Ora: nel mio mondo scarseggia l’onestà intellettuale, ma non l’intelligenza.
Non sono tutti ammattiti. Vedono qualcosa che c’è. Ma quel che c’è, io non
riesco a guardarlo con quegli occhi lì.
Qualcosa non mi torna”.
Alessandro Baricco
Stiamo vivendo un tempo di mutazione. E’ in atto un cambiamento nella cultura della civiltà occidentale, che va ben oltre il semplice cambiamento ideologico nel susseguirsi delle epoche storiche o un normale avvicendamento generazionale, quasi uno smarrimento che starebbe delineando uno smembramento sistematico mentale ereditato dalla cultura occidentale precedente.
Questa mutazione sarebbe stata generata principalmente dall’affermarsi di un sistema di globalizzazione e dallo sviluppo di innovazioni tecnologiche, che hanno ridotto e riformulato i concetti di spazio e tempo. Tale fenomeno ha permesso l’accesso al mondo del sapere e della conoscenza, conducendo a un processo di generazioni nuove portatori di questa energia capace di generare il mutamento radicale.
I principali campi che hanno risentito maggiormente di questa mutazione sono identificati nella diversa idea di fare esperienza e del diverso modo di concepire il senso vero, l’anima, della stessa esistenza.
A volerne scegliere una, si potrebbe usare la descrizione che ne dà Baricco, nel suo saggio sui "barbari" dove l'autore ci accompagna così in un viaggio per cercare di capire cosa in realtà sta mutando, dove possiamo trovare questa mutazione, perché quest'ultima ha un sapore diverso dalle normali differenze fra generazioni. Ci porta alla ricerca di un modo nuovo di vedere e percepire le cose, una nuova mentalità, una nuova nozione di "senso", un nuovo modo di vivere. Con molta fantasia e originalità, con un connubio tra linguaggio complesso e linguaggio colloquiale, e l'aiuto di qualche similitudine, allegoria e metafora, assistiamo al tentativo di spiegare un fenomeno che mai come in questi ultimi anni si sta insidiando nella nostra civiltà. Molti neanche si accorgono del suo passaggio, oppure lo percepiscono appena, lo guardano e poi lasciano passare.
Sarebbe già una risposta alle difficoltà che incontriamo ad insegnare filosofia oggi.
In ogni ordine di scuola la riflessione, la conoscenza,il sapere, l'analisi, l'autenticità, la formazione globale della persona umana sono considerati il traguardo da raggiungere. Forse non l'unico, ma certo uno dei più importanti sistemi della cultura che impariamo - e insegniamo - è la ricerca di un'essenza, necessariamente incastonata nella profondità delle cose. Ma non è così per i nostri studenti. Per essi cambia il modo di fare esperienza e, quindi, il modo di essere e di pensare in queste esperienze. La semplificazione, la medietà, la velocità, la superficialità, l'estasi commerciale, la spettacolarità sono i tratti emergenti. La stupefacente idea che qualcosa, qualsiasi cosa, abbia senso solo se riesce a inserirsi in una più ampia sequenza di esperienze. Ecco i tratti del mondo a cui ci stiamo adattando. Tutti omologati, massificati, unificati, alienati ad una vita illusoria, non per essere, ma per apparire, non per piacersi, ma “per piacere”: un vero e proprio fenomeno di relativismo e massificazione. E' nato l'uomo orizzontale, che naviga sulla pelle delle cose e ha in avversione il profondo e l'autentico (in certi tratti sembra di risentire Nietzsche). Cerca solo la velocità nel percorrere le traiettorie che lo portano ad altre esperienze. Il senso sale in superficie e diventa la rete che permette di transitare da esperienza a esperienza. E' nata l'idea che l'intensità del mondo non si dia nel sostrato delle cose, ma nel bagliore di una sequenza disegnata in rapidità sulla "superficie dell'esistente".
Potrei affermare pensando che anche queste riflessioni, a tutti gli effetti, sono filosofia. Ma è una consolazione da poco. In questa mutazione il progetto stesso della filosofia che abbiamo imparato e insegnato sta mostrando il proprio limite.
Si potrebbe partire da una citazione
“Il principale interesse della filosofia è mettere in questione e comprendere idee assolutamente comuni che tutti noi impieghiamo ogni giorno senza pensarci sopra. Uno storico può chiedere che cosa è accaduto in un certo tempo del passato, ma un filosofo chiederà “Che cos’è il tempo?”. Un matematico può studiare le relazioni tra i numeri, ma un filosofo chiederà “Che cos’è il numero?”. Un fisico chiederà di che cosa sono fatti gli atomi o che cosa spiega la gravità, ma un filosofo chiederà come possiamo sapere che vi è qualche cosa al di fuori delle nostre menti. Uno psicologo può studiare come i bambini imparano un linguaggio, ma un filosofo chiederà “Che cosa fa in modo che una parola significhi qualche cosa?”. Chiunque può chiedersi se è sbagliato entrare in un cinema senza pagare, ma un filosofo chiederà “Che cosa rende un’azione giusta o sbagliata?”
T. Nagel, Una brevissima introduzione alla filosofia, Milano, Mondadori 1989, pp. 6-7
I filosofi hanno definito la filosofia in molti modi diversi: la parola “filosofia” ha un’origine antica. Comparsa per la prima volta in Grecia verso la fine del V secolo a. C., significava “amore per il sapere o per la sapienza”. L’origine delle parole, però, non spiega tutti i significati che queste assumono nel corso del tempo, e da allora il termine filosofia è stato usato in molti sensi, anche se si può affermare con certezza che chi pratica filosofia è sempre stata una persona che desidera conoscere, si pone delle domande e mette in atto procedure, metodi, ricerche per trovare risposte. Ciò su cui da sempre la filosofia indaga sono le domande fondamentali quali, per esempio, che senso ha vivere, quando un’azione è buona, se esiste una verità, che cos’è la bellezza, quali sono i principi primi, le cause finali, i valori etico-morali, lo studio sull’essere e sul divenire. Si tratta di questioni generali, proprie di ogni persona e di ogni tempo, non limitate ad una situazione specifica o ad un aspetto particolare.
Eppure non è solo la filosofia a porsi tali domande generali. Anche le religioni affrontano questioni dello stesso tipo: da dove veniamo? dove andiamo? esiste qualche cosa oltre l’apparenza di ciò che vediamo?... Anche la letteratura pone, in casi esemplari, le stesse questioni di fondo e offre delle risposte. La differenza è nel modo di trovare le risposte: la filosofia utilizza solo la razionalità, indagando, argomentando, criticando con le sole armi della ragione, senza presupporre nessun atto di fede.
Ciò in cui propriamente consiste l’indagine filosofica è porre problemi generali per poi affrontarli razionalmente. In questo, senza dubbio, la filosofia è simile alle scienze per il modo razionale in cui affronta le proprie questioni. La differenza è di fase. Anche nelle scienze vi sono delle fasi in cui i princìpi sono messi in discussione e qualcosa di nuovo sta prendendo forma. Per questo anche nel mondo della scienza, in fasi di mutamento delle matrici disciplinari, anche gli scienziati fanno i filosofi.
Proprio della filosofia, e di tutti i saperi scientifici in certi momenti della loro evoluzione, è la capacità di mettere in questione razionalmente i princìpi. Per questo diciamo che solo la filosofia discute sul fondamento, perché sospende e valuta le condizioni di possibilità di ciò che viene ritenuto vero.
Ma questa attività è possibile solo usando la ragione in un certo modo, affrontando le questioni in modo particolare che riguardano il bene, il bello, il dovere, il giusto, la possibilità della conoscenza, il rapporto fra il linguaggio e le cose, il significato della vita umana. E' il modo dell'argomentazione, in cui alcuni aspetti vengono comunque assunti come veri e validi, ma molte delle premesse vengono messe in discussione. Solo così si può discutere di razionalità ragionando, di linguaggio parlando, di tempo vivendo. Solo con questo approccio, tipicamente filosofico, possiamo indagare le cause, i princìpi, l’origine, il fine dell’uomo e delle cose che, in fondo, costituiscono il limite della nostra esperienza. La filosofia usa per questo la ragione argomentativa. E questa competenza le è propria.
I due più grandi filosofi del mondo antico, ossia Platone (428/427-348/347 a.C.) e Aristotele (384-322), affermarono che la filosofia nasce dalla meraviglia, cioè dallo stupore; potremmo anche dire dalla curiosità dal vedere cose nuove, o le cose precedenti con occhi nuovi, meravigliandosi tanto da chiedere “perché?”.
Platone chiamava dialettica l'arte dell'indagare razionalmente i princìpi. Già per il filosofo ateniese la dialettica era considerata la competenza fondamentale della filosofia. Infatti essa stava alla base della dimostrazione, perché saggiava la tenuta dei princìpi ritenuti veri da cui partivano le scienze, come la matematica o la geometria, "rendendone ragione". Così definita, la dialettica è cruciale per saggiare la tenuta dei princìpi primi di ogni scienza: ma non è una scienza, perché procede per interrogazioni e si serve di premesse concesse dall’avversario, senza la garanzia che esse siano vere e adeguate per una dimostrazione.
Aristotele prosegue su questa via, con un ulteriore chiarimento. Scopo della dialettica, per lo Stagirita, è molteplice mettere alla prova una tesi (Top., viii, 159 a, 161 a), conoscere e saggiare le opinioni degli uomini (Top., I, 101a) e infine saggiare il valore epistemologico dei princìpi da cui parte ogni scienza. Così intesa la dialettica diventa l’arte di esaminare, nel confronto tra posizioni, i princìpi primi di ciascuna scienza e i princìpi comuni a tutte le scienze.
A partire da queste premesse platonico - aristoteliche, riprese e mediate dalla cultura ellenistica, lo studio dell’argomentare corretto è stato parte integrante della formazione culturale superiore.
Nel trivio (grammatica, retorica e dialettica) introdotto da Capella nel IV sec. e poi stabilizzato con Boezio e Isidoro di Siviglia nel VI sec. le artes sermocinales richiedevano una conoscenza non solo linguistica ma retorica e logica, una capacità di analisi dei problemi e una tecnica di svolgimento della disputa filosofica (la quaestio) in cui la strategia argomentativa era parte decisiva. Ma a questa fase felice della dialettica fa seguito un periodo di crisi e rimozione, coincidente con il sorgere del pensiero moderno.
Per molte ragioni il moderno abolisce la dialettica dal campo di formazione del buon pensatore, riducendo sempre più la grammatica a logica, almeno a partire dalla Logica di Port-Royal.
La svolta cartesiana della filosofia moderna non fa che accentuare questa cattiva fama della dialettica e della retorica, ormai accomunata da un unico destino di vaghezza e oscura incertezza conoscitiva, per lasciare il campo alla scienza, e in particolare al metodo analitico proprio delle discipline matematiche. Da qui la cattiva fama che accompagna la dialettica, ad esempio in Kant, o la sua profonda ristrutturazione in forma metafisica, storica e sociale (Hegel e Marx) nell’Ottocento e in buona parte del Novecento.
E' con la metà del Novecento si incomincia a parlare di argumentativ turn. Dopo la svolta linguistica, che ha collocato la riflessione filosofica novecentesca a ridosso e, spesso, completamente all’interno del problema del linguaggio, è in atto una rinnovata attenzione alle tematiche dei processi logici argomentativi, o della cosiddetta logica informale. Quello di Thomas Nagel, un filosofo del nostro secolo, ha il merito di mostrare la natura instabile di questa disciplina, che si interroga su che cosa si nasconde dietro le nostre parole più usate e i nostri concetti più comuni. La filosofia nasce da questo “meravigliarsi” di fronte all’ovvio. Ma non ogni domanda è una domanda filosofica.
Ciò avviene per una precisa strategia didattica nordamericana (l’obbligo di introdurre nell’insegnamento superiore degli elementi di teoria critica del ragionamento e soprattutto del ragionamento fallace) e, in ambito continentale, ad opera di studi con i quali sono stati ripresi temi e problemi tipici dell’argomentare.
E’ necessario che tale rischio possa essere
evitato, insegnando la filosofia non soltando attraverso il metodo storiografico,
ma anche attraverso quello problematico, in un rapporto di reciproca
complementarietà, dove le "idee" vengano sì storicamente
contestualizzate, ma al contempo calate in una realtà effettuale sempre in
divenire, in cui il pensiero possa crocianamente tradursi in azione. Affinché questo sia possibile, però, occorre
recuperare il grande insegnamento di Socrate e Platone, che hanno fatto del
dia-logos, il metodo della ricerca e del raggiungimento della verità,
lasciandoci, nella tecnica dell'argomentazione, formalizzata da Aristotele, un
grande esempio di problematicità e nello stesso tempo di rigore.
Occorre altresì recuperare la lezione che Kant
dava ai suoi studenti, ai quali ripeteva continuamente: "Da me non
imparerete filosofia; imparerete a filosofare, non a ripetere pensieri, ma a
pensare". A questo deve servire l'insegnamento della filosofia! E la sua
ragion d'essere sta nel favorire un atteggiamento mentale critico nei confronti
della realtà e dei suoi contenuti, considerati nella loro complessità. Credo che mai come oggi si sia reso necessario educare
al senso critico, che, come ben si sa, manca quasi del tutto nelle nuove
generazioni. Ed è in tal senso che considero la filosofia una missione!
Insegnamento che apra ad un pensiero critico,
analitico ed autonomo nei confronti della vita e della realtà, e a rispondere
ai grandi interrogativi, perché si possa "fare il salto dal mero elenco di
opinioni alla strada verso il "vero" senza una guida, un modello. "A
filosofare s'impara soltanto con l'esercizio e usando autonomamente la
ragione" (Kant). E l’insegnamento della filosofia non può che esserne lo
strumento.
Da tutto ciò è necessario ricavare un'ipotesi operativa partendo dal presupposto che le finalità della scuola in generale non si esauriscono in una generica «pratica educativa», che nella scuola superiore le competenze culturali e professionali devono essere perseguite insieme e che la scuola raggiunge il proprio fine quando costruisce nello studente una cultura che è anche cultura specifica.
L'insegnamento della filosofia non deve allora contribuire solo alla formazione di una «cultura generale», deve fornire una «cultura filosofica» che non può essere ridotta solo alla riflessione personale su uno specifico problema. Cultura significa capacità di argomentare e, insieme, rispetto per l'opinione diversa. La filosofia, anche intesa nel suo sviluppo storico, insieme ad altre discipline, può porsi come asse portante di una educazione alla democrazia e alla tolleranza non solo come valori etici, ma anche come fondamenti di una cultura scientifica. La problematicità del vero, infatti, che caratterizza la filosofia si fonda sempre su un preciso sistema argomentativo che dovrebbe essere messo in evidenza nell'analisi dei vari autori.
Porre l'attenzione sulle tecniche non significa sminuire l'insegnamento o il valore culturale di una materia quale la filosofia e a quanti intendono eliminarla dalle materie scolastiche; se solo oggi si comincia a prestare attenzione alle abilità di studio, lo si deve al fatto che la ricerca pedagogica e didattica in Italia ha posto al centro il lavoro dell'insegnante, non ha dato peso al lavoro dello studente e all'affinamento delle sue capacità di apprendimento. Insegnare e imparare sono termini che non possono essere separati. Se si insegna bene a imparare e ad apprendere diventa più facile operare all'interno del programma le scelte su cui concentrare l'attenzione e, nello stesso tempo, la cultura di un giovane non resta frammentaria, perché lui stesso sarà in grado di trovare tutte le informazioni necessarie alla soluzione dei problemi culturali che via via si pone e di soddisfare così la sua curiosità intellettuale. Bisogna creare una rete di conoscenze e di saperi dove ogni allievo, secondo le proprie abilità, possa trasformarle in competenze spendibili nel campo della vita in modo orizzontale: problema di fondo resta educare al pensiero produttivo e divergente.
Negli anni 1912 –1913 Gentile pubblica i due volumi del Sommario di pedagogia come scienza filosofica, più volte ripubblicati e rivisti. Alla base del Sommario sta la concezione filosofica dell’Attualismo. Questa visione è caratterizzata da una metafisica rigorosamente spiritualistica e immanentistica, in cui tutto si riconduce a un unico principio dinamico, che al suo interno comprende organicisticamente ciascuna realtà finita, riconducibile a un onnicomprensivo assoluto atto del pensiero pensante; questo s’identifica con un soggetto spirituale universale, a cui ogni attività umana è ricondotta e in cui la realtà tutta è superata e compresa.
Non s’insegna ad insegnare: questo è uno dei punti cruciali della pedagogia gentiliana. Sono solo la ricchezza spirituale del maestro, dote nativa, innata, e la cultura viva ciò che rendono maestro il maestro e scuola la scuola. Non esiste un metodo: il metodo è il maestro1. Di questa affermazione Gentile dà delle motivazioni certamente sensate: il rapporto educativo, che si realizza di volta in volta nel farsi e nell’identificarsi nella comune spiritualità di maestro e allievo, è «sempre nuovo» e «sempre diverso»2 e quindi non racchiudibile in una norma, in una regola o in una legge. In questo Gentile ha ragione. Non ha ragione a teorizzare un innatismo nella professionalità e nella missione dell’essere maestro, una nativa capacità puramente intuitiva generatrice di empatia e di abilità a scrutare nell’animo dell’allievo, sorretta soltanto da una profonda cultura che pare con questa innata sensibilità umana condizione necessaria e sufficiente per essere tra i pochi “bravi “ e “veri” maestri. In questa posizione si avverte una verità di fatto praticamente riscontrabile: si pensi per esempio al frequente susseguirsi di mode pedagogiche sponsorizzate ora da questo, ora da quel ministro od editore.
Gentilianamente, «il maestro è lo stesso spirito, che si pone nel suo assoluto valore spirituale»3, in sé riassumendo «la Natura, la Terra, la Patria, i genitori e quant’altro (…) culmina idealmente nella storia (…): la moralità, l’arte, la religiosità, la cultura, la civiltà, il sapere», diventando «ai nostri occhi, un sacerdote, interpetre e ministro di quell’essere divino»4, che trova la sua dimensione istituzionale nello Stato etico. «Nella scuola la volontà del maestro riesce ad essere la volontà degli scolari; ma non in quanto una volontà e l’altra rimangono quelle stesse che erano prima d’incontrarsi nella scuola. La volontà della scuola è una sola volontà quando la scuola c’è; quando il maestro è maestro, e però insegna; quando gli scolari sono scolari, e imparano. (…) Realizzare una disciplina o realizzare una volontà-legge riconosciuta dagli scolari potrà essere dunque lo stesso che realizzare la propria volontà di maestro. La disciplina non è il dovere delloscolaro, anzi il dovere fondamentale del maestro»5. Così l’autorità del maestro e la libertà dell’alunno si identificano nell’unità dello spirito che il maestro realizza nell’unità della classe in grado eminente rispetto agli alunni che s’identificano con lui. Si ha quindi una forma di fascinazione attorno alla e nella autorità del docente. Ciò si realizza però – e questo è il terzo punto- nel con-vivere una stessa cultura: «il maestro che parla, non pensa ad altro che a ciò di cui parla; è tutto raccolto in quel pensiero, né può distrarsi. La scuola, l’ambiente tutto e lo scolaro non sono più niente di nuovo per lui (…); tutto è stato assorbito nella sua determinata soggettività, la cui vita nuova è invece nell’argomento che gli offre materia alla presente lezione»6. Il docente è prima di ogni altra cosa uomo di cultura. Chi veramente sa, per Gentile, sa anche insegnare, e le sue potenzialità culturali e umane potranno essere perfezionate non certamente con la conoscenza di un metodo didattico, ma piuttosto con l’arricchimento personale e professionale derivante dall’esperienza stessa dell’insegnare.
NOTE BIBLIOGRAFICHE
1 Slogan diffuso tra i pedagogisti neoidealisti (Gentile, G.Lombardo Radice, E. Codignola), cfr. ivi, pp. 167-168, nonché Didattica viva, cit., p. 235
2 Id., Sommario di Pedagogia come scienza filosofica, Sansoni, Firenze 1962, cit., vol. I, p 123
TESTI ORIENTATIVI
A. La Vergata, F. Trabattoni Filosofia, cultura, cittadinanza. La filosofia antica e medievale, La Nuova Italia, Roma, 2011.
T. Nagel, Una brevissima introduzione alla filosofia, Milano, Mondadori, 1989.
Aggiunto il 14/12/2013 01:11 da Antonella Iovine
Argomento: Istituzioni di filosofia
Autore: Antonella Iovine
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