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Privatizzazione del pubblico: dall’utopia alla distopia.

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L’odierna degenerazione occidentale dei comportamenti è originariamente pubblica e, solo di riflesso, privata: nelle interazioni sociali private tra sconosciuti, le persone non si comportano poi tanto peggio che in passato, avendo generalmente conservato sufficienti dosi di educazione e di rispetto; è nelle situazioni pubbliche (commenti sui social inclusi) che abbiamo perso la bussola. Non è del resto infrequente che le utopie si trasformino in incubi. L’utopia di divenire trasparenti, di evolverci in esseri così puliti, così eticamente ed esteticamente igienici da poter rendere pubblico tutto ciò che era privato, dopo aver assunto varie forme, via via più inquietanti (partendo dal “tutto è politica” del Sessantotto italiano e francese, attraversando l’ipocrita e ruffiana glasnost tardo-sovietica e i reality shows della decadenza occidentale dei tardi anni Novanta, fino allo “sharing is caring” statunitense della nostra era informatica, artisticamente rivelato dal distopico romanzo “The Circle”), questa utopia libertaria-comunitaria della trasparenza totale si è tramutata, quasi inevitabilmente, nel suo opposto, ossia in un’oppressiva distopia liberista-privatistica, per certi aspetti persino orwelliana, certamente alienante, pericolosamente indirizzata verso una nuova forma di totalitarismo: abbiamo infatti privatizzato il pubblico, prima di tutto arrivando a considerare oggetto di tutela “per ragioni di privacy” persino le nostre idee politiche e religiose, addirittura il luogo in cui lavoriamo, l’università dove abbiamo studiato, la città o il paese dove siamo nati o viviamo.

Quando ero ragazzo, non era considerato affatto strano avere in casa elenchi pubblici di cittadini con tanto di numero di telefono e indirizzo: si trattava infatti di cittadinanza e di condivisione, non certo di questioni personali. La nostra paura, da giovani idealisti, era che non si sapesse cosa pensavamo, politicamente, non che si sapesse; il terrore era che nessuno avrebbe mai saputo chi eravamo, a quale mondo valoriale appartenevamo, in cosa credevamo, non certo che qualcuno l’avrebbe scoperto. Privato era, allora, l’intimo: i nostri segreti, i nostri sogni e peccati, i nostri amori e dolori. Quelli, non li avremmo confessati che a un caro amico - oggi, al contrario, li diamo serenamente in pasto al diario di Facebook o ai nostri followers su Instagram, Twitter, YouTube; ed è proprio questa l’altra faccia, quella più tortuosa e potenzialmente totalitaria, della privatizzazione del pubblico. Funziona così: attraverso i dogmi della comunicazione e della trasparenza, intesi come valori in sé stessi e non solo come pur importantissimi mezzi, nonché mediante le tecniche della connessione totale via “app” e reti sociali e della raccolta dati algoritmica, il privato personale diventa di dominio pubblico per pochi secondi (rare volte per qualche minuto, ora, o giorno - dipende dal numero di like e di commenti), il tempo necessario per essere raccolto in una banca dati e nuovamente privatizzato, ossia trasformato in un privato stavolta impersonale, massificato, ossia puramente aziendale, numerico, quantitativo, statistico - tutto questo a fini manipolativi, fino a oggi prevalentemente commerciali, ma già per molti versi anche politici.

L’alienazione, nel senso di cessione ad altri, di elementi organici della personalità da trasformare in dati digitali si fa così alienazione personale e sociale, nel senso di perdita di identità, essendo l’identità sempre e solo qualitativa, mai quantitativa.

Moltissimi di noi, oggi, si comportano in pubblico come se fossero in privato; non si tratta certo solamente del parlare ad alta voce dei propri affari, di cuore o di tasca, al telefono mentre si è circondati da decine di sconosciuti; molto di più, si tratta di ministri che si fanno riprendere da telecamere mentre ballano a torso nudo al ritmo della musica di una discoteca di spiaggia (come Matteo Salvini), di capi politici che rilasciano interviste mentre fanno jogging, fingendo di essere stati interrotti dal giornalista (come Matteo Renzi) e di infiniti altri casi. Come siamo arrivati, dunque, a privatizzare il pubblico, nei vari modi qui sopra descritti? Certamente questa degenerazione, oltre a essere strettamente legata alle difficoltà oggettive che ci troviamo inevitabilmente ad affrontare nella gestione collettiva di un fenomeno fino a pochissimo tempo fa del tutto sconosciuto, quello dell’impatto sociale delle nuove tecnologie di comunicazione, è in perfetta armonia con le recenti trasformazioni sociali e politiche, ossia con il clamorosamente colpevole arretramento del settore pubblico a vantaggio della clamorosamente aggressiva espansione di quello privato (tecnologie della comunicazione incluse): in quante città italiane piazze un tempo ampie e accoglienti si sono ridotte a uno stretto passaggio, il resto occupato dai tavolini di bar e ristoranti? In quante spiagge il pubblico accesso al mare è divenuto un’impresa per abili esploratori? Ma, soprattutto: quante attività di rilevanza sociale in passato giustamente considerate di interesse comune sono passate a gestione, di fatto, privata?

Ci vuole una riscossa; ma non si può certamente tornare al pubblico dell’ENI dei tempi di Mattei e Cefis, o a quello dell’IRI, ossia all’impresa capitalistico-statale che mette in atto politiche di potenza ricorrendo a metodi privatistici e clientelari; né si può replicare alla privatizzazione del pubblico rispolverando l’utopia della politicizzazione del privato. Il nuovo interesse pubblico che ho in mente è ben altro: ne ho trattato in uno studio molto più approfondito del presente articolo e che spero di riuscire un giorno a pubblicare. Ne trascrivo qui, ai fini della completezza di questo discorso, un breve estratto, con il quale concludo l'articolo.

“[...] Vi scrivo dunque ora dalle stelle, un luogo insieme di sogno e di sostanza, l’unico in cui si possa tentare di dare l’utopia politica in sposa alla progettualità pragmatica, ragionando su come si potrebbe iniziare a realizzare una delle utopie più presenti nella nostra cultura occidentale, quella della scomparsa della proprietà privata - individuale o statale che sia.  

Il sostegno all’idea della “separazione tra etica e politica”, del quale abbiamo trattato anche con riferimento all’opera del Machiavelli, è - insieme a quell’atteggiamento che percepisce l’identità collettiva come nemica della libertà individuale  - strettamente legato all’incapacità della politica attuale di credere in sé stessa e quindi di occupare una posizione privilegiata rispetto all’economia e alla tecnologia. Come potrebbe, per invertire la tendenza attuale e iniziare a percorrere la strada che conduce al primato della politica, la costituzione di una repubblica partecipativa affrontare la questione della necessità di un controllo comunitario sulle attività di grande impatto sociale?

L’impiego di massa dei cosiddetti “social network”, per esempio, ha - come abbiamo visto - un significativo impatto sulla natura dei rapporti sociali e quindi sull’organismo sociale, inteso nel suo complesso e non solo come un quadro visivo al cui interno osserviamo svolgersi innumerevoli vicende individuali fra loro irriducibili. La costituzione di una repubblica partecipativa deve dunque occuparsi di questo e di tutti gli altri fenomeni sociali a esso, in questa prospettiva, simili - ne abbiamo abbozzato un breve elenco nel capitolo I.V; ma le opposte ricette della statalizzazione - ispirata al principio della garanzia - e della privatizzazione - ispirata a quello dell’efficienza - hanno già mostrato, storicamente, la loro inadeguatezza, non fosse altro che per aver dato vita e forza persuasiva a una contrapposizione tra “garanzia” ed “efficienza” che non avrebbe invece alcuna ragione di esistere.

Se esiste un modo per sfuggire all’eterna dicotomia fra “statale” e “privato”, esso consiste nella valorizzazione della dimensione del pubblico. L’attribuzione dello status di interesse pubblico a un determinato campo di attività sociale deve implicare il divieto di agire in quella sfera per arricchirsi. Il settore dell’istruzione dei giovani può servirci da esempio forse ancora più significativo rispetto a quello fornitoci dai social network: il perpetuo e irritante scontro tra sostenitori dell’istruzione privata e seguaci di quella pubblica può trovare una via d’uscita esclusivamente nel conferimento a tutte le forme di istruzione dei giovani dello status di attività di interesse pubblico e nel conseguente divieto di accumulare denaro attraverso di esse [...].

Lo stesso discorso va fatto per quegli sport che, se a torto o a ragione non sta qui a me deciderlo, muovono, “divertendole”, agitandole e a volte sconvolgendole, menti e cuori di grandi masse popolari. Che le squadre di calcio, ad esempio, possano trasformarsi in società per azioni è semplicemente inaccettabile. In linea più generale, a nessuna attività di grande impatto sociale deve essere consentito acquisire una quotazione in borsa.

A questo tratto costitutivo, ossia allo status pubblico delle attività sociali, di cui - nella sua forma moderata, ossia relativa esclusivamente alle attività capaci di impattare sull’organismo sociale nella sua interezza - un’autentica repubblica partecipativa deve dotarsi senza indugio, si lega quello dell’abolizione della proprietà privata, anch’esso rapidamente conseguibile solo se concepito in una forma moderata (la sua scomparsa completa essendo invece realizzabile, senza scorciatoie tecnocratiche, solo in tempi molto più lunghi). Mentre il primo tratto è relativo ai rapporti sociali, il secondo si riferisce, evidentemente, ai beni materiali. La statalizzazione dei beni materiali non essendo, come già detto, altro che generazione di proprietà privata statale, l’unica soluzione al dilemma “statale versus privato” sta nell’affermazione di uno status pubblico dei beni materiali stessi, consistente nel divieto per chiunque - comunità inclusa - di appropriarsene. Naturalmente, questo divieto può essere - oggi - realisticamente istituito solo limitatamente all’accumulo oltre una certa misura dei suddetti beni.

Le energie organizzative della comunità repubblicana, venendo così convogliate in tutte quelle attività di normazione leggera e puntuale e di controllo rigoroso e rispettoso volte a garantire il rispetto dei due divieti sopra delineati (quello relativo all’arricchimento tramite attività sociali e quello riferito all’accumulo di beni materiali), sarebbero finalmente distolte dall’infernale ipertrofia di quelle attività amministrative oggi necessarie alla comunità statale per gestire direttamente in quanto proprietaria, o per interferire nella loro gestione privata in quanto soggetto fortemente interessato, beni materiali accumulati e servizi di portata collettiva; del resto, non credo si possa dubitare del fatto che gli odierni Stati nazionali siano dotati di una burocrazia del tutto o quasi del tutto avulsa dalla comunità.

Per concludere: l’aspetto fondamentale di questo nuovo approccio consiste nella valorizzazione della cooperazione a discapito della competizione: le attività sociali sarebbero infatti svolte per il piacere di collaborare e non per il desiderio di arricchirsi; i beni materiali sarebbero gradualmente sempre più considerati come qualcosa da usare e condividere, sempre meno come qualcosa da possedere e sul cui possesso speculare [...]”. 




Aggiunto il 30/01/2020 15:50 da Alberto Cassone

Argomento: Filosofia politica

Autore: Alberto Cassone



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