ORIGINARIETÀ DELL'INTERPRETAZIONE
in Verità e interpretazione di Luigi Pareyson
di Davide Orlandi
Introduzione e presentazione sintetica del saggio.
Il saggio “Originarietà dell’interpretazione” rappresenta la parte più specificatamente ermeneutica di “Verità e interpretazione”, opera composta da Luigi Pareyson nel 1971.
L’obiettivo che il saggio si pone è quello di chiarire alcune questioni teoriche, relative alla pratica ermeneutica, che l’autore va ad enunciare nei quattordici paragrafi di cui il saggio si compone. A livello sintetico è possibile fare riferimento a tre tappe che scandiscono il percorso che Pareyson segue nella sua esposizione:
Nei paragrafi 1-12 l’autore considera le questioni più specificamente teoretiche relative alla sua proposta di ermeneutica.
Il paragrafo 12 rappresenta una sintesi dei dati raccolti, i quali vengono considerati con l’intento di un approfondimento del loro significato, che apre alla chiusa del saggio.
Gli ultimi paragrafi fanno infine riferimento alla proposta pareysoniana di un’ermeneutica che si configura come una filosofia dell’implicito e che prende nettamente le distanze rispetto ad una filosofia del sottinteso.
Il rapporto circolare tra ermeneutica e ontologia.
Le premesse fondamentali del discorso che Pareyson intende intraprendere vengono gettate nel primo paragrafo, intitolato “Rapporto con l’essere e interpretazione della verità: ontologia e ermeneutica”, del quale questa relazione vorrebbe sottolineare in particolare due passaggi.
Il primo è quello in cui si dice che “ogni relazione umana, si tratti del conoscere o dell’agire, dell’accesso all’arte o dei rapporti fra persone, del sapere storico e della meditazione filosofica, ha sempre un carattere interpretativo”1. L’obiettivo pareysoniano è espressamente quello di affermare il carattere interpretativo non solo di un qualsiasi rapporto interpersonale, ma anche dell’approccio ad un’opera artistica e della comprensione di un certo periodo storico, dinamica che non si darebbe, però, se non ci fosse uno stretto legame tra il piano ermeneutico e quello ontologico. E’ in ragione dell’originarietà dell’interpretazione che possiamo affermarne l’universalità: l’interpretazione non può che essere originaria dal momento che qualifica l’essere dell’uomo, il cui essere è precisamente quello di trovarsi in rapporto con ciò che lo fonda, ossia la verità: ecco spiegato come risulta possibile dire il legame che sussiste tra ontologia ed ermeneutica, ribadito tra l’altro dallo stesso Pareyson quando scrive che “ogni interpretazione ha necessariamente un carattere ontologico”2.
Il secondo è invece dato dalla celebre affermazione secondo cui “della verità non c’è che interpretazione e non c’è che interpretazione della verità”3.
Una volta stabilita la coessenzialità dell’aspetto originario e dell’aspetto originale dell’interpretazione, dal momento che la verità (aspetto originario) si dà sempre nella storia mediante nuove configurazioni personali e storiche incarnate dalle persone (ecco l’aspetto dell’originalità), le quali, però, a loro volta si radicano nella verità (il rapporto non può che essere circolare); Pareyson giunge a dire che la verità si dà solo nell’interpretazione (“della verità non c’è che interpretazione”), ma l’interpretazione non può che ancorarsi nella verità, di cui va ad orientare il percorso e a normare lo svolgimento (“non c’è che interpretazione della verità”).
Inscindibilità dell’aspetto storico e rivelativo dell’interpretazione.
Stabilito il nesso profondo che lega ermeneutica e ontologia, Pareyson passa a mostrare il legame altrettanto profondo che, all’interno di ogni formulazione sulla verità, esiste tra aspetto storico e aspetto rivelativo. Prima di soffermarsi su tale questione, però, l’autore non trascura di mostrare la propria avversione verso quello che chiama pensiero espressivo, a cui contrappone il pensiero rivelativo. Il pensiero rivelativo è quello che si apre alla verità a partire dalla situazione storica, consapevole del fatto che la verità non può che dischiudersi all’interno del nostro orizzonte finito, che si pone dunque come canale fondamentale per attingere alla sorgente inesauribile che la verità è. Il pensiero espressivo, invece, presentandosi quale mera descrizione della realtà storica, non fa altro che descrivere – ideologicamente – il proprio tempo, dal momento che ha come proprio riferimento la storia: il rifiuto pareysoniano di questo pensiero è tale al punto che l’autore scrive che “non merita perciò il nome di interpretazione quella in cui la persona e il tempo, invece di farsi tramite e apertura sulla verità, sono l’unico vero oggetto del pensiero, il quale diventa allora meramente storico – ideologico o tecnico che sia -, destinato comunque a passare col tempo, non essendone, in tal caso, se non il ritratto e il prodotto”4.
L’interpretazione necessita di due elementi: da un lato il riferimento alla verità, che rivela eternamente la sua presenza nella storia e dall’altro il riferimento alla persona. L’interpretazione, quindi, non è che un affacciarsi sull’inesauribilità a partire da sé, cioè a partire dalla persona e a partire dalla storia: Pareyson insiste sull’importanza di non concepire la storicità e la personalità dell’interpretazione come una barriera o una limitazione, né come una sovrapposizione illecita o, ancora peggio, una deformazione ma precisamente come un’apertura. Non occorre prescindere dalla storia, tentandone un inutile processo di astrazione: bisogna al contrario servirsi della storia e servirsi di sé, giungendo all’istituzione di un rapporto non inverso ma diretto tra rivelazione della verità ed espressione del tempo. Non esiste, all’interno di un’interpretazione, un aspetto per così dire temporale o storico della verità ed un aspetto invece eterno della verità: l’interpretazione è “tutta rivelativa e tutta espressiva, tutta insieme personale e ontologica”5, come dice Pareyson in chiusura di questo secondo paragrafo, proprio perché tra rivelazione della verità ed espressione del tempo non esiste un rapporto di gradualità ma piuttosto di sintesi, nel senso che l’una non può che presentarsi come forma dell’altra.
Considerazioni sui caratteri dell’interpretazione:
L’interpretazione non è né arbitraria né approssimativa.
Fatte queste considerazioni preliminari sui caratteri dell’interpretazione, Pareyson non può trascurare di chiarificare alcuni fraintendimenti che una superficiale lettura della sua filosofia può generare. A pag. 56 l’autore si esprime in modo fortemente critico nei confronti di un “soggettivismo carico di conseguenze relativistiche o scettiche”6, quello in cui s’incorrerebbe cioè se considerassimo l’interpretazione o arbitraria o approssimativa. Tale fraintendimento sarebbe frutto del carattere plurale dell’interpretazione: si può infatti pensare che se le interpretazioni sono molteplici è perché non giungono a cogliere l’essenza della verità, rimanendo nell’approssimazione, o perché hanno frammentato la verità, che di conseguenza non sarebbe comunque colta. Per Pareyson, invece, l’infinità delle interpretazioni è indice della “ricchezza del pensiero umano”7: se la verità è inesauribile, infatti, come è possibile che si dia un’unica interpretazione di essa, che alcuni considerano come l’unica possibile? Come è possibile, poi, che la ricerca possa concludersi, fino a che tutti non converranno sulla verità di un unico asserto? L’interpretazione, in quanto storica e personale, non può che essere molteplice e non definitiva: alla verità si giunge tramite un’apertura storica che consenta di esprimerla mediante infinite interpretazioni, all’interno delle quali non ne esiste però una privilegiata rispetto alle altre, che esprima cioè meglio la verità o che meglio la possegga. Per giungere al proprio obiettivo l’interpretazione non deve liberarsi dei caratteri di storicità e di personalità che gli sono costitutivi, essenziali ed eliminabili: l’unico sforzo che la persona deve compiere è quello di lasciar essere la verità, senza sovrapporglisi, facendo cioè in modo che storicità e personalità non risultino preminenti rispetto alla verità ma si pongano quali strumenti adeguati al suo coglimento. Per far ciò, però, non bisogna tendere ad una impossibile quanto controproducente spersonalizzazione ma piuttosto approfondire la situazione storica e la persona che, in tal modo, saranno per forza “sintonizzate” rispetto alla sorgente inesauribile della verità a cui tendono.
L’interpretazione non ha un aspetto sovratemporale e uno storico.
Un altro punto che Pareyson intende chiarire è relativo all’impossibilità di distinguere, all’interno dell’interpretazione, un aspetto temporale da un aspetto sovratemporale o eterno. Tale impossibilità è data dal fatto che, utilizzando una metafora proposta dallo stesso Pareyson, non esiste un “nocciolo” di verità che vive nell’al di là del tempo e della storia e una “corteccia”, legata alla storicità e alla temporalità, che invece sarebbe effimera, destinata a non permanere. Se si vuole operare una distinzione, invece, è per Pareyson opportuno individuare ciò che, nell’interpretazione, risulta essere legato alla mera storicità, senza essere un canale adatto alla rivelazione della verità e ciò che, invece, essendo storico non può che essere rivelativo. Pareyson si premura di chiarire che, una volta applicata tale distinzione, si va a eliminare ciò che interpretazione non è per far evidentemente permanere ciò che invece interpretazione è. Come già detto l’interpretazione non astrae rispetto alla realtà storica nella quale viene formulata ma la vera interpretazione fa valere quell’aspetto di storicità come via d’accesso alla verità, motivo per cui, in questo caso, la storicità va ben oltre l’aspetto semplicemente temporale, poiché dimostra la presenza, in sé, di un legame con l’essere così profondo al punto da riuscire a penetrarlo completamente.
A tal riguardo l’autore afferma “nell’interpretazione per un verso l’elemento storico, pur non cessando di esprimere il tempo, è così poco legato al suo flusso che non perde mai d’attualità, inscindibile com’è dalla formulazione del vero, e per l’altro verso la rivelazione della verità è così poco astratta dal tempo che piuttosto ne muove e lo adotta come via e mezzo indispensabili al raggiungimento al proprio scopo”8.
Il rapporto che esiste tra unica verità e infinite prospettive su di sé non è contraddittorio.
Stabilita la coessenzialità dell’aspetto storico e dell’aspetto eterno, che convivrebbero indissolubilmente all’interno di ogni interpretazione, Pareyson chiarisce che non esiste contraddizione tra l’unica verità inesauribile, sorgente di ogni interpretazione e la molteplicità, o meglio l’infinità di prospettive possibili sulla verità. La verità, infatti, non può che essere unica, altrimenti si violerebbe il principio di non-contraddizione (è impossibile, infatti, il darsi di due verità) ma pur nella sua unicità non può che dar luogo ad infinite interpretazioni. Ciò si spiega riferendosi al fatto che l’unicità della verità permane nelle singole formulazioni che vengono proposte della verità stessa e del resto la verità non potrebbe che esprimersi in quelle molteplici formulazioni. Perciò tra unicità della verità e molteplicità dell’interpretazione non solo non esiste contraddizione, bensì una relazione feconda, per la quale le infinite interpretazioni proteggono la verità di cui si fanno portatrici e allo stesso tempo ne vengono costantemente sollecitate. Le verità storiche non si darebbero se non fossero espressioni di quell’unica verità a cui tendono, così come si violenterebbe la verità se si pretendesse di racchiuderla in un’unica formulazione: essa non sarebbe infatti altro che una sua interpretazione, e non la verità stessa, che invece vive della molteplicità delle interpretazioni e del dialogo che tra esse può instaurarsi.
Tra verità e interpretazione non c’è separazione. La verità non si presenta come altra da sé.
Per corroborare la tesi proposta nel paragrafo precedente, relativa cioè all’impossibilità di separare da un lato l’unicità della verità e dall’altro le molteplici formulazioni che se ne possono dare, Pareyson insiste sulla necessità di chiarire i caratteri dell’interpretazione. La verità si può dire soltanto mediante una sua formulazione ma tra verità e formulazione non esiste separazione, anzi: nel testo si dice chiaramente che non è pensabile l’esistenza della verità da un lato e delle infinite interpretazioni dall’altro, come se potessero darsi degli sguardi sul vero solo mediante il fortuito incontro di questi due ordini ben separati e distinti. Se così fosse, infatti, non esisterebbe un vero e proprio legame tra verità e interpretazione e la verità non riuscirebbe a dialogare con le molteplici interpretazioni che da essa scaturiscono. Pareyson è chiaro nell’affermare che tra verità e interpretazione esiste identità, che però non va scambiata per confusione: la verità unica si concede e si lascia possedere dalle varie formulazioni storiche che vengono elaborate al punto tale che esse finiscono per coincidere con l’intera verità di cui si fanno portavoci. Efficace è, in questo senso, il riferimento all’incarnazione, quale categoria per esprimere l’identità che si instaura tra verità ed interpretazione, che non sono né simili né diverse: il superamento del dualismo platonico tra tempo ed eternità può essere raggiunto mediante appunto la categoria cristica di incarnazione, che si lega al principio di analogia, la quale rimanda a un rapporto tra verità ed interpretazione che, come già detto, non è né di confusione né di separazione netta. In tal senso varrebbe l’equazione verità = interpretazione, da cui deriva che la verità non ha alcun bisogno di presentarsi diversa da se stessa e di confondersi con le proprie formulazioni. E’ per tal motivo che Pareyson afferma che il concetto che più ci porta fuori strada nella definizione di cosa sia una formulazione della verità è quello di alterazione, dal momento che il rapporto che sussiste tra verità e interpretazione non è un rapporto di alterità, come se la verità non potesse non mostrarsi come altra da sé ed essere poi racchiusa in una molteplicità di formulazioni che non sarebbero altro se non una sua copia o riflesso. Non è che, per il solo fatto d’essere colta in una formulazione, la verità viene per così dire “snaturata”, ma anzi viene preservata intatta, dal momento che la storicità non è ostacolo da superare ma una possibilità di manifestazione della verità stessa, come già ricordato.
Monopolio e travestimento.
A proposito del concetto di alterazione prima citato Pareyson fa riferimento soprattutto a due modalità erronee di concepire le interpretazioni della verità, rappresentate da un lato dal monopolio e dall’altro dal trasformismo. Per monopolio si fa riferimento al tentativo di proporre un’unica formulazione della verità, che in quanto tale, però, non si presenta più solamente come una semplice interpretazione tra tante, ma vorrebbe imporsi quale unica formulazione sulla verità, l’unica quindi a cui ci si dovrebbe attenere. Tuttavia il tentativo si rivela fallimentare sin dall’inizio, visto che il possesso esclusivo non potrebbe non riconoscersi come altro dalla verità, avendo infatti come scopo ultimo quello di sovrapporsi ad essa: il monopolio darebbe vita ad un monismo ontologico che per cui l’unica interpretazione adeguata della verità sarebbe quella di un singolo individuo. Ancor più fallimentare è invece il travestimento, ossia quell’operazione per cui si concepiscono le diverse manifestazioni storiche della verità quali suoi camuffamenti: una concezione tale pensa che l’interpretazione non sarebbe altro che una copia che mistifica la verità e in tal senso non comprende la compenetrazione profonda che sussiste tra verità e interpretazione, col rischio di istituire un dualismo che contrapporrebbe da un lato la verità e dall’altro le sue formulazioni.
Sia il monopolio che il travestimento sono ciò che di più distante dalla verità possa esserci: entrambi, infatti, si pongono come forme di contraffazione della verità dal momento che non indagano il nesso profondo che lega la verità e l’interpretazione, l’ontologia e l’ermeneutica ma le contrappongono, provocando quale unico effetto la dissoluzione e il venir meno della verità stessa.
La questione del “falso dilemma”.
Pareyson ritorna nel paragrafo 7, a pag. 66, sulla questione del rapporto tra unicità della verità e molteplicità delle interpretazioni, puntualizzando che tale rapporto, come per altro già detto in precedenza, non è contraddittorio e tanto meno paradossale, dal momento che la verità non può che essere unica, mentre le formulazioni possono essere molteplici appunto perché sono tutte aperture sull’unica fonte inesauribile del vero. Per tale motivo Pareyson parla di un falso dilemma che esisterebbe in relazione al rapporto tra verità e interpretazione, ricordando come, in materia di verità, si darebbero filosoficamente due posizioni antitetiche: da un lato starebbero coloro che credono nell’esistenza di una sola verità che in quanto tale è slegata sia dal contesto storico che dalla temporalità; dall’altro invece sarebbero schierati coloro che sostengono che la verità non possa che darsi nella storia, ragione per cui non sarebbe che molteplice e soggetta al cambiamento delle epoche che attraverserebbe. La prima posizione rischia di scivolare nel dogmatismo, la seconda nel relativismo. Benché contrapposte, entrambe le posizioni dimenticano che per salvaguardare la molteplicità delle manifestazioni storiche del vero non è necessario negare l’unicità della verità e che per preservare l’unicità della verità non è necessario disprezzare le sue manifestazioni storiche. Ecco perché entrambe crollano in una debolezza che le accomuna: tutte e due, infatti, separano due elementi coessenziali, fondamentali, inscindibili come possono essere la verità e le sue interpretazioni. E’ illegittimo attribuire alla filosofia l’unicità, che può essere solo della verità, così come illegittima è l’attribuzione alla verità della molteplicità che può essere propria solo della filosofia. In altri termini, è inopportuna l’attribuzione dei caratteri della verità, ossia l’unicità e l’intemporalità, alle formulazioni che vengono fornite su di essa, che in quanto tali risulterebbero erronee ed illegittime.
Il confronto con l’estetica.
A sostegno di tale tesi interviene l’esempio, tratto dall’estetica, che Pareyson nel paragrafo successivo porta. L’autore suggerisce una serie di parallelismi con cui confrontare l’operazione ermeneutica e quella estetica: così come il brano musicale non può che vivere nelle sue esecuzioni, allo stesso modo la verità non si dà che nelle sue interpretazioni, giungendo a coincidere con esse, come prima già chiarito. E nonostante la molteplicità di interpretazioni che possono essere proposte di un’opera musicale, essa non viene mai meno, nella medesima maniera in cui la verità non si disgrega, ma anzi viene sollecitata dalle infinite interpretazioni che possono essere date su di essa. Le interpretazioni, poi, non sono copia o riflesso dello spartito musicale, ma sono lo spartito, sono l’opera, che in quanto tale non si concede come altro da sé, allo stesso modo in cui la verità può essere colta nell’interpretazione, che non è altro dalla verità, bensì la verità stessa. Il richiamo all’estetica è tale per cui Pareyson trae, dall’efficacia di quanto dice a proposito dell’arte, la conferma che il legame ontologico tra verità e interpretazione è così profondo da poter essere esteso anche agli altri campi in cui un simile rapporto può darsi. Riprendendo quanto già accennato, Pareyson sottolinea come le diverse interpretazioni di un’opera musicale, lungi da volerle aggiungere qualcosa che non è suo, vivono nel rapporto con un’opera che permane unica ed irripetibile e che dà modo, come fa la verità, di alimentare la pluralità suscitata, in una ricerca che non è né mai definitiva, né mai conclusa. Ciò che va sottolineato è che Pareyson, a tal proposito, dice che sì il rapporto tra verità e formulazioni elaborate su di essa è ermeneutico, così come il rapporto tra l’opera musicale e le sue esecuzioni; tuttavia tale relazione non può, nell’ottica pareysoniana, essere spiegata tramite il riferimento a termini quale soggetto e oggetto, contenuto e forma, virtualità e sviluppo, totalità e parti.
L’ interpretazione non implica un rapporto da soggetto a oggetto.
Per argomentare l’impossibilità di parlare del rapporto tra soggetto e oggetto in relazione all’approccio ermeneutico, Pareyson si avvale nuovamente di una metafora presa a prestito dall’estetica. L’autore si sofferma sul rapporto che si instaura tra l’esecutore di un brano e il brano stesso: da un lato non ci si aspetta di certo che l’esecutore miri all’impersonalità assoluta, visto che è proprio lui che fa vivere l’opera tramite il suo strumento, dall’altro, però, non desidereremmo neppure che l’esecutore apporti un’originalità tale da far venire meno l’opera stessa o da stravolgerne il significato. Ciò che conta, tuttavia, è che nell’esecuzione reale non c’è più una netta distinzione tra agente che esegue e opera che è eseguita: il musicista si fonde con il brano che suona al punto tale che lo spettatore non è più capace di distinguere in modo chiaro l’opera dall’interpretazione che le è stata data. Ciononostante l’opera non si esaurisce in quella specifica esecuzione, ma permane in essa con quell’ulteriorità che permette sempre nuove interpretazioni.
Per tali ragioni Pareyson afferma che l’interprete non è un soggetto che esaurisce la verità contenuta nel brano, né è costretto ad astrarre del tutto da sé per poter mostrare la verità contenuta in esso. Ecco perché non si parla di soggetto ma di persona: non occorre prescindere da noi per approdare al disvelamento della verità, ma occorre al contrario disporre della nostra apertura e della nostra precisa collocazione storica per giungere alla verità. Se è preferibile parlare di persona, piuttosto che di soggetto, allo stesso modo non è possibile parlare di una verità oggettiva: se essa realmente lo fosse, si esaurirebbe dopo aver usufruito o attinto ad essa.
Si parla propriamente di inoggettivabilità della verità per intendere sia il fatto che essa non si pone come un oggetto e di conseguenza noi non ne possiamo liberamente disporre, altrimenti sarebbe una formula destinata ad una mera applicazione; sia per indicare il fatto che in essa risiede sempre un’inesauribilità che è precisamente ciò in virtù della quale si generano infinite prospettive su di essa. Tale inesauribilità, che Pareyson intende nel senso di una “irriducibile trascendenza”9, è da intendersi come presenza e ulteriorità: è presenza perché è il modo in cui la verità ci si dà e noi di conseguenza possiamo coglierla, è ulteriorità perché il suo possesso non indica il trattenerla in modo esclusivo o definitivo: non a caso l’autore scrive che l’interpretazione non può che darsi come “il possesso mai definitivo d’un infinito”10.
Ciò detto a proposito di persona e verità, Pareyson ribadisce che la persona non è soggetto, altrimenti ridurrebbe l’oggetto ad una mera attività soggettiva, ma è appunto persona ed è aperta ad altro: si parla qui non di chiusura gnoseologica, che sarebbe quella propria di un soggetto, ma di apertura ontologica, a testimonianza del fatto che il legame ontologico in virtù del quale è possibile esprimere una propria formulazione della realtà è il legame originario che lega la persona all’essere.
L’interpretazione non è spiegabile con il rimando al contenuto e alla forma o alla virtualità e allo sviluppo.
Come Pareyson già aveva annunciato è impossibile esplicitare meglio la natura del rapporto ermeneutico in riferimento a termini come quelli di contenuto e forma e di virtualità e sviluppo. Entrambe le coppie, infatti, rimandano a concezioni o troppo soggettivistiche o troppo oggettivistiche: la concezione soggettivistica sarebbe quella per la quale la verità è un contenuto a cui ognuno andrebbe a conferire una propria forma; quella oggettivistica, invece, vede nella verità una virtualità infinita di prospettive, all’interno della quale ognuno andrebbe a esplicitarne una singola. Pareyson è polemico nei confronti sia della prima che della seconda concezione: il soggettivismo, infatti, prevedrebbe una verità caotica, informe, a cui ognuno si sovrapporrebbe, senza evidentemente un’opportuna considerazione del legame ontologico che lega persona e essere: la persona, nell’ermeneutica pareysoniana, è spiraglio sulla verità a partire da una situazione storica, che in questa posizione sarebbe del tutto svalutata. Non si tratta più di ascoltare la verità che si rivela nella situazione storica, ma di sovrapporsi ad un contenuto già dato, con il conseguente pericolo di un’arbitrarietà assoluta, che può darsi appunto perché non si ascolta la verità a partire da una prospettiva da cui può rivelarsi.
La seconda concezione, invece, scivolerebbe nell’oggettivismo poiché prevedrebbe un punto di vista da cui è possibile contemplare l’interezza della verità, la sua infinità; da ciò deriverebbe la possibilità di commisurare la verità da un lato e le prospettive dall’altro, cercandone una corrispondenza. E’ questa una posizione che non tiene conto del legame profondo che va instaurandosi tra essere e verità: le interpretazioni, come dice Pareyson, finirebbero per essere intercambiabili, l’una accanto alle altre, “a dar spettacolo di sé su un ideale e artificioso palcoscenico”11.
Entrambe le posizioni non possono essere accettate da Pareyson perché trascurano un elemento essenziale, dato dal rapporto che viene in essere tra l’inesauribilità della verità e la libertà propria della persona: la verità non si manifesta se non in una personale prospettiva, tenendo però presente che questa può continuare ad approfondirsi e rinnovarsi solo se trova un punto di incontro con le altre formulazioni, dando vita così ad un proficuo e mai concluso dialogo.
L’interpretazione non è una parte: rifiuto della teoria dell’integrazione e dell’esplicitazione.
Benché Pareyson abbia più volte insistito sull’equazione verità = interpretazione, decide di soffermarsi a chiarire ulteriormente il rapporto che si instaura tra le due a pag. 75, nell’undicesimo paragrafo. In esso l’autore è chiaro nel dire che non si deve considerare ciascuna prospettiva sulla verità come una parte, un pezzo, un frammento di verità che, unito a tutte le altre, darebbe l’intero della verità, secondo una somma di tipo algebrico per cui addizionando tutte le parti non può che risultare l’intero. Per Pareyson ciascuna prospettiva è la verità, è tutta la verità, ma è una verità a cui si guarda lateralmente, nel senso che è uno sguardo sull’inesauribile a partire da una certa situazione esistenziale e storica. Per tale ragione l’interpretazione è un tutto che in quanto tale non abbisogna di integrazione con altro, anzi rifiuta tale integrazione, visto che non è manchevole di nulla. Dire che un’interpretazione è uno sguardo sull’inesauribile non vuol dire di certo coglierlo tutto e poterlo dire compiutamente: nell’interpretazione permane, per così dire, un’ulteriorità che non si esaurisce nelle varie prospettive, ma rimanda sempre ad altro, in una ricerca mai conclusa. Tuttavia tale “non detto”12 non è da considerarsi negativamente come spia di una povertà dell’interpretazione, in sé compiuta, né è da correggere, o perfezionare: laddove si dà verità, infatti, si percepisce il carattere sempre aperto e mai terminato di una ricerca che, essendo inesauribile, non può mai dirsi conclusa. Il non detto è la compiutezza, la perfezione di un’interpretazione; ne costituisce l’essenza, anche se l’autore afferma che molti relativisti, dichiarati e non, fanno precisamente riferimento a questa presunta incompiutezza dell’interpretazione come argomentazione a sostegno della tesi per cui le uniche verità che si darebbero sarebbero quelle di ordine storico. Ogni interpretazione è compiuta e perfetta in sé, ciononostante il carattere ermeneutico e personale della conoscenza sollecita ogni prospettiva al dialogo proficuo e fecondo con le altre: la possibilità di dialogo tra prospettive differenti testimonia l’inesauribilità del vero, che si manifesta però in un dialogo in cui ad ogni interpretazione è presente le altre: il riconoscimento delle altre prospettive deve avvenire a partire dall’affermazione della propria, nei confronti della quale le altre si pongono come interlocutrici che percorrono insieme uno stesso cammino. Se l’interpretazione coglie il vero, è pur vero però che la verità è scaturigine di possibilità e di novità sempre differenti, motivo per cui ogni prospettiva non può mai dirsi ultima, nel senso che deve sempre aprirsi ad un ripensamento di sé. Benché tale possesso della verità, che è un possesso di un infinito mai del tutto coglibile, possa sembrare contraddittorio, Pareyson si appresta a chiarificarlo subito prendendo nuovamente a prestito un esempio attinto all’estetica e affermando che così come la lettura si pone come possesso dell’opera, non per questo l’opera non invita a rileggere, con la conseguenza che “ogni rivelazione è premio e conquista solo come stimolo e promessa di nuove rivelazioni”13.
Sintesi dei dati raccolti.
Il paragrafo 12, intitolato “Statuto dell’interpretazione”, è il risultato di una sintesi che Pareyson propone, nella quale elenca i caratteri propri della pratica ermeneutica, così come lui la intende.
Ripercorrendo i tratti fondamentali, si potrebbe sinteticamente dire che:
Verità = interpretazione, la verità è posseduta personalmente come infinito.
La verità si offre nell’interpretazione e si identifica con essa, al punto che coincidono, ma non deve esistere confusione.
Il rapporto interpretativo viene meno se c’è confusione tra verità e interpretazione (in tal caso l’interpretazione pretende di sostituirsi alla verità, ma così fa venire meno non solo la verità ma anche se stessa: l’interpretazione perde ogni carattere rivelativo e ciò fa scomparire la pluralità di formulazioni della verità e la verità).
Il rapporto interpretativo viene meno se il rapporto di ulteriorità diventa mera esteriorità: se si rompe ogni legame tra verità e interpretazione, la verità viene sospinta in una metastorica inaccessibilità, sicché se la verità è ineffabile non se ne può dire nulla e ciò non consente di distinguere le interpretazioni giuste da quelle fallaci.
Nell’interpretazione il rapporto che lega la verità e le sue formulazioni è dato dall’equilibrio raggiunto tra identità e ulteriorità: l’infinito della verità è posseduto lateralmente nell’interpretazione, ma questa non si arroga il diritto di presentarsi come unica e completa, altrimenti non sarebbe che mascheramento di se stessa, surrogazione, falsificazione che fa svanire tanto se stessa quanto la sorgente da cui proviene. Allo stesso modo, la verità non è ineffabile, ma coglibile mediante un accesso esistenziale e storico che preserva l’uomo dalla nebbia fitta che calerebbe se la verità si confondesse col nulla e si potesse dire ciò che si vuole, ossia tutto e il contrario di tutto.
La verità nel suo rapporto con la recettività e l’attività umana.
Nel paragrafo 13, a pag. 83, Pareyson riflette sul fatto che l’interpretazione, che può dirsi possesso della verità, non può non implicare un’attività operosa dell’uomo: egli certo si deve sintonizzare con la verità, esserne suo organo, aprirsi a lei e farla essere, ma ciò richiede uno sforzo compiuto in nome della libertà. A ognuno, infatti, si dischiude una duplice possibilità: o chiudersi nel proprio contesto storico, ostacolando il fluire del vero che mediante la recettività umana può scaturire o al contrario aprirsi alla verità, cosa che richiede, secondo l’espressione pareysoniana, “un alacre e intensissimo esercizio di produttività”14. L’aprirsi o il chiudersi alla verità non comporta soltanto una comprensione o un rifiuto della stessa, quanto anche una maggiore o minore capacità di cogliere se stessi, dal momento che Pareyson ha sempre ben presente il rapporto tra eterorelazione ed autorelazione. Se Pareyson insiste sul ruolo attivo dell’uomo, si premura però di precisare che il suo compito è quello dell’ascolto, “giacché la verità non è cosa che l’uomo inventi o produca, o che si possa in generale produrre o inventare: la verità bisogna lasciarla essere, non pretendere d’inventarla; e se la persona si fa organo della sua rivelazione è soprattutto per riuscire ad essere sede del suo avvento”15. Naturalmente l’apertura al vero non può non comportare anche una difficoltà nel suo coglimento: la verità, essendo inoggettivabile, non è qualcosa che può essere istantaneamente colta, anzi: tanto più sentiamo di averla afferrata, tanto più ci sfugge, secondo il detto heideggeriano per cui chi pensa in grande sbaglia anche in grande (“<<Wer gross denkt, muss gross irren>>”16).
Malgrado le difficoltà che possono presentarsi nel coglimento della verità Pareyson riconosce all’ermeneutica il grande merito di aver saputo tenere insieme storia e verità, senza glorificare l’una a detrimento dell’altra e senza ridurre l’una all’altra. L’ermeneutica pareysoniana, tenendo insieme la scaturigine infinita della verità e le molteplici formulazioni che possono essere a tal riguardo espresse, riesce a sfuggire all’indifferentismo storico, che sostiene che tutto nella storia è espressione del tempo e quindi abolisce la differenza tra verità ed errore. Affermando che la verità non è figlia del tempo, come vorrebbe un certo storicismo ma è, vichianamente, madre del tempo, Pareyson riesce a conciliare i veri storici senza però prescindere dall’affermazione della verità o della falsità. Se la verità si rivela appellandoci e chiedendo di deciderci per essa, dal momento che il possesso di un infinito prevede che la persona continui a ricercare e verificare quanto ha trovato, è per Pareyson impossibile parlare di neutralità del sapere: “conoscere e possedere la verità non è possibile senza impegnarsi, senza prendere partito, senza esporsi personalmente […]”17. In tal senso non è possibile far astrazione rispetto alla prospettiva che a noi s’è dischiusa: possiamo comprendere noi stessi e le altre prospettive solo a partire dalla nostra, motivo per cui chi è filosofo comprende le filosofie e solo chi professa una certa religione può comprenderne un’altra. Ciò è evidentemente espresso in modo contrario rispetto a quel luogo comune secondo cui solo lo storico, dotato di una procedura metodologica per così dire “asettica” e del tutto spersonalizzante, può riuscire a capire la realtà, poiché non le si frappone con il proprio bagaglio di verità: per Pareyson ciò è assurdo, dal momento che operare in tal modo significa in ultima analisi “disinteressarsi della verità”18. Comunicare la propria interpretazione della verità è possibile, dice Pareyson, solo mediante una congenialità, o affinità elettiva, che s’instaurerebbe solo dopo essersi espressi: in altri termini, non esiste una ragione oggettiva a cui far riferimento a priori, né un orizzonte condiviso, che può porsi invece in essere solamente dopo essersi pronunciati per una certa visione del mondo. Ogni interpretazione, lungi dall’essere un esercizio concettuale astratto o fine a se stesso, è invece dotata di una grande forza innovatrice e trasformatrice, dal momento che è prospettiva sull’essere, nonché rivelazione della verità e in ragione di ciò ha molto più potere di qualunque prassismo o attivismo: come Pareyson scrive, “l’interpretazione è contemplativa […] nel senso efficace della rivelazione della verità, ch’è la fonte stessa di rinnovamento e il principio d’ogni valida trasformazione”19.
Palesamento e latenza, implicito e sottinteso: la proposta di un’ermeneutica quale filosofia dell’implicito.
Ancora a proposito dell’interpretazione Pareyson dice che essa non si darebbe se la verità fosse o tutta nascosta o, al contrario, tutta palese: nell’uno e nell’altro caso, infatti, la verità o non si potrebbe dire e quindi, come fanno i teologi negativi, si procederebbe all’elogio del nulla e si aprirebbe la via “al più sfrenato arbitrio dei simboli”20 oppure ci si instraderebbe lungo la via della glorificazione dell’evidenza, che però non è verità, ma un dire che in definitiva non dice nulla, poiché permane a livello della fattualità, non spingendosi oltre e non rivelando alcunché di vero. Ci sarebbe dunque o “la profondità senza evidenza”21 o al contrario “l’evidenza senza profondità”22, che sono entrambe forme degenerate di interpretazione. Palesamento e latenza possono essere tenute insieme dalla pratica ermeneutica a condizione che permanga, tra essi, un legame ontologico, che rimandi cioè all’inesauribilità del vero e che comporti una differenza tra implicito e sottinteso: il sottinteso è ciò che è destinato a sparire in un’enunciazione completa della verità mentre l’implicito rimanda all’ulteriorità della verità, è ciò che è presente nell’interpretazione ma che, al contempo, rimanda sempre ad altro. Ciò giustifica la chiusa del saggio, in cui l’autore afferma risolutamente che un’ermeneutica che voglia dirsi tale non può che presentarsi quale filosofia dell’implicito che mediante tentativi continui apre un processo che porta a un possesso mai sicuro, né definitivo, di una verità che si può accogliere sempre come un “cercare ancora”23.
Considerazioni finali.
Mediante il percorso proposto Pareyson giunge a fondare i caratteri fondamentali di un’ermeneutica che, a livello teorico, abbia come riferimento fondamentale essere e persona, storia e verità in modo da presentarsi quale strumento adeguato all’accesso di un infinito che nella verità rivela incessantemente la sua presenza.
1 L. Pareyson, “Verità e interpretazione”, Mursia, Milano, 1971, pag. 53.
2 Ivi.
3 L. Pareyson, “Verità e interpretazione”, Mursia, Milano, 1971, pag. 53.
4 L. Pareyson, “Verità e interpretazione”, Mursia, Milano, 1971, pag. 54.
5 L. Pareyson, “Verità e interpretazione”, Mursia, Milano, 1971, pag. 55.
6 L. Pareyson, “Verità e interpretazione”, Mursia, Milano, 1971, pag. 56.
7 L. Pareyson, “Verità e interpretazione”, Mursia, Milano, 1971, pag. 57.
8 L. Pareyson, “Verità e interpretazione”, Mursia, Milano, 1971, pag. 59-60.
9 L. Pareyson, “Verità e interpretazione”, Mursia, Milano, 1971, pag. 73.
10 Ivi.
11 L. Pareyson, “Verità e interpretazione”, Mursia, Milano, 1971, pag. 74.
12 L. Pareyson, “Verità e interpretazione”, Mursia, Milano, 1971, pag. 77.
13 L. Pareyson, “Verità e interpretazione”, Mursia, Milano, 1971, pag. 81.
14 L. Pareyson, “Verità e interpretazione”, Mursia, Milano, 1971, pag. 84.
15 Ivi.
16 L. Pareyson, “Verità e interpretazione”, Mursia, Milano, 1971, pag. 85.
17 L. Pareyson, “Verità e interpretazione”, Mursia, Milano, 1971, pag. 86.
18 L. Pareyson, “Verità e interpretazione”, Mursia, Milano, 1971, pag. 87.
19 L. Pareyson, “Verità e interpretazione”, Mursia, Milano, 1971, pag. 87-88.
20 L. Pareyson, “Verità e interpretazione”, Mursia, Milano, 1971, pag. 88.
21 L. Pareyson, “Verità e interpretazione”, Mursia, Milano, 1971, pag. 89.
22 Ivi.
23 L. Pareyson, “Verità e interpretazione”, Mursia, Milano, 1971, pag. 90.
Aggiunto il 04/08/2017 16:53 da Davide Orlandi
Argomento: Ermeneutica filosofica
Autore: Davide Orlandi
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