I Veda, il corpus vedico è unico e depositario del sapere più antico? Dalla cultura vedica sono dipese o comunque sono state influenzate tutte le altre culture dell’antichità, senza che queste altre abbiano minimamente generato elementi di commistioni di genere e specie? Di fatto, secondo Roberto Calasso, il corpus vedico è rimasto inalterato nel tempo, e quindi può dirsi autoreferenziale. Inoltre, a giudizio dello stesso Autore, esso sarebbe piuttosto il frutto di un’esperienza comune a ogni mente (sapiens) che riflette su se stessa, e questo giustificherebbe la comunanza dei patrimoni “mitici” appartenuti alle diverse culture dell’antichità. E tuttavia, la “specularità fra India vedica e Grecia arcaica” deve tenere conto anche del fatto che: “In India: tutti i testi sono (…) custoditi e trasmessi da una classe sacerdotale (i brahmani). In Grecia: tutti i testi sono secolari” (R. Calasso, L’ardore, 2010, p. 32 ; da cui sono tratte tutte le citazioni seguenti). Questo significa qualcosa di fondamentale come la credenza di una “natura” umana e quindi divina o divina e quindi umana, e non viceversa, come preferivano orientarsi i Greci, una Natura unica in continua trasformazione. Anche se: che di ciò, ovvero di una Natura unica e incerta, si tratti anche per i brahmani è più che lecito dubitare, come leggerete, fino al punto parimenti di acconsentire, considerata la natura incerta di Prajapati-Ka, signore vedico di tutte le cose, che non sa nemmeno lui stesso se sia e chi sia.
Fundamentum della cultura vedica (ma non solo!) è il sacrificio del vivente (pianta, animale, uomo), diversamente per i Greci: dell’ess-ente, che dis-vela il “mistero” dell’Essere che è in-sito nel Continuum. Operando nella trama del vivente, il sacrificio è preceduto da tutti quegli “elementi” che lo rendono praticabile e, in primis, l’“acqua”, com’è logico che sia, unitamente al “fuoco”. Il fuoco che rappresenta la “fiducia” (dice Calasso) nel rito stesso, che consiste per l’appunto nell’atto di sacrificare in primis con l’acqua. La funzione (salvifica) del rito è consentire la liberazione del vivente (per i Veda, ripetiamo, non solo l’uomo ma anche piante e animali) dal mondo - che per i Greci è il “già-dato”, il “gettato”, l’Essere-greco, l’Indistruttibile-vedico -, nel quale, secondo la più recente interpolazione “cristiana” dei testi antichi, il corpo e l’anima sono (fatti, in vero) prigionieri.
Anassimandro e i primi fisici ionici avrebbero sostenuto che l’acqua dell’inizio, a contatto con il fuoco, solidificando, avesse generato la terra ed evaporando, avesse generato l’aria. Dice anche Calasso che “tutte le forme divine (e quindi dell’inizio) sono presenti nel fuoco”. Il divino (o mistero), che permane nella sostanza (aristotelica) di ciò che accade, prende forma nello spazio sia “fisico”, dapprima quello originario di Esiodo (Teogonia, v. 116) che “meta-fisico” (trascendente) del continuum, alla stregua dell’immagine di una catena (che rende prigionieri) che è oltre e che oltre la quale non sembra affatto possibile andare. Uno spazio che origina dall’uccisione del mostro primordiale, “informe”, che è Vrtra, così come dal “vuoto” inesprimibile di Democrito.
E comunque esisterebbe un profilo ulteriore, che caratterizzi e distingua la cultura vedica dalle altre dell’antichità, e in effetti la determinerebbe in termini di civiltà. L’organizzazione degli Arya è retta da due classi dominanti, l’una di sacerdoti (brahmani), l’altra di guerrieri (ksatrya), e tuttavia, essenzialmente, è una civiltà nomade, che risale a epoche, per così dire, remote. Ma, anche qui, come nel prosieguo, non ritengo di cogliere grandi o piuttosto “sostanziali” differenze.
Ai brahmani spetta la titolarità dell’auctoritas, che simbolicamente è rappresentata nel mito dalla spada di legno e dal palo. L’immagine del palo ha fortissima assonanza con quella del bastone del comando e, afferma Giorgio de Santillana, con l’asse (inclinato) terrestre. Agli ksatrya spetta la titolarità della potestas, che simbolicamente è rappresentata dal carro e dalla freccia. E’ dunque mediante tali simboli, la costruzione e gli usi che ne derivano, in un sol termine: con la potestas, che emerge in maniera vistosa la potenza della Tecnica, che tuttavia abbiamo già significato con il fuoco, che precede. Agli ksatrya, il fuoco; ai brahmani, l’acqua.
De Santillana e Herta von Dechend, ne Il mulino di Amleto, ci presentano e illustrano a grandi linee la prima mappa, che potremmo dire “comune” a tutti i popoli e non solo dell’antichità, ritenuta quindi originaria, dello Zodiaco. In ordine all’inizio dello scorrere del tempo - che muove la ruota del “Grande Carro” (formato dalle sette stelle più brillanti dell’Orsa Maggiore, che formano una figura assai nota nell’antichità a forma di carro o aratro) lungo il cerchio della Natura (dell’Essere) -, il quadrante delle coordinate che individua lo spazio fisico delle origini mostra - da destra a sinistra dell’osservatore, secondo il moto orario della luna conforme a quello dell’asse terrestre e contrario al moto antiorario del sole -, in sequenza: Pesci (acqua) – Sagittario (fuoco) – Vergine (terra) – Gemelli (aria).
E’ evidente, mediante la mappa originaria, che non comprende il regno vegetale, il passaggio del vivente da uno status che convenzionalmente diciamo animale (?) a uno status che convenzionalmente diciamo umano (?), simboleggiato dall’immagine del Sagittario, metà parte inferiore di animale e metà parte superiore di umano, che impugna arco e freccia, simbolo anche del tempo- lineare (e non più circolare) che scorre ma innanzitutto del passaggio da uno status che diciamo di raccoglitore a uno status che diciamo di cacciatore. In virtù della potenza della tecnica (potestas), così come sviluppata, quell’animale originario da “preda” dell’altro animale sceglie di diventare a sua volta “predatore” di questo (altro animale). Così che, sia prima che durante che dopo l’emergenza del Sagittario, entrambi partecipano al rito posteriore (e non antecedente) della caccia.
Ma, è a questo punto che occorre interrogarsi e tentare di sciogliere il nodo decisivo, ovvero cogliere il fondamento primo e ultimo del sacrificio e del rito. A tale proposito, e specificamente in ordine a quanto inizialmente accadde, Calasso fa ricorso al testo, alla parola rivelata; e così manifesta, svela la propria preferenza, e quindi il proprio orientamento, nei riguardi dell’auctoritas: “Secondo lo Satapata Brahmana, non furono gli uomini a raggiungere, nel corso dei millenni, la posizione eretta, emancipandosi dalla loro vita di primati quadrupedi. Al contrario: gli uomini furono i soli a mantenere la posizione eretta, mentre tutti gli altri animali si rattrappirono e dovettero imparare a camminare a quattro zampe. Che cosa decise la loro sorte? Il sacrificio, quindi l’uccisione. Gli animali non riescono a mantenere la posizione eretta per paura dell’uccisione: hanno visto il palo, sanno che sono destinati a essergli legati, sanno che poi saranno uccisi. Gli uomini invece mantengono la posizione eretta perché sanno di essere i sacrificanti. E’ questo il discrimine che orienta il corso della storia umana” (Ibidem, p. 77).
La scelta, di divenire sacrificanti, implica una “colpa”, che è quella dell’uccisione. E quindi:
“Allora egli (l’uomo) indossa una veste, per completezza: di fatto egli così indossa la propria pelle. Ora quella stessa pelle che appartiene alla vacca in origine era sull’uomo. Gli dei dissero: ‘La vacca sostiene tutto quaggiù; su, mettiamo sulla vacca quella pelle che ora sta sull’uomo: così sarà in grado di sostenere la pioggia e il freddo e il caldo’. Di conseguenza, dopo aver scorticato l’uomo, posero la sua pelle sulla vacca, che con essa ora sopporta la pioggia e il freddo e il caldo. Così l’uomo venne scorticato; perciò quando anche un filo d’erba o qualcos’altro lo taglia, il sangue sgorga. Allora posero quella pelle, la veste, su di lui; e per questa ragione soltanto l’uomo indossa una veste, perché gli è stata messa addosso come una pelle. Perciò occorre fare attenzione a essere vestiti bene, in modo da poter essere totalmente rivestiti della propria pelle. Perciò egli non stia nudo in presenza di una vacca. Perché la vacca sa che essa indossa la pelle di lui e corre via per paura che egli voglia riprendersela. Perciò anche le vacche si avvicinano fiduciosamente a coloro che sono ben vestiti”.
Ora quella stessa pelle che appartiene alla vacca in origine era sull’uomo, che - a causa della colpa di aver ucciso l’“animale” (in specie, la vacca) e scelto di divenire il sacrificante - è “scorticato” dagli dei. La colpa dell’uccisione è intesa come un atto di prepotenza, che i Greci chiamarono hybris: orgogliosa tracotanza che porta l'uomo a presumere della propria potenza e fortuna e a ribellarsi contro l'ordine costituito, sia divino che umano, immancabilmente seguita dalla vendetta o punizione divina ( tísis ) (wikipedia).
E tuttavia, in evidenza, dubito che la storia si risolse diversamente. Così come, a esempio delle testimonianze remote, tramandato dagli affreschi della grotta di Lescaux, testimoni del bisogno o desiderio dell’uomo-preda di sottrarsi all’animale-predatore; così come solitamente accadeva per gli uccelli, capaci per natura di sottrarsi in volo a quella bestia predatrice. Il bisogno si trasforma nel desiderio e quindi il mito di ascendere al cielo, volare, conquistare lo spazio che permetta di sopravvivere e quindi vivere definitivamente nell’oltrespazio. Altrimenti, in mancanza, non resta altra chance che potenziare la propria natura e mediante la tecnica (a partire dalla “mano”, come insegna G. Semerano, si tratta della parola di significato che è all’origine di ogni linguaggio vicinorientale) tentare di uccidere la bestia. Meglio, con arco e freccia. Sempre attuale, quel medesimo desiderio è ampiamente testimoniato da più remote cerimonie o riti di sepoltura dell’antichità fino all’immagine più antica della Vergine, raffigurata con la spiga (simbolo della terra e di Demetra, dea dei campi) nella mano e le ali (simbolo del cielo e della potenza divina di Horus-Thot-Ermes-Makemake-Benu-Quetzalcoatl e altri forse ancora, ma di certo non ultimo: il vedico Garuda o Garutman) sul dorso.
Cosa sarebbe stato e sarebbe diventato un mondo - supposto in origine - dell’autorità, senza un giudizio viceversa ispirato all’acquisizione di una maggiore potenza? Un mondo nel quale agire, a esempio significativo di quello indiano attuale che non basta a un’autorità, nel campo della letteratura mondiale, quale oggi è riconosciuta Arundhati Roy, che da quel mondo per l’appunto, povero di potestas ma ricco di auctoritas, lei stessa proviene e in quel mondo vive. Durante una sua più recente apparizione, italiana, Ella hadichiarato(http://d.repubblica.it/attualita/2017/06/05/news/arundhati_roy_scrittrice_opere_temi_politici_sociali_india_romazo_atteso_il_ministero_della_suprema_felicita-3549707/) che “In India oggi bisogna avere paura di tutto. Non lo dico solo per me. Molti scrittori sono stati uccisi, deportati non solo dal governo ma da gruppi di caste locali, di vigilantes. I giornalisti sono arrestati e torturati, gli attivisti condannati all’ergastolo. Non so davvero che cosa potrà accadere. C’è un clima molto pericoloso, a meno che non si faccia propaganda per il governo”.
Potestas, che non appartiene e non può non appartenere soltanto a quel mondo dell’antica Grecia; che Calasso sostiene abbia inventato qualcosa chiamato “l’Occidente”, accusando quegli stessi Greci d’“idiosincrasia”, in quanto sprezzanti dell’auctoritas divina. Sempre gli stessi, protesi tuttavia a evitare - non tanto “un” destino che invece è da ritenersi nient’affatto “naturale” ma pur sempre “comune” a ogni abitante della terra, sia esso d’Oriente che d’Occidente - quanto piuttosto un destino che sia già segnato, e quindi “quello” (non “questo” o “codesto”) che l’autorità viceversa dichiari sia “il” suo destino. I Greci non hanno inventato nulla. Essi si sono piuttosto preoccupati di trascrivere o disvelare quanto piuttosto accade sotto il manto o “vestito” dell’auctoritas. Agire come Demetra a Eleusi, ma, preferibilmente, in nome della potestas, fare che Demofoonte diventi immortale; anziché augurarsi (da augere, auctoritas) che Demofoonte diventi immortale.
Demetra una notte, senza dire nulla ai suoi genitori, lo mise quindi sul fuoco come fosse un tronco di legno ma non poté completare il rito perché Metanira, entrata nella stanza e visto il figlio sul fuoco, si mise a urlare di paura e la dea, irritata, dovette rivelarsi lamentandosi di come gli sciocchi mortali non capiscano i rituali degli dei. Invece di rendere Demofoonte immortale, Demetra decise allora di insegnare a Trittolemo l'arte dell'agricoltura (wikipedia).
In merito a questa dirimente e, ripeto, decisiva questione, l’eminente studioso del mondo classico greco-romano, Giandomenico Casalino, opportunamente scrive:
“… la lingua greca non possiede un termine paragonabile al latino auctoritas … I greci traducevano e ‘tradivano’ la parola auctoritas servendosi di due parole, l’una è exousia e l’altra è axioma. Mentre quest’ultima (che è l’assioma italiano) è più vicina al latino dignitas e, pertanto, è altro tanto dal nostro autorità quanto da auctoritas, l’analisi dell’origine della prima è più interessante. Infatti la parola risulta composta da ex e da un sostantivo astratto che è ousia, derivato da oùsa, participio femminile del verbo eimi, che significa ‘essere’. La ousia è pertanto l’“essenza”, in combinazione con ex assume il significato di ‘risorsa’, ‘possibilità’, ‘facoltà’. Da ciò si può concludere che la parola vuol dire in greco: ‘avere la possibilità’, ‘vi è la facoltà’, insomma esprime l’idea dell’‘è possibile’ (vedi Platone, Simposio, 182 c …)” (http://www.ereticamente.net/2017/09/auctoritas-la-parola-lorigine-il-suo-significato-nella-cultura-giuridico-religiosa-romana-giandomenico-casalino.html). Si coglie qui, perfettamente distinto, l’eco inestinguibile della più antica trascrizione in versi del Poema sulla natura di Parmenide.
Ancora opportunamente, lo Studioso annota che la radice del nostro mondo attuale risiede, per la prima volta espressamente, nell’atto della nomina di Augusto a imperatore, pertanto divenuto divus: post id tempus auctoritate omnibus praestiti, potestias autem nihilo amplius habui quam ceteri qui mihi quoque in magistratu conlegae fuerunt (Res Gestae, cap. 34, par. 1). Secondo la traduzione da egli riportata: “dopo di allora io superai tutti per autorità, ma non ebbi alcuna potestà maggiore degli altri cittadini che mi furono colleghi nelle magistrature” (Ibidem). E pertanto, sulla questione, annotare, in maniera direi concludente: “Auctoritas, pertanto, è la qualità di chi è di più (auctor), chi vale di più, che promuove ‘qualcosa’ e la crea, chi ha una potenza superiore a quella dei singoli cittadini e, pertanto, possiede la capacità di indurre questi al rispetto, alla sottomissione e quindi all’osservanza delle norme poste a fondamento dell’intero ordinamento, dal quale l’auctor è fuori poiché ne è l’autore, cioè il creatore e quindi il custode (vedi l’opera di carl Schmitt, Il custode della Costituzione, Milano 1981; nonché P. De Francisci, Arcana imperii, Roma 1970, vol. III, tomo I pp. 241 ss.)” (Ibidem).
Ciò detto, ritorniamo ora al corpus unicum dei Veda.
Anche Calasso, ripete che gli Arya, questo popolo di nomadi, non sente il bisogno di costruire altro che non sia la ripetizione attuale del rito dell’esistenza, un’esistenza che potremmo anche supporre minima o poco potente (minima potestas), e quindi poco o nient’affatto riconducibile all’idea viceversa di “volontà di potenza” che caratterizza ogni excursus filosofico nietscheano. A differenza, annota anche Calasso, di tutte le altre civiltà del passato, che hanno viceversa provveduto a edificare città (potestas) e direi - dal suo punto di vista, che si è ormai capito non mi appartiene compiutamente - maggiormente altari (auctoritas). E questo, perché?
In effetti, risulterebbe piuttosto difficile risalirvi, se non fosse invece per la testimonianza che definirei essenziale di Plutarco. In particolare, quando nell’adversus Colotem confutando le accuse dell’allievo di Epicuro di epoche (sospensione del giudizio) e di akatalepsia (inattività), rivolte all’intera tradizione dei sapienti (sophoi) e filosofi (filosophoi) del passato, da principio Egli fa riferimento alle parole di Empedocle, così anticipandole brevemente:
“Fu dunque tanto lontano (Empedocle) dal rimuovere le cose esistenti e dal combattere le apparenze fenomeniche che egli non eliminò neanche il termine dell’uso abituale ma, abolendo solamente quell’inganno che danneggia la conoscenza, di nuovo restituisce alle parole l’uso convenzionale in questi versi: ‘Essi, quando ciò che è mescolato viene alla luce del sole in forma di uomo o di belve o di arbusti o di uccelli, allora questo chiamano nascere, quando poi si disgiungono, questo allora disgraziata morte. Non secondo giustizia attribuiscono nomi, ma secondo convenzione parlo anche io’” (Plutarco, adversus Colotem).
Si tratta dunque dell’uso convenzionale dei nomi, che fu detto nuovo dei filosofi e che non appartiene ai sapienti - detti sofoi e dal cui termine deriva anche quello dei sofisti, ignari del triste destino che viceversa li avrebbe per lunghi secoli immeritatamente contrassegnati -, i quali invece attribuiscono nomi secondo giustizia; uso, quello dei filosofi, al quale, Socrate mediante Platone, per primo, affidò il nome di dialettica.
“Ma” - così prosegue Plutarco nell’opera, scontrandosi con Colote, che era stato allievo di Epicuro - “per Zeus, secondo Epicuro i corpi sono di numero infinito e ciascun fenomeno è da essi generato’. Guarda quali principi voi ponete per la generazione: infinità (n.d.r: cfr. G. Semerano, L’infinito: un equivoco millenario 2001) e vuoto; dei quali l’uno è inerte, impassibile e incorporeo (ndr.: cfr. la figura di Vrtra); l’altra, invece, disordinata, arazionale e indeterminata (ndr.: Esiodo aveva detto “caotica”), che si dissolve e si confonde perché non dominata né definita a causa della molteplicità. Ma certamente Parmenide non ha eliminato né ‘il fuoco’, né ‘l’acqua’, né ‘la sponda’ né ‘la città’ - come dice Colote - ‘abitate in Europa e in Asia’; giacchè egli ha composto una rappresentazione ordinata del cosmo e, avendo unito gli elementi (quello luminoso e quello oscuro) (ndr.: l’evangelista Giovanni dirà ‘luce’ e ‘tenebre’), da e attraverso questi realizza tutti i fenomeni”.
E immediatamente aggiungere, e questo vale come altra testimonianza alla considerazione iniziale di Calasso che si tratti piuttosto di ogni mente che riflette su se stessa: “(Parmenide) ha detto molte cose, infatti, sulla terra, il cielo, il sole, la luna, gli astri e ha spiegato la nascita degli uomini e - per essere un antico fisiologo e per avere composto un’opera originale senza attingere a quelle altrui - non ha tralasciato nessuno degli argomenti più importanti”.
E, in confronto all’opera di Platone, così concludere: “Dunque, il discorso (di Parmenide) sull’essere che afferma che esso è uno non elimina la molteplicità e le sensazioni, bensì mostra la differenza tra queste ultime e l’intellegibile. Platone, mostrando ciò ancor più chiaramente nella sua teoria delle idee, ha egli stesso concesso a Colote la possibilità di essere confutato”. E in specie, nell’ordine del discorso, insistere sul fatto che - contrariamente ad “Aristotele che sovvertì completamente le idee, a causa delle quali Platone è rimproverato anche da Colote (…), per quanto (Aristotele) era determinato ad abbattere la filosofia di Platone” - comunque “Platone invece riteneva che il non essere differiva mirabilmente dal non essere l’ente: con il primo infatti si aboliscono tutte le essenze (ndr.: ma, il non-essere aveva ben detto Parmenide non-è, nè può essere e nemmeno lo si può pensare), mentre con il secondo si mostra quell’alterità tra il partecipato e il partecipante, che i filosofi successivi posero unicamente sotto la differenza tra genere e specie e tra qualità comuni e qualità proprie, senza progredire ad un livello superiore ed inciampando, così, in aporie logiche più grandi (…) Lo stesso è accaduto ai filosofi più recenti: essi hanno privato del nome di ente molte e importanti realtà, tra le quali il vuoto, il tempo, il luogo e tutto il genere dei significati nel quale risiede la verità intera. Essi infatti dicono che queste realtà non sono enti e pur tuttavia sono qualcosa, e continuano a utilizzarle nella vita e nel filosofeggiare come se esistessero e fossero reali (…) ‘Ma questa differenza di essenza si trova nei fatti; più saggio di Platone è dunque Epicuro, in quanto chiama enti tutte le cose allo stesso modo (…). Ma se Platone è massimamente in errore a tal riguardo, egli doveva presentare un rendiconto a coloro che in greco si esprimono con maggior precisione e nei discorsi con maggior purezza per aver creato scompiglio nelle parole, ma non per aver abolito la realtà o per averci portato via la causa del vivere, quando ha denominato le cose divenute cose divenute e non, come invece fanno costoro, cose che sono”.
Pertanto, ritorniamo ora a Calasso e in particolare a parole di analisi e commento che servono a descrivere la figura di Vrtra. In effetti, egli scrive: “C’è sempre qualcosa prima degli dei. Se non è Prajapati, da cui ebbero origine, è Vrtra, massa informe, montagna, serpente sulla montagna, otre, ricettacolo che racchiude la sostanza inebriante: il soma. Gli dei sapevano che la loro potenza era troppo giovane e precaria rispetto a quell’essere indefinito (ndr.: la sottolineatura è mia) (…) Quella sostanza inebriante, che attingevano dal corpo inerme (ndr.: senza vita, che dunque non appartiene ad alcun vivente, ma che è presente nel mondo dei “minerali”), doveva essere filtrata, mescolata con altro, per diventare assimilabile, anche per gli dei. Occorreva ancora l’aiuto di Vayu, di una brezza che si mescolasse al liquido soma. Fu questa la versione vedica dello spirito che vivifica: Vayu che dissipa il fetore di Vrtra e trasforma il liquido contenuto nel suo corpo in una bevanda inebriante e illuminante” (Ibidem).
E tuttavia, in fine: c’è sempre qualcosa prima degli dei, i quali sempre hanno a che fare con il velo sia esso in genere del Tempio o in specie di Maya, Iside, Demetra, e in generale ogni figura o rappresentazione della Vergine, sia all’interno (chiesa o moschea) che all’esterno (burqa, dal persiano purda, che significa ‘cortina’, ‘velo’) del Tempio, che è ogni vivente; ma, per i Greci soprattutto, ancor prima, l’Essere stesso. In particolare Luca, il terzo evangelista, narra che era verso mezzogiorno, quando il sole si eclissò e si fece buio su tutta la terra fino alle tre del pomeriggio. Il velo del tempio si squarciò nel mezzo. Gesù, gridando a gran voce, disse: ‘Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito’. Detto questo spirò. In analogia di contenuto e similitudine di forme, accade qui nel testo che, attraverso un arco temporale di tre ore circa, lo scenario della natura cambia e il velo del tempio viene squarciato nel mezzo (ovvero, in due parti). In base al racconto sia del primo (Matteo) che del secondo (Marco) evangelista, “dall’alto in basso”. Dunque: da cielo verso terra. E quindi, sulla base di altri e più efficaci indizi, che non si sia piuttosto trattato di una folgore celeste?
E infatti: Apollo aveva amato la ninfa Climene e da lei aveva avuto un figlio, Fetonte. Gli amici di Fetonte iniziarono a prenderlo in giro e sbeffeggiarlo perché il giovane sosteneva di essere il figlio del dio del Sole ed essi non ci credevano. Fetonte, mortificato di questa cosa, un giorno andò dal padre per supplicarlo di fargli portare per un giorno il carro del Sole, così avrebbe potuto dimostrare le sue origini. Apollo cercò in tutti i modi di distoglierlo da questa pazzia ma Fetonte tanto fece che alla fine convinse il padre; salì sul carro e partì. Una volta sul carro però, il giovane ebbe paura quando vide il vuoto sotto i suoi piedi; allora il carro impazzì, saliva troppo in cielo o si avvicinava troppo alla terra, bruciando tutto; Zeus allora ebbe pietà degli uomini e per salvarli mandò una folgore su Fetonte che morì e precipitò nel fiume Eridano, che oggi si chiama Po. Mentre i cavalli ritornavano da soli alla stalla, le Heliadi, sorelle di Fetonte, piangevano la sua morte e Zeus impietosito di quel dolore, le tramutò in pioppi e le loro lacrime divennero gocce d'ambra; questi pioppi ancora oggi sono lungo le rive del Po.
Pertanto, resta l’ipotesi che, se Fetonte non avesse avuto paura e viceversa avesse agito con potenza, le cose sarebbero potute andare diversamente. Così come, anche nelL’innominabile attuale di Calasso, è viceversa per noi potere e non auspicio che un destino posthuman ci attenda.
Aggiunto il 28/02/2018 10:37 da Angelo Giubileo
Argomento: Filosofia della storia
Autore: Angelo Giubileo
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