Nella prossima ricorrenza dei 419 anni (17 febbraio 1600) dal rogo bruniano, presento questa sintesi del testo di Mario Moretti, Processo di Giordano Bruno, Edizioni della Normale, Pisa 2013, pp. 96, euro 10,00.
Moretti, in questa sua drammatizzazione del processo e della morte di Giordano Bruno, non poteva trovare un soggetto più congeniale al dichiarato proposito, che ispira il suo Teatro politico e civile, di narrare il passato per ammonire il presente.
Infatti, per la straordinaria contemporaneità dell’opera e della figura di Giordano Bruno, non si rende certo necessario un grande sforzo di attualizzazione: «le intuizioni cosmologiche bruniane sulla pluralità dei mondi, la sua embrionale teoria della relatività universale, la sua contestazione dei dogmi della Chiesa cattolica e, soprattutto, il suo destino di martire volontario del libero pensiero (“Muoio martire e volentieri”) ne fanno un uomo del nostro tempo». (p. 10)
Giustamente, allora, nella Premessa a questo libretto, Michele Ciliberto elogia l’autore per «lo sforzo di oggettivazione, cioè di radicale storicizzazione, della esperienza intellettuale e umana di Giordano Bruno ricondotto, sulla base dei documenti, a una cifra di verità che colpisce, e sorprende, per la sua freschezza e autenticità». (p. 6)
Sono proprio queste ultime, poi, le caratteristiche di questa pregevole versione teatrale del processo bruniano: la personalità del grande Nolano emerge in tutta la sua indomita vivacità e profondità di pensiero.
Il testo è diviso in due parti che corrispondono, rispettivamente, alla fase veneziana e a quella romana del processo.
La prima scena si apre, e tutta si svolge, nel palazzo di Giovanni Mocenigo e rappresenta l’accesa discussione tra il Nolano e il Mocenigo; quest’ultimo non intende lasciar andare libero il filosofo perché, a suo dire, non aveva corrisposto alla sua aspettativa, ossia quella di impadronirsi dell’arte della memoria e della magia; accusa, inoltre, Giordano Bruno di eresia, e minaccia di denunciarlo all’Inquisizione; ne mancano, da parte del Mocenigo, lusinghe per far recedere il Bruno dal proposito di andarsene.
L’infiammato contrasto tra i due offre lo spunto per ricordare quei contenuti del pensiero bruniano che non potevano non entrare in deciso contrasto con l’ortodossia della dottrina cattolica: sul dogma della Trinità divina, della doppia natura di Cristo, della transustanziazione, della verginità della Madonna, sull’obbligo di castità dei preti.
La spassosa vivacità e la pungente ironia di Giordano Bruno emergono in pieno, ad esempio, da questa arguzia sulla creazione divina, che, secondo la Bibbia, era durata sette giorni:
BRUNO - In sette giorni. Ammetterete che sono un po’ pochi. Ecco perché non riesce a governarlo bene: ha fatto le cose un po’ in fretta. Ma chi diavolo gli correva dietro? (p. 24)
Ma sulla magia e sul rimprovero di non avergliela insegnata, l’atteggiamento di Bruno si fa invece più serio e sostenuto nei confronti del Mocenigo, la cui asinità non gli permetteva di comprendere che la magia si identificava con la stessa sapienza naturale:
BRUNO - La magia è nella natura. Agli asini contemporanei contrappongo gli antichi adoratori dei coccodrilli e dei galli, delle cipolle e delle rape, perché essi in realtà adoravano solo la divinità che dà vita e forza a tutti gli esseri, che in essi è presente come il sole nel croco, nel narciso, nell’eliotropio, nel gallo, nel leone. Perché la divinità è nelle cose della natura. (p. 22)
Questa prima scena si chiude con lo smascheramento dell’infido e vile comportamento di Giovanni Mocenigo, che già aveva predisposto in casa sua l’intervento delle guardie, che avrebbero dovute consegnare Bruno all’Inquisizione.
La seconda scena si apre nel Palazzo del Sant’Uffizio veneziano, e il numero dei protagonisti e interlocutori sulla scena aumenta: Patriarca di Venezia, Nunzio apostolico, Padre inquisitore, Testimoni (Capitano delle guardie, Libraio, Andrea Morosini), e Bruno ovviamente.
Quest’ultimo, interloquendo sia col Patriarca – più laicamente garantista e geloso difensore dell’autonomia dello Stato veneziano nei confronti dell’Inquisizione romana – sia col Nunzio – che rappresenta, invece, l’intollerante e violento potere della Chiesa romana, tutto volto a mettere le mani sul frate sfratato Giordano Bruno – , ha così l’opportunità, oltre che di raccontare la sua errabonda esistenza, anche quella di esporre la sua filosofia, più volte puntualizzando, appunto, che si trattava di filosofia e non di teologia – , e su tale distinzione Bruno imperniava il suo principale argomento di difesa.
Alle puntigliose e velenose provocazioni dell’Inquisitore, Bruno ribadisce la sincerità della sua libera ricerca, ammettendo persino delle autocritiche alle sue opere:
BRUNO - In esse ho parlato e discorso troppo filosoficamente e non troppo da buon cristiano. In particolare so che in alcune di queste opere ho insegnato da filosofo cose che dovrebbero essere attribuite alla potenza, sapienza e bontà di Dio secondo la fede cristiana, fondando La mia dottrina sopra il senso e la ragione e non sopra la fede. (p. 42)
Merita poi, sul finire di questa scena, rilevare l’emblematico scambio di battute tra Nunzio apostolico e Patriarca:
PATRIARCA - Monsignor Nunzio. Giordano Bruno è un osso duro anche per Roma. Uomini come lui si fermano nel ventre della Chiesa e ne bloccano la digestione per secoli. […] Voi vedete diavoli in ogni dove, anche in un monaco smonacato come Giordano Bruno.
NUNZIO - Ma il diavolo è in ogni dove, Monsignore Patriarca!
… E’ cattolico credere, com’è affermato nell’Enciclica di papa Innocenzo VIII, ai demoni incubi e succubi che possono procreare e concepire. È cattolico credere che streghe e stregoni possano trasformarsi e mutare gli uomini in animali, per esempio in lupi.
… Le streghe esistono! Sono creature del maligno, che meritano castigo e non pietà!
PATRIARCA - Noi veneziani non crediamo alle streghe. E le donne non sono figlie del diavolo.
… Sapete anche che le donne sono tenute in gran considerazione nelle Sacre Scritture. E noi, a Venezia, le rispettiamo e le abbiamo care.
NUNZIO - Anche troppo. Non ho mai visto tante donne libere e sfacciate come qui in laguna
PATRIARCA - Grazie a Dio, sono libere. …
NUNZIO - Vi rinnovo la mia richiesta, Monsignore: mandate a Roma Giordano Bruno! Il Santo Padre avrà misericordia dell’anima sua.
PATRIARCA - Ma non del suo corpo. L’Inquisizione Romana sembra voler imitare il modello spagnolo e tornare ai fasti di Torquemada, il massacratore di migliaia di cristiani! (pp. 43-45)
Nelle ultime scene della parte prima, continua il dibattimento processuale con l’alternarsi degli interventi, dove vengono prese in considerazione le opere del filosofo, e Bruno ha così ancora modo di esporre il suo pensiero:
BRUNO - Io considero un infinito universo, effetto della infinita potenza divina: infatti, io stimavo cosa indegna della divina volontà e potenza poter produrre mondi infiniti oltre a questo, e limitarsi invece solo al nostro, produrre cioè un solo mondo finito. Per questo dichiaro nei miei libri che vi sono altri mondi simili alla terra.
[…] Uno dunque è il cielo, lo spazio immenso, il continente universale, l’eterea regione attraverso la quale ogni cosa passa e si muove.
[…] Tutto trapassa senza impoverire l’unità fondamentale; morte e vita, gioia e dolore, notte e giorno, sono i poli entro i quali si muove la vicenda senza fine dell’essere. La morte non esiste: non solo per noi, ma per nessuna sostanza. Mentre nulla sostanzialmente si sminuisce, tutto, passando nello spazio infinito, cambia volto. La nostra mente esce così dalla sua prigione e spazia dove non vi sono fini, termini, margini o muraglie. (pp. 48-49)
Ma continuano le insistenti, e ben poco animate da un qualche spirito di carità cristiana, domande degli inquisitori, al solo scopo di stigmatizzare le idee del filosofo, discordanti su vari punti dalla dogmatica cattolica: le persone della Trinità, l’Incarnazione di Cristo, il sacramento della penitenza, i miracoli; ma le domande vertono anche sui contatti di Bruno con protestanti e personaggi politici, durante il suo lungo peregrinare per mezza Europa.
La fase veneziana del processo volge quindi al termine, e si conclude con la lettura della deliberazione con la quale il Senato della Repubblica di Venezia decide di consegnare Giordano Bruno nelle mani dell’Inquisizione romana.
Nella sesta scena della parte seconda veniamo a trovarci, infatti, nel Palazzo del Sant’Uffizio di Roma; oltre a Bruno, sono presenti gli inquisitori che sono i cardinali: Santaseverina, Madruzzo, Bellarmino, Deza, Pinelli, Ascolani, Borghese e Sasso; c’è anche, come testimone accusatore, fra’Celestino da Verona.
Ed è proprio quest’ultimo ad esser chiamato a deporre, in qualità di ex-compagno di cella, contro Bruno: sotto le incalzanti domande del cardinale Santaseverina, fra’ Celestino incomincia a snocciolare accuse su accuse contro il Nolano, raccontando affermazioni e denigrazioni, ascoltate da questi in carcere a Venezia, contro le storie inverosimili presenti nei breviari, contro la forma della croce, non essendo quella in cui era stato appeso Cristo, contro personaggi biblici, e contro le reliquie dei santi.
Ad ogni accusa di fra’ Celestino fa da contrappunto una decisa e indignata replica di Bruno:
FRA’ CELESTINO - E peggio parlò del Cristo! Disse che peccò mortalmente quando fece l’orazione nell’orto del Getsèmani, recusando la volontà del padre col dire: «Pater, si possibile est, transeat a me calix iste!» E disse che Cristo è un cane becco fottuto can! …
BRUNO - Scellerato bugiardo!
FRA’ CELESTINO - … E che era un traditore chi governava il mondo, perché non lo sapeva governare bene… ed alzando la mano, faceva le fiche al cielo!
BRUNO - Brutto animalaccio, renderai conto a Dio delle tue parole!
FRA’ CELESTINO - Non nominare il nome di Dio invano, tu che non credi in nulla, Satana! (p.67)
La scena settima – che rammemora il 25 dicembre 1598: son passati cinque anni dall’estradizione di Giordano Bruno da Venezia! – si svolge nel Carcere Vaticano fra i compagni di carcere di Bruno che sono: don Claude Gaillard, prete francese, fra’ Antonio Carrara da Napoli e don Galeazzo Porta da Milano.
Per le escandescenze di don Gaillard, peraltro ‘ispirate’ all’evento del Natale, si vorrebbe scrivere una petizione al cardinale Santaseverina per allontanare il francese dalla loro cella:
FRA’ ANTONIO - E magari ce la firma pure fra’ Giordano, eh? Ce la firmate la lettera per mandare via dalla nostra cella ‘sto matto di francese che ci ha regalato l’Inquisizione di Malta?
BRUNO - Perché dovrei firmare? La follia campanaria di Don Claude non mi disturba. E poi, come dice Sofocle? «Non aver senno è la più dolce vita».
DON GALEAZZO - Siete ingenuo, fra’ Antonio; figuratevi se Giordano Bruno firma una lettera contro uno che ha le lune di traverso!
FRA’ ANTONIO - Che volete dire?
DON GALEAZZO - Che pure lui ha le lune di traverso: anzi, ha tutto il sistema celeste fuori posto! (pp. 70-71)
Seguono battute ironiche dei due sulle convinzioni eliocentriche di Bruno, il quale con calzanti e puntuali esempi tratti dall’esperienza concreta e quotidiana, cerca di fargli comprendere l’attendibilità della teoria copernicana; e, alle loro osservazioni sul valore dell’autorità scientifica e di quella religiosa, il filosofo, prendendo di mira soprattutto Aristotele, risponde:
BRUNO - Pongo la libertà della ricerca in primo luogo, contro ogni autorità. Non si tratta perciò di sostituire Copernico a Tolomeo, ma il proprio giudizio ai mondi di carta.
[…] Il mio spirito è andato così in alto da infrangere il chiuso universo di Aristotele e di Tolomeo: laddove mondi innumerevoli si spostano attraverso lo spazio infinito come grandi animali, mossi dalla vita divina. (pp. 72-74)
Quindi Bruno si produce in un grande elogio dell’asinità, perché «nell’ordine della natura, la verità e l’ignoranza o l’asinità sono prossime».
Fra’ Antonio e don Galeazzo, rendendosi conto dell’indubbio valore della cultura e della persona di Giordano Bruno, lo consigliano di abiurare per salvarsi da una morte altrimenti inevitabile.
Questa l’indomita e orgogliosa risposta del Nolano:
BRUNO - Per sedici anni ho girato per l’Europa, libero e prigione, triste nell’allegria e allegro nella tristezza. La parabola era sempre la stessa: dapprima onori, poi dolori. Cattolici, calvinisti, luterani, anglicani, tutti m’accolsero e poi mi scacciarono.
[…] Mi avevano assicurato che Venezia era una città libera. Non era stata scomunicata, cinquant’anni prima? E poi, mi ero illuso che fossero maturi tempi migliori: in seguito alla conversione di Enrico di Navarra si accese la speranza di una riunione delle Chiese. Sembrava che stesse per sorgere un nuovo giorno, e che la sua luce avrebbe rischiarato l’Italia. Invece, nulla è cambiato: la luce nera di Roma intristisce il mondo. Voi mi dite di rinnegare le mie idee. Potrei anche farlo, ma ormai sarebbe inutile. La Bestia mi insegue, e non si acqueterà.
[…] Io non la fuggo più, capite? La combatto da qui, da questa prigione, come da una rocca. Per dare spaccio a questa bestia trionfante, anche la prigionia può dare frutti di maggiore libertà. (pp. 78-79)
La scena ottava è tutta dedicata al confronto-scontro tra due menti eccelse: quella del cardinale Roberto Bellarmino e quella di Giordano Bruno.
Sin dalle prime battute si percepisce l’intensità, la profondità, nonché la decisività dello scontro finale tra l’inquisitore e l’eretico.
Inizialmente, il tema è quello della ricerca della verità, e del rapporto, armonico (per Bellarmino) conflittuale (per Bruno), tra l’umiltà della fede religiosa e la libertà della ricerca aperta.
Quindi, si giunge all’esplicita richiesta del cardinale:
BELLARMINO - Vi si chiede di abiurare otto nuove proposizioni, estratte ancora dai vostri scritti.
BRUNO - Non lo farò. Il mio corpo è pronto per il rogo. Ho avuto sette anni per abituarmi all’idea di morire bruciato.
[…] Qui, invece, avete chiamato in causa la mia speculazione filosofica. Avete analizzato i miei libri e volete spremerli per togliere loro il succo dei miei pensieri. Io non sono un teologo: sono un filosofo. Non posso rinnegare i miei scritti. Non posso ritrattare la mia intuizione dell’universo solo perché essa è in contrasto con la dottrina dogmatica del cattolicesimo. Non posso rinnegare la mia vita, solo per averla salva. (pp. 81-83)
Seguono ancora alcuni acri e puntigliosi scambi sui temi della metempsicosi e della filosofia aristotelica.
BELLARMINO - Questa schermaglia è oziosa. Dovete abiurare, è questo che si vuole da voi. Fatelo. Tenete la morte lontana dal vostro capo.
BRUNO - Non temo più la morte, Eminenza. Massime temono la morte coloro che non hanno lume di filosofia vera. So già che con la decadenza di un sincero e puro spirito religioso sarà data pena capitale a chi si applicherà alla religione della mente. Ancora una volta, Eminenza: sono pronto al sacrificio.
[…] Perché tanto zelo, Eminenza? Quest’anno vi hanno fatto cardinale. Probabilmente diventerete papa. Volete anche essere santo?
BELLARMINO - […] Noi non vogliamo che questo fuoco arrossi per sempre il volto della Chiesa né vogliamo accordarti l’immortalità a nostre spese. Te la devi guadagnare con la fatica delle tue opere. (pp. 83-85)
E il cardinale torna, quindi, a proporgli l’abiura delle otto proposizioni.
Si discute sul contenuto di queste:
BELLARMINO - Solo la Chiesa conosce l’ordine delle stelle. E tu, Giordano, piccolo uomo, ti sei messo contro l’opinione della Chiesa.
[…] L’uomo ha bisogno di sentirsi ben saldo nel suo pianeta, con un soffitto ancor più saldo sul suo capo. Per questo la Chiesa gli ha costruito un universo familiare.
BRUNO - Un universo? Un’altra grotta, come quando abitava nelle caverne. È contro questa visione finita e domestica dell’universo che io levo la mia voce. Lo spazio è infinito e accoglie innumerevoli astri che in esso trascorrono.
[…] Il vostro universo, Eminenza, con le sfere e gli orbi disposti gli uni negli altri, essendo contenuto il minore dal maggiore, somiglia ad una cipolla dalle tuniche concentriche. Come hanno fatto quanti furono prima di me e come faranno quanti saranno dopo di me, io ho affondato il coltello del sapere in questa cipolla. E se me ne verranno altre lacrime, ebbene: le verserò volentieri.
BELLARMINO - La tua verità è troppo individuale, Giordano Bruno. L’unica verità è cattolica, cioè universale. Hai peccato di eresia … Noi possiamo assolverti, Giordano Bruno, purché prima, con cuore sincero e fede non finta, avanti a noi tu abiuri, maledica e detesti i suddetti errori ed eresie e qualunque altro errore ed eresia contraria alla Cattolica ed Apostolica Chiesa, nel modo e forma che da noi ti sarà dato.
BRUNO - Non devo né voglio pentirmi. Non ho nulla di che pentirmi né materia di pentimento, e non so di che cosa dovrei pentirmi. (pp. 86-89)
Nelle ultime scene si compie il destino di Giordano Bruno.
In queste, inizialmente, un ampio spazio vien dato ai cardinali inquisitori: Santaseverina e Madruzzo; si dilungano in lunghe dichiarazioni, intrise di una burocratica magniloquenza, tanto ricolma di millantata spiritualità («Invocato dunque il nome di Nostro Signore Gesù Cristo e della sua gloriosissima Madre sempre Vergine Maria…»), quanto intrisa di falsa compassione («… ordiniamo e comandiamo che tu sia rilasciato alla corte secolare, sì come ti rilasciamo alla Corte del Monsignor Governatore di Roma, per punirti delle pene, pregandolo però efficacemente che voglia mitigare il rigore delle leggi circa la pena della tua persona, che sia senza pericolo di morte o mutilazione di membro».)
Di fronte alla falsità e alla bassezza morale di queste altisonanti, spietate dichiarazioni, si leva, a fare da contrappunto, quella alta, nobile e indomabile del grande Nolano:
BRUNO - Forse con maggior timore pronunciate contro di me la sentenza, di quanto ne provi io nel riceverla. (pp. 91-92)
Roma – Piazza Campo dei Fiori, giovedì 17 febbraio 1600: prima che a Bruno venga messa la lingua in giova,
BRUNO - … Via, lasciatemi morire in pace! Muoio martire e volentieri e la mia anima se ne ascenderà insieme con il fumo, a ricongiungersi all’anima dell’universo… (p. 93)
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Aggiunto il 08/02/2019 20:49 da Alfio Fantinel
Argomento: Filosofia moderna
Autore: Alfio Fantinel
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