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Pensare l'Assoluto tra cifre e tracce. Riflessioni sulla filosofia di Karl Jaspers

«Potremmo dire che il filosofare ha due ali. Una batte per lo sforzo del pensare comunicabile, cioè per una dottrina universale. L’altra batte per l’esistenza del singolo. Lo slancio è dato solo dalle due ali insieme». (Cifre della trascendenza, p. 109)

Mi sembra che questa bella metafora di Karl Jaspers possa valere come un’efficace introduzione alla lettura e all’approfondimento di Cifre della trascendenza, il testo che raccoglie le sue ultime lezioni tenute all’Università di Heidelberg nel 1961 e che è stato recentemente riedito da Fazi Editore, Roma ottobre 2017.

Otto brevi ma dense lezioni in cui, a mio avviso, pulsa con particolare vivezza ed essenzialità il cuore speculativo del celebre filosofo tedesco.

L’airone ad ali spiegate, che è raffigurato sulla copertina di questa rinnovata edizione, rappresenta molto bene il volo filosofico del pensiero jaspersiano, che si rivela essere una ricerca schiettamente e intensamente rivolta alla verità, ma una verità da intendersi nel duplice significato di poter essere universalmente comunicabile e di valere per l’esistenza e la libertà del singolo individuo.

L’universale comunicabilità della verità è certamente anche quella che nasce e si sviluppa dalla ricerca e dal sapere scientifico, dove contenuti e metodi vengono verificati e controllati sul piano sperimentale e concettuale: senza la scienza, afferma decisamente Jaspers, non ci può essere veracità nel pensiero.

Ma – ed è un “ma” altrettanto fermo e deciso – questa irrinunciabile oggettiva universalità del conoscere scientifico, per valere, deve anche tener conto di quei limiti che sono propri di una conoscenza umana sempre parziale e, soprattutto, inevitabilmente contrassegnata dalla dualità tra soggetto conoscente ed oggetto conosciuto.

Infatti, spiega il Nostro, «tanto come cosmo naturale, quanto come mondo degli uomini, si trova sempre al di fuori della nostra presa conoscitiva in un sapere onnicomprensivo, al di là della nostra presa operativa. […] Prendendo coscienza di questi limiti del conoscere e del fare, ci rendiamo anche liberi dalle assolutizzazioni a cui siamo portati quando la grandiosità del conoscere scientifico e le prestazioni del nostro fare ci spingono a fantasticare nell’illimitato». (Ivi, p. 5)

Non tener conto, con la dovuta consapevolezza, di questi limiti vuol dire cadere facilmente in quella superstizione tecnico-scientifica che fa della scienza un dogmatico ed illusorio sapere assolutistico; ne fa uno scientismo, cioè quella pseudo-conoscenza che ha decisamente smarrito il vero senso euristico e critico della ricerca stessa.

Considerando, ora, l’altra ala del volo filosofico, la verità si esprime anche nell’agire interiore di ogni individuo, che, in questo modo, esercita la sua libertà e rende possibile la sua liberazione: imprescindibile valore esistenziale della verità, che è anche verità della libertà: sin troppo facile ripetere qui Giovanni 8, 32: “Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi”.

E questo perché, come sottolinea ancora Jaspers, «noi stessi siamo più di ciò che facciamo quando conosciamo. E naturalmente siamo più di ciò che conosciamo di noi stessi». (Ivi, p.8)

Dunque, la verità, sia intesa come comunicazione e ricerca comune fra gli uomini, sia quella che si realizza interiormente come ricerca personale e come impegno di libertà dell’ individuo, non può essere considerata solo come una conoscenza oggettiva ed oggettivante, essenzialmente priva quindi di una partecipazione esistenziale e di un legame vitale con ciò che si conosce.

Peraltro, questi aspetti di partecipazione e di legame vitale, così peculiari all’esistenza umana, inevitabilmente sfuggono alla suddetta conoscenza oggettivante, ma, come ben sottolinea il Nostro, «dove cessa la conoscenza non cessa il pensiero» (Ivi, p. 14), e nemmeno cessa la prassi vitale: devo prendere decisioni, devo agire nel tempo e, dunque, senza poter conoscere il tutto; ma anche se dovessi attendere di conoscere per filo e per segno l’innumerevole catena di cause ed effetti del mio agire, una tale attesa impedirebbe comunque ogni mia possibile decisione e mai potrei iniziare, in un modo o nell’altro, ad agire.

Ecco, allora, perché quel tanto di assolutezza che posso pensare e vivere nella essenziale finitezza e relatività della mia esistenza, la posso rappresentare ed esprimere solo come cifre del trascendere, ossia attraverso quella pluralità di simboli, di miti, di fedi religiose, di ideali, di visioni del mondo che sono creazioni ed espressioni costitutive dell’essere umano, nel suo pensare e decidere.

Creazioni ed espressioni di un pensiero umano, dunque, non esclusivamente vincolato a datità oggettive e limitato alla sola esperienza sensibile, ma aperte, invece, ad una realtà più profonda e complessa, e, per ciò stesso, comprensiva della totalità esistenziale dell’essere umano.

Ho scritto “cifre del trascendere” anziché “cifre della trascendenza” perché sono dell’avviso che in questo modo si possa intendere meglio il significato più vero e dinamico della “trascendenza” jaspersiana.

Per questo si sarebbe potuto intitolare il testo di queste lezioni anche “Cifre del trascendere”: formulazione questa che riesce ad esprimere ancor meglio sia, appunto, la tensione dinamica dell’esistenza, sia a scongiurare che la stessa idea di “trascendenza” possa venir ipostatizzata e assolutizzata in una qualche particolare forma o sostanza.

Jaspers non a caso fa sue in modo esplicito quelle che considera le più profonde parole della Bibbia: «Non devi farti nessuna immagine né simbolo». (Es 20,4)

Ma, per connotare l’irrappresentabile ambito della trascendenza o, per meglio dire, del trascendere, il Nostro, oltre a far riferimento al divieto biblico, si serve anche di un’altra importante tradizione religiosa: quella buddhista.

Fa riferimento, infatti, al tempio di Borobudur (isola di Giava), immenso altare votivo che, a mo’ di montagna, s’innalza con scalinate per nove piani: ad iniziare dai primi piani dove predominano bassorilievi di immagini di vita terrena, ci si innalza, quindi, via via dinnanzi ad immagini sacre più spirituali ed astratte: ecco come si cerca di raffigurare e, soprattutto, far sentire questo dinamico processo di purificazione e di trascendenza.

Con le parole di Jaspers: «Qui è presentata in immagini l’ascesa dalle forme intuibili del mondo umano, cioè dalle cifre di Buddha, fino al punto in cui tutto cessa trasformandosi in forme puramente geometriche. Si tratta dell’ampiezza spaesante del cielo che si estende fino all’orizzonte, che con queste forme rinvia al vuoto dell’essere che si trova al di là di queste cifre». (Ivi, p. 94)

Ma le cifre del trascendere sono soggettive, ossia creative nel senso di venir dettate dalle immaginazioni, dai modi di pensare e dalle capacità di comprendere dell’essere umano che cerca in questo modo di cogliere il senso ultimo e fondamentale di tutta la realtà; queste cifre sono storiche ed esprimono, perciò, la pluralità e, soprattutto, la relatività dei diversi modi del trascendere, o di accostarsi all’Assoluto.

Dio, Javhè, Allāh, Brahman, Atman, Nirvana, Tao, Wakan, Grande Spirito, etc. sono le tante cifre di altrettanti modi esistenziali di accostarsi e di aprirsi all’Assoluto, modi esistenziali e vitali che, in quanto tali, giammai si riducono ad un puro e semplice rapporto conoscitivo.

Nella fede pensata dalla cifra si vive, infatti un’assolutezza dove ogni aspetto dell’esistenza umana viene coinvolto e compreso: teoria e prassi, intelletto e volontà, sentimento e desiderio, insomma la vita nella sua profonda e totale complessità.

D’altronde, sarebbe ben strano e apparirebbe del tutto inverosimile che l’Assoluto – parola più originaria, compiuta, ultimativa e … assoluta, appunto, non riesco proprio a pensare – potesse essere da noi accostato solo con una ‘parte’ del nostro limitato essere, per quanto importante possa venir considerata la ‘parte conoscitiva’.

Peraltro è lo stesso Jaspers ad avvertire che: «Della Trascendenza [o dell’Assoluto] io percepisco solo quel tanto che io stesso giungo ad essere». (Metafisica, Milano 1995, p.267)

Le cifre del trascendere nell’Assoluto si connotano così come una pienezza vitale, tale da coinvolgere esistenzialmente tutta la singola persona, e perciò esse (cifre) hanno a che fare non solo con la sua verità, ma anche con la sua libertà o, ancor meglio con la sua liberazione, come già sopra evidenziato.

Vivere personalmente le cifre significa però anche patirne, inevitabilmente, la relatività, ed è per questo che si fa più cruciale qui il rapporto tra l’assolutezza dell’Assoluto e la relatività delle stesse cifre del trascendere.

Ma, a mio avviso, anche in questa relatività del pensiero cifrale si deve poter intravvedere quegli indizi di assolutezza che possano permetterci, se non di conoscere l’Assoluto, almeno di ‘pensarLo come impensabile’: paradosso che può sostenersi solo se si riesce a mantenere la consapevolezza della differenza (differenza ontologica) tra tali indizi di assolutezza e l’Assoluto qua talis; indizi che sono ‘ciò che’ di ‘Esso/Egli’ (Assoluto) appare, si mostra all’umano pensare.

È ancora Jaspers che ci può aiutare a percorrere queste vette o abissi speculativi, e infatti scrive: «È come se l’essere retrocedesse di fronte alla volontà di sapere che lo afferra lasciandoci in mano … sempre solo, per così dire, tracce e resti di sé». (Della verità, Milano 2015, p.79)

Sono, allora, queste tracce di assolutezza o di Assoluto che si devono rinvenire ed evidenziare, tracce che penso si possano cogliere nelle intuizioni dell’infinita intensità dell’origine e nell’altrettanto infinita vastità onnicomprensiva di “tutto ciò che è”.

Se, come scrive Jaspers, «il punto centrale a cui si rapporta tutto ciò che è» (Ivi, p. 1379) è, in un certo senso, “vuoto” per il pensare, si deve però sostenere che questo “vuoto” non può essere vuoto a tal punto da non lasciare, comunque, quelle tracce di assolutezza che costituiscono l’innegabile condizione dello stesso pensare.

Se ciò non fosse, neanche l’espressione “tutto ciò che è” avrebbe un qualche senso, e, quindi, anche il suddetto enunciato [il punto centrale a cui si rapporta tutto ciò che è] si dissolverebbe in un puro e semplice flatus vocis.

Di qui lo straordinario significato speculativo che, a mio avviso, sta dietro al semplice ed immediato pensare e dire «tutto ciò che è»: se la filosofia ha il compito di pensare con tutta la possibile coerenza e radicalità ciò che si dice, allora tale compito va attuato ancor più radicalmente e coerentemente quando si pensa e si dice simpliciter (sic): «tutto ciò che è».

Bisogna pensare di quel «ciò»: che è e che è tutto; e così pensando, se ne pensa, appunto, tracce di Assoluto.

Queste sono le intuizioni di cui è improntata (impronta o traccia appunto) la nostra mente – ragion per cui è più giusto parlare qui di “intelligere est pati” – e che ci permettono di pensare e dire sensatamente che non riusciamo a cogliere «la totalità e il fondamento che ci fa esistere». (Cifre cit., p. 34)

Infatti, non potremmo neanche sensatamente pensare e dire che non conosciamo, se non  avessimo nella nostra mente neanche quel barlume quale possiamo sensatamente ricavare dalle tracce che riusciamo almeno ad intuire.

Sentenzia il Nostro: «Che ci sia qualcosa di assoluto è condizione per l’esistenza» (Della verità, p. 1467); ed è condizione per il pensare, aggiungo; e proprio per quel pensare che ha preso consapevolezza della sua peculiare relatività.

«Ogni volta che pensiamo noi relativizziamo. Infatti l’assoluto non è visibile dal punto di vista del mero pensiero, ma è realtà effettiva dell’esistenza, la cui decisione, non può essere né giustificata né compresa sufficientemente dall’intelletto». (Idem, p. 1471)

Infatti, se ciò accadesse, se fosse giustificata e compresa dall’intelletto cioè, l’Assoluto verrebbe ridotto a qualcosa di oggettuale e, per ciò stesso, scadrebbe in qualcosa di facilmente manipolabile e di pericolosamente idolatrabile: historia docet

Allora, si perderebbe quella libera (e liberante) tensione alla trascendenza/ulteriorità attraverso cui si riesce a pensare sia l’ineffabilità dell’Assoluto, sia quella assolutezza esistenziale che sola può corrisponderGli.




Aggiunto il 17/01/2018 19:42 da Alfio Fantinel

Argomento: Filosofia teoretica

Autore: Alfio Fantinel



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