“Anche se ammettiamo che l’età moderna cominciò con un’improvvisa e inesplicabile eclissi della trascendenza, della fede in un’aldilà, da ciò non consegue affatto che questa perdita abbia rigettato gli uomini nel mondo. Al contrario, l’evidenza storica mostra che gli uomini moderni non furono proiettati nel mondo, ma in sé stessi”. (Hannah Arendt, Vita Activa, cit.)
Generalmente, chi parla continuamente di “fede” è una persona che non crede autenticamente in quello in cui dice e pensa di credere, perché non è concentrata su ciò in cui pensa di credere bensì su sé stessa, ossia sulla propria fede.
Lo stesso accade quando parliamo di conoscenza, di lettura, di amore: se vuoi veramente conoscere, capire il mondo, non sei interessato alla conoscenza, alla comprensione - sei interessato al mondo. Se desideri autenticamente leggere un libro, non sei interessato alla lettura, ma al libro. Se ami una persona, non sei concentrato sul tuo proprio sentimento, ma sulla persona stessa. Conoscere, comprendere, leggere, amare sono - quando li osserviamo, non quando li viviamo - processi interiori, o meglio: sono relazioni tra l’io e il mondo in cui il mondo è ancora celato, non si è ancora rivelato. Esso, l’altro da sé, si rivela quando smettiamo di pensare a noi stessi come ai protagonisti del conoscere, del credere, dell’amare; quando smettiamo di cercare l’amore e iniziamo ad amare; quando smettiamo di cercare la fede e iniziamo a credere; quando smettiamo di idolatrare la conoscenza e iniziamo a conoscere.
Concentrare l’attenzione sul proprio sentimento per “capire se si ama l’altro” tradisce l’infantilismo del vivere l’amore come una passione - ossia, come qualcosa che ci succede - e non come un’azione - qualcosa che facciamo accadere, insieme; quando si vivono il credere, il conoscere, il leggere, l’amare qualcuno come passioni, si rimane all’interno del proprio io, non si entra autenticamente in contatto con l’altro da sé, con il mondo. La passione mette il nostro io tra noi e il mondo; l’amore per il mondo è il liberarsi da tale passione.
L’esperienza del comprendere e amare il mondo consiste in effetti molto più in una liberazione (da preconcetti e condizionamenti culturali, ostacoli psicologici, etc.) che nella costruzione mentale di una riproduzione razionale del mondo stesso, costruzione che invece indirizza (legittimamente, se avviene dopo tale liberazione) il conoscere verso il dominio del fare.
Per Goethe, la natura è mistero alla luce del sole. Liberandoci del nostro tentativo di razionalizzarla per poi manipolarla, ossia di sollevare il suo velo, eliminiamo gli ostacoli che abbiamo noi stessi frapposto tra noi ed essa, rimettiamo il nostro io al suo posto e siamo, finalmente, aperti alla sua autentica comprensione. Al contrario, ecco cosa accade al dissezionatore delle proprie gioie:
“Vola attorno alla fontana
la cangiante libellula,
a lungo rallegra il mio sguardo;
ora scura, ora chiara,
come il camaleonte,
ora rossa, ora blu,
ora blu, ora verde;
o, che io possa da vicino
vedere i suoi colori!
Si libra, plana, vibra - non si ferma mai!
Ma ecco, stai buono: si posa sul salice.
L’ho presa! L’ho presa!
E ora la guardo bene
e vedo uno spento, cupo blu -
tu che dissezioni le tue gioie, ecco cosa ti attende!”
(J. W. Goethe, Le gioie, 1827)
Non bisogna però pensare che conoscere significhi liberarsi dal proprio io, come viene creduto in alcune filosofie e religioni orientali: la conoscenza è una relazione tra un io e un mondo, anche (è il caso della cultura, del “senso comune” arendtiano) in relazione con altri io (la cultura mette in relazione molti io con il mondo: non è un’impresa individuale). Si tratta invece di liberarsi della passione, la quale sposta l’io, frapponendolo tra la persona e il mondo. Nel far ciò, la passione muta l’io in super-io, ossia aliena l’io autentico a un io collettivo e astratto (chi è vittima di una passione tende a “guardarsi dal di fuori”, a compiere scelte e a giudicarsi secondo idee generali e impersonali) che prende il posto del mondo autentico.
Ne segue che amare autenticamente, così come conoscere autenticamente e credere autenticamente, significa anche ritrovare sé stessi; ma non si può né amare né conoscere né credere, se ritrovare noi stessi è il nostro fine - come accade, ad esempio, quando “cerchiamo la fede”. La fede, intesa non come un credere spiritualmente (in cui il nostro spirito è libero e ben saldo in noi) nel valore di qualcosa, bensì come un credere spiritualmente (in cui il nostro spirito è stato alienato, sacralizzato) nell’esistenza di qualcosa, è una passione ed è un rapporto spiritualmente alienato tra me e me stesso; credere autenticamente è una relazione spiritualmente libera tra me (tra noi) e il mondo. Per questa ragione, nella fede sacralizzante il mondo - che è celato - viene alterato arbitrariamente, vengono costruiti esseri che sono del mondo e allo stesso tempo non gli appartengono, che hanno qualità che si autocontraddicono, eccetera.
La teologia, in questo quadro, non è altro che il trionfo del super-io, dell’astrazione e dell’impersonalità; il super-io vi viene a un tempo esaltato mediante l’annichilimento del noi (ossia, della naturale relazione che instauriamo tra i nostri io autentici per comprendere insieme il mondo generando autentica cultura) e reificato mediante la stesura testuale di ragionamenti scritti. Il suo carattere di costruzione a un tempo prigioniera dell’astrazione, alienata dal mondo e stringentemente razionale situa la teologia non nell’ambito del conoscere, ma in quello del fare (questa volta, non legittimamente): del fare prigionieri, dell’alienare i suoi adepti, del convertirli a una razionalità giunta troppo presto, ossia giunta prima della liberazione dai condizionamenti e della rivelazione del mondo.
La teologia, la quale è dunque una manifestazione intellettuale della passione, rappresenta un ostacolo tra noi e il mondo, di cui sarebbe bene liberarsi. Essa però non è, naturalmente, l’unico ostacolo, l’unica forma intellettuale presa dalla passione: se essa, infatti, è passione per la razionalizzazione dello spirito, la scienza sperimentale odierna le assomiglia molto, con la differenza che la razionalizzazione scientifica si rivolge al mondo dal punto di vista materiale e avviene in chiave matematica e manipolativa, mentre quella teologica, rivolgendosi al mondo in una prospettiva spirituale, avviene in chiave discorsiva e contemplativa (sebbene lo spirito vi venga sacralizzato e la contemplazione razionale si risolva in una manipolazione della propria e dell’altrui mente). Anche la scienza sperimentale, in particolare nella sua forma ormai patologicamente quantitativa e aggressivamente prometeica che tanti danni sta oggi arrecando alle nostre comunità, è un ostacolo di cui liberarsi, una passione che è stata anche descritta come libido tecnicistica e il cui principale mantra consiste nel dogma per cui “non si può fermare la scienza”.
“L'onnipotenza della technè contemporanea eccita un delirio di onnipotenza in chi la domina e ne trae profitto, il quale a sua volta eccita, vuoi o non vuoi e su un'altra scala, lo stesso sentimento di onnipotenza negli individui [...] Il progetto di conquista della totalità dell’esistenza attraverso tecnologie che sfruttano il nostro minimo fiato e spalancano inesauribili prospettive di profitto ci deve obbligare a renderci conto della dimensione altamente libidica del tecnolibertarismo”. (Éric Sadin, La silicolonizzazione del mondo, 2016. Corsivi dell'autore)
Mentre è assolutamente vero che non si può né si deve fermare, né controllare, la conoscenza (che di ogni scienza, arte, filosofia è la madre), è per lo meno discutibile che non si possa fermare la sperimentazione, la quale ormai non si applica più soltanto alla natura, bensì anche al mondo economico e sociale; non si può fermare, neanche di fronte ai peggiori disastri culturali e naturali, alle epidemie, alle crisi delle comunità e alle tragedie delle vite individuali?
Per Goethe,
“l’uomo in sé, nella misura in cui si serve della sua sana ragione, è il più grande e il più esatto strumento che possa esistere. Viceversa, il disordine maggiore causato dalla nuova fisica consiste appunto nel fatto che essa ha separato gli uomini dalle esperienze, volendo scorgere nella natura soltanto ciò che mostrano gli strumenti artificiali, e perfino volendo delimitare e prescrivere ciò che essa può realizzare”. (Massime e riflessioni, 1833)
Dai tempi in cui Goethe scriveva queste riflessioni, la situazione è ulteriormente degenerata: la scienza sperimentale si frappone ancor di più tra noi e il mondo, interponendosi non solo con la tecnica, ma anche con la matematica, la quale è gradualmente assurta allo status di unico autentico codice di decrittazione dell’enigma del mondo; un codice il cui possesso intellettuale segna oggi un abisso tra chi è ufficialmente legittimato a parlare del mondo per come realmente è e chi, essendo stato derubato di tale diritto, può solo fantasticare, può solo ipotizzare interpretazioni del mondo che, finché non sono dimostrate vere, sono liquidate come false.
Intendiamoci, però: l’assunzione di un atteggiamento prometeico, tutto concentrato sul fare, non è in sé dannosa, quando è stata preceduta dalla liberazione dalla libido tecnicistica. Se gli scienziati di oggi avessero studiato bene la filosofia prima di lanciarsi nel loro campo d’azione specifico non ci troveremmo in questa situazione e non saremmo costretti, terribilmente a malincuore, a lanciare un anatema contro la scienza sperimentale applicata, a richiedere che essa venga infine fermata. Non illudiamoci, comunque: questa nostra richiesta è oggi, allo stato attuale delle cose, utopistica. La nostra società non è pronta per ascoltarla.
Nonostante il suo carattere utopistico, non possiamo non anelare alla liberazione: se c’è una passione umana che proprio non ci sentiamo di scoraggiare, infatti, essa è proprio quella per la libertà. Coltivare la passione per la libertà è, del resto, il presupposto fondamentale per la nostra liberazione dalle altre passioni, nonché per la trasformazione della stessa passione per la libertà in amore della libertà, nostra e degli altri. Mentre la passione, come abbiamo visto, è alienante, l’amore è infatti solidale: in esso, la libertà trova la sua conciliazione con la solidarietà.
Abbiamo iniziato parlando di fede, siamo poi passati alla teologia e, di lì, alla scienza; quella della teologia non è infatti una questione all’ordine del giorno, mentre lo è quella della scienza sperimentale, la fede nella quale è oggi un fenomeno estremamente potente e alienante. La scienza sperimentale è concentrata su di sé, ossia sullo sperimentare, non sul mondo, sulla natura con la quale sperimenta; è vittima della passione intellettuale e, interponendosi come un super-io matematicistico e tecnicistico, si frappone fra noi e il mondo, deprivandoci del senso della realtà, dell’esperienza dell’autentica comprensione e dell’autentico amore.
“Il mondo dell’esperimento sembra sempre suscettibile di diventare una realtà fatta dall’uomo; e ciò, anche se accresce il potere umano di fare e di agire e anche di creare un mondo, ben oltre i limiti a cui le età precedenti avevano osato avvicinarsi nel sogno o nella fantasia, ricaccia purtroppo ancora una volta l’uomo - e questa volta con violenza maggiore che mai - nella prigione della sua mente, nelle angustie degli schemi da lui stesso creati”. (Vita Activa, cit.)
Il percorso di “perdita del mondo” che, a parere di Hannah Arendt, è iniziato con il telescopio di Galileo e con il dubbio universale di Cartesio, ha segnato sia la filosofia moderna che la ricerca scientifica pura. La prima sta oggi, infine, faticosamente ritrovando la diritta via smarrita, mentre lo stesso non si può dire per la scienza sperimentale pura, né - a maggior ragione - per la scienza sperimentale applicata, attualmente quasi del tutto fuori controllo. Eppure, la scienza pura, priva di ogni resistenza esterna, si trova ormai di fronte a delle contraddizioni interne talmente radicali che, prima o poi, dovrà decidersi a cambiare strada:
“Il dubbio universale cartesiano ha raggiunto il cuore della stessa scienza fisica; infatti la fuga dell’uomo nella mente è bloccata se risulta che l’universo fisico non solo è al di là di ogni rappresentazione, il che è naturale, posto che la natura e l’essere non si rivelano ai sensi, ma è anche inconcepibile, impensabile in termini di puro ragionamento”. (Vita Activa, cit.)
Se prestiamo fede ad Hannah Arendt e crediamo che la “fuga dell’uomo nella mente”, di cui la scienza moderna porta assieme alla filosofia moderna una grande parte di responsabilità, abbia infine trovato un ostacolo insormontabile, possiamo allora sperare che la scienza stessa possa iniziare a riscattarsi, in ciò allineandosi al cambio di direzione già compiuto da molti filosofi; possiamo sperare che insieme esse possano infine ritrovare - e aiutarci a ritrovare - il mondo perduto. Se vorrà riuscirvi, la scienza dovrà certamente liberarsi e liberarci dalla sua libido sperimentale; dovrà ritrovare sé stessa nell’essere arte, più che tecnica. Cosa resterà della scienza moderna, una volta liberata dal suo fanatismo sperimentale, matematicistico e tecnicistico, è difficile immaginare; ma immaginare cosa resterà di noi, se non lo farà, è ancora più difficile.
Aggiunto il 22/09/2020 11:08 da Alberto Cassone
Argomento: Filosofia della scienza
Autore: Alberto Cassone
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