101

[40] Ivi., p. 75

[41] Ivi., p. 188

[42] L. Feuerbach, Principi della filosofia dell’avvenire, in Scritti filosofici, op. cit., p. 252

[43] L. Feuerbach, Spiritualismo e materialismo, op. cit., p. 110

[44] L. Feuerbach, Principi della filosofia dell’avvenire, in Scritti filosofici, op. cit., pp. 253-254

[45] Ivi., p. 253

[46] Ivi., p. 253

[47] L. Feuerbach, Spiritualismo e materialismo, op. cit., p. 164

[48] Gedanken über Tod Unsterblichkeit, 1830, cit. in L. Casini, La riscoperta del corpo, op. cit., p.114.

[49] Ivi., p. 121

[50] Leibniz, 1837, cit. in  L. Casini, La riscoperta del corpo, op. cit., p. 133

[51] Des Wesen des Christentums , 1841, cit. in L. Casini, La riscoperta del corpo, op. cit., p. 148

[52] Ueber den Anfang der Philosophie, 1841, cit. in  L. Casini, La riscoperta del corpo, op. cit., p. 156

[53] L. Feuerbach, Principi della filosofia dell’avvenire, in Scritti filosofici, op. cit., p. 200

[54] Ivi., p. 254

[55] Ivi., p. 245

[56] Ivi., p. 248

[57] Ivi., p. 270

[58] Wider den Dualismus von Leib und Seele, Fleisch und Geist, 1846, cit. in L. Casini, La riscoperta del corpo, op. cit., p.175

[59] L. Feuerbach, Spiritualismo e materialismo, op. cit., p. 112

[60] Ivi., p. 117

[61] Ivi., p. 151

[62] Ivi., p. 161

[63] Ivi., p. 162

[64] Ivi., p. 179

[65] Ivi., p. 189

[66] Ivi., p. 163

[67]Ivi., pp. 162-163

[68] Ivi., p. 164

[69] Ivi., pp. 164-165

[70] Ivi., p. 165

[71] Ivi., p. 171

[72] Ivi., p. 166

[73] Ivi., p. 175

[74] Ivi., p. 176

[75] Ivi., p. 184

[76] Ivi.,  p. 49

[77] Ivi., pp. 51-52

[78] Ivi., p. 180

[79] cit. in N. Abbagnano, G. Fornero, Itinerari di filosofia - 3 A, Paravia, Varese, 2003, p. 57

[80] Ivi., p. 57

[81] cfr. D. Fusaro, “Il menù dei filosofi”, in www.filosofico.net – La filosofia e i suoi eroi, on-line: «Forse questa coincidenza tra essere e mangiare potrà sembrare un po’ eccessiva, ma è innegabile il fatto che, se siamo, è perché mangiamo. Che poi siamo ciò che mangiamo, forse è un po’ troppo, con buona pace di Feuerbach». Disponibile su http://www.filosofico.net/filosofiatavola.htm

[82] Anche «Der Mensch ist, was er iβt», in Blätter fur Literarische Unterhaltung, 12 novembre 1850.

[83] cit. in L. Casini, La riscoperta del corpo, op. Cit., p. 178-179

[84] L. Feuerbach, Principi della filosofia dell’avvenire, in Scritti filosofici, op. cit., p. 253

[85] Ivi. , p. 271

[86] L. Feuerbach, Spiritualismo e materialismo, op. cit., p. 112

[87] Cfr. L. Casini, La riscoperta del corpo, op. cit., pp. 175 e ss.

[88] L. Feuerbach, Spiritualismo e materialismo, op. cit. pp. 160-161

[89] Ivi., p. 165

[90] Ivi., p. 162

[91] Ivi., p. 163

[92] Ivi., p. 164

[93] L. Feuerbach, Tesi preliminari per la riforma della filosofia, in Scritti filosofici, op. cit., p. 190

[94] L. Feuerbach, Principi della filosofia dell’avvenire, in Scritti filosofici, op. cit., p. 272

[95] Ivi., p. 254

[96] L. Feuerbach, Spiritualismo e materialismo, op. cit., p. 102

[97] L. Casini, La riscoperta del corpo, op. cit., “Il corpo come totalità umana e apertura al mondo in Feuerbach”

[98] Des Wesen des Christentums, 1841, cit. in L. Casini, La riscoperta del corpo, op. cit., p. 147




Aggiunto il 25/06/2014 11:44 da Fabio Dellavalle

Argomento: Filosofia moderna

Autore: Fabio Dellavalle



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