“L’uomo è misura di tutte le cose: di quelle che sono come sono, di quelle che non sono come non sono” (DK 80 B 1)
Entro quali limiti questa affermazione di Protagora può essere considerata il principio, in ordine storico e teoretico, del relativismo, tale essendo ritenuta dalla tradizione filosofica, archègete Platone? La domanda acquista un senso se, abbandonando la via maestra, proviamo a seguire un sentiero un poco discosto.
Nell’omonimo dialogo di Platone il ‘personaggio’ Protagora afferma di ritenere fondamentale per la cultura di un uomo la conoscenza dei poeti, di quello che hanno scritto bene (orthōs) oppure no (Prot. 338e-339a). Ma nella tradizione poetica greca, il Protagora ‘reale’, intellettuale ‘organico’ della democrazia ateniese, amico di Pericle, dal quale riceve l’incarico di redigere la costituzione della colonia di Turi, cosa trovava? La diffusa presenza dell’ideologia di classe di una lunga lista di letterati aristocratici. Fra questi Teognide di Megara, la cui opera “fu nel mondo greco – scrive Gennaro Perrotta (Milano, 1974) – il codice dell’aristocrazia”. Ai versi 611-614 del primo libro della sua raccolta di elegìe leggiamo:
“Non
è difficile biasimare il vicino, né lodarlo:
di
ciò si occupano gli uomini da nulla.
I
cattivi non vogliono tacere, ciarlando insulti,
ma
i buoni sanno avere la misura di tutto.”
Sono solo semplici enunciazioni moralistiche? La verità è che l’aristocrazia fonde insieme morale e politica, avendo creato ‘ad hoc’ un lessico ambivalente. Gli “uomini da nulla” (deiloi), i “cattivi” (kakoi), sono i plebei, i “buoni” (agathoi) sono i nobili. I rappresentanti dei ceti popolari, emergenti economicamente e socialmente, denuncia Teognide, osano criticare i governanti aristocratici, ne giudicano l’operato, ne contestano le decisioni, lo fanno addirittura apertamente. “Ciarlare insulti” è in greco “kakà leschazein”, il verbo deriva dal sostantivo ‘leschē’, ‘portico’, dove si radunano gli sfaccendati a chiacchierare, ma anche ‘assemblea’. Il senso è chiaro: i plebei, gli ignobili, rincara Teognide, hanno disimparato a tacere, prendono impudentemente la parola nelle adunanze cittadine, vogliono partecipare alle deliberazioni; ma essi non capiscono che non sono in grado di farlo, perché approvano o biasimano senza comprendere, come si fa, con il cicaleccio o le urla, in un convegno di oziosi. Un analogo concetto, forse ancora più duro, è espresso da Platone in Rep. 492 b-c, dove si fa riferimento ai luoghi simbolo della democrazia ateniese: l’assemblea popolare, il tribunale, il teatro. La verità, sentenzia Teognide, è che solo i ‘buoni’, i nobili, possiedono la sapienza e la saggezza necessarie per decidere al meglio: solo essi conoscono la “giusta misura” (metron) di tutto.
La famosa dottrina dell’‘uomo misura’ potrebbe essere, a mio avviso, niente altro che la replica ‘politica’ di Protagora a Teognide. Contro il poeta aristocratico, Protagora sosterrebbe la tesi che il governo dello Stato non deve essere un privilegio di classe, perché i nobili non detengono conoscenze speciali che li abilitino, essi soli, al potere; al contrario, la conduzione della ‘cosa pubblica’ può utilmente usufruire del contributo di ogni ‘membro della comunità’. Tale è infatti, io credo, il significato del generico ‘anthrōpos’, ‘uomo’, che in greco viene talora apposto ad un sostantivo specifico, indicante ad esempio una professione. Non è difficile scorgere dietro a quest’‘uomo’, quegli architetti, fabbri, calzolai, commercianti, armatori, menzionati in Prot. 319 c-d, ai quali la costituzione ateniese, con grande scandalo di Platone, conferisce libertà di parola, ‘isēgoria’, quando in assemblea vengono discussi gli affari di Stato. Forse a questo allude Platone in Teet. 161e, insinuando che, nel proporre la sua dottrina, Protagora “avesse scherzato”, ma il verbo che egli usa significa pure “lusingare il popolo”. Ciò che viene ‘misurato’, le ‘cose’, in greco è ‘chrēmata’: questo termine indica ‘le cose che servono, sono utili’, le ricchezze, le faccende, gli affari. Il verbo ‘chrēmatizein’ significa ‘occuparsi di affari’ pubblici e privati, ‘esporre all’assemblea’, ‘deliberare’. ‘Chrēmata’ è sinonimo di ‘pragmata’, che esplicitamente significa ‘affari di Stato’. In Erodoto (III, 80) ‘instaurare il regime democratico’ è ‘porre in comune gli affari (pragmata)’, anche nel senso di ‘sottoporli a pubblico dibattito’; in Tucidide (II, 40) Pericle, nel famoso epitaffio, afferma che ad Atene non si prendono decisioni avventate, perché le questioni (pragmata) vengono correttamente giudicate o almeno ponderate. Protagora dunque non farebbe altro che affermare, contro gli intellettuali aristocratici come Teognide, che non solo i nobili, ma ogni cittadino è la giusta misura di tutto ciò che concerne gli affari dello Stato.
Ma come giustifica Protagora la sua tesi? In altre parole, qual è il fondamento di quel regime democratico che Protagora difende contro le pretese autoritarie dell’aristocrazia? Cosa rende la comunità capace di essere ‘isonoma’, ossia di autogovernarsi senza delegare il comando ad una èlite, secondo una concezione non verticistica ma orizzontale del potere? Protagora lo spiega nel già citato dialogo platonico a lui intitolato. Le società umane, per poter continuare ad esistere, necessitano che ciascun membro di esse partecipi dell’‘arte politica’, ‘politikē technē, ossia di un complesso di virtù etiche e civili, fra cui le più importanti sono la giustizia, ‘dikē, e il ‘rispetto’, ‘aidōs’: nel loro insieme esse costituiscono quella che Protagora chiama anche la ‘virtù, aretē, propria dell’uomo’(Prot. 325e). Ancora contro Teognide (cfr. I, 429-38; 535-38) e la tradizione aristocratica, per cui l’‘aretē’è una qualità innata e un bene ereditario delle stirpi nobiliari, Protagora è convinto che la virtù possa essere acquisita, e lo è di fatto, da ogni uomo mediante l’insegnamento, fin dalla più tenera età, dei genitori e dei maestri (Prot. 325c-326c). E’ l’educazione, ‘paideia’, dunque, il fondamento della costituzione democratica. Si tratta di un processo che richiede studio, diligenza ed esercizio e che si prolunga nell’età adulta, quando a fungere da modello non saranno più genitori e maestri ma le leggi, in senso lato, dello Stato (Prot. 326d).E’ così che ogni cittadino, come sostiene Pericle, può “formarsi un’opinione non inadeguata degli affari politici” (Tuc. II, 40) e divenire, come afferma Protagora, misura dello Stato. Egli può e deve, la democrazia comporta un’assunzione di responsabilità, recare il suo contributo al governo della comunità: ciò che a lui ‘sembra giusto’, è tale per lui in virtù della sua educazione e dell’esperienza quotidiana. Tutte le opinioni sono dunque pari rispetto all’origine, educazione ed esperienza, e ‘vere’ in linea di principio, ma non tutte hanno lo stesso valore, alcune sono migliori, sotto vari riguardi, delle altre. A conclusione del dibattito, la deliberazione assunta viene suggellata nei documenti ufficiali con la formula: “sembrò giusto al Consiglio e al popolo”. Il pensiero di Protagora, dunque, non tanto volge al ‘relativismo conoscitivo’, quanto invece esprime una fiducia pragmatica verso il funzionamento della prassi democratica. Il genio speculativo di Platone ha tuttavia buon gioco nell’intendere ‘sembrare giusto’, ‘dokein’, come ‘apparire’, ‘phainesthai’, e quindi ‘le cose’ come ‘sensazioni’, ‘aisthēseis’, ‘apparenza’, ‘phantasia’ (Teet. 152a-c; cfr. anche Crat. 385e- 386a), trasformando un articolato processo di apprendimento, riflessione e dibattito nell’atto momentaneo di un singolo individuo. In tal modo Platone ha successo nell’assimilare un detestato regime politico, la democrazia, ad un’altrettanto detestata dottrina gnoseologica, il relativismo, colpendoli entrambi con l’arma della confutazione logica.
Resta da esaminare brevemente la seconda parte dell’affermazione di Protagora. Non c’è dubbio che ci troviamo di fronte ad una presa di posizione polemica, qui molto esplicita, nei confronti del pensiero di Parmenide, ma non dimentichiamoci che questo filosofo è stato anche il legislatore aristocratico di Elèa, la sua città. Tenendo presente l’acuta interpretazione del poema parmenideo di Giovanni Cerri (Milano, 1996/2004; cfr. spec. pagg. 57-62), possiamo ritenere che Protagora , di fronte al sapere ‘scientifico’, dell’‘essere come identità’, di cui Parmenide è assertore, rivendichi la validità di quel sapere ‘umanistico’ di poeti, storici, viaggiatori geografi, che l’eleate bolla come ‘non essere’, conoscenza non ‘reale’, perché irriducibilmente legata alla molteplicità dell’esperienza, ma che per questo costituirebbe, a giudizio di Protagora, il bagaglio culturale di quelle persone comuni che sono chiamate a dibattere e a prendere decisioni nelle assemblee cittadine. Ancora una volta prevale in Protagora il motivo politico: la democrazia si fonda su una pluralità di saperi, di cui in ultima analisi è arbitro, in qualità di fruitore, il cittadino.
Aggiunto il 20/03/2012 18:34 da Salvatore Daniele
Argomento: Filosofia antica
Autore: Salvatore Daniele
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