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Nietzsche: il crollo delle sicurezze.

1.  Critica irrequieta, spostamento di piani e di superfici: le opere di Friedrich Nietzsche costituiscono, senza alcun dubbio, dei punti di non ritorno della tradizione filosofica. Ancor prima della psicoanalisi, della scienza contemporanea o, ancora, dei grandi pensatori dell'intero novecento, il pensiero nietzscheano ha ridotto all'osso i discorsi concernenti l'umano e le sue costruzioni. Ed è proprio la sua capacità di ridurre all'osso, se non sbaglio, a far di Nietzsche un nostro contemporaneo. Probabilmente si deve al pensatore tedesco l'averci fatto comprendere come l'umano, in fondo, viva all'interno di strutture relative/prospettiche/finzionali o, meglio, all'interno di costruzioni storiche che, con il passare del tempo, si sono imposte come le uniche visuali da cui guardare le realtà.

Visuali e scorci prospettici che imbrigliano il fare, il parlare umano all'interno di specifiche coordinate che, iterandosi, divengono il vero, il normale, andando ad offuscare il circostante non considerato, precludendo nuove e diverse prospettive. Nietzsche appare, allora, il pensatore dell'a-normale, dell'a-convenzionale, colui che ha inaugurato quel fare-filosofia nomade che, sfidando le grandi ideologie e costruzioni, ha aperto nuovi e impervi varchi interpretativi.

 

2.  Nel 1859 uscì “L'origine delle specie” di Charles Darwin, opera di biologia che decretò una volta per tutte la separazione dell'umano dal divino e l'unione dell'umano al mondo animale, essa riportò l'umano con i piedi per terra e costrinse quest'ultimo ad interrogarsi seriamente sulle sue origini, non più così tanto chiare. Se, allora, l'umano non è stato creato da Dio e se non è stato quest'ultimo ad infordergli la sapienza, se non è stato Dio a decretare ciò che è bene e ciò che è male, chi è l'artefice di tutto questo? E perchè, allora, le cose sono come sono? Queste sono solo alcune delle domande che, dal 1859 in poi, iniziarono a fare il loro ritorno e che daranno modo alla tradizione filosofica, e non solo, di riniziare ad interrogarsi.

Da quest'angolo visuale Nietzsche fu rapido a raccogliere la sfida e, senza alcun timore di abbandonare i porti sicuri di una ragione ancora affezzionata a verità assolute, si lanciò alla scoperta del nuovo: nessun a-priori, nessun dirottamento discorsivo per tornare a far quadrare le cose. L'ignoto e nient'altro. Nietzsche, recependo il dato darwiniano, definì l'umano una “scimmia orgogliosa”(1984, p.148) che ha vissuto e che vive all'interno di una natura non permanente, lontana dal sacro e “sperperatrice senza misura, indifferente senza misura, priva di fini e di riguardi, senza pietà e giustizia, feconda e sterile e contemporaneamente insicura”(ivi, p.44) in cui, per abitare, la scimmia che siamo, ha dovuto combattere, lavorare, affinchè lo spazio impervio della natura diventasse più ospitale, più consono all'aspettative di vita che, man mano, l'umano ha agognato di avere.

Visuale interpretativa che de-centrizza il soggetto con la S maiuscola: l'asse terrestre del pianeta Uomo non è spostato, è distrutto. Non più emanazione divina ma, al contrario, fatica dolorosa che l'umano ha dovuto sopportare per raggiungere gli scopi prefissati, lento e doloroso progresso in vista di un surplus d'esistenza, storie di lotte e sconfitte: “la storia umana è solo la continuazione della storia degli animali e delle piante” e, allora, si può constare semplicemente come il sapere dell'umano “non porta a compimento la natura” ma, piuttosto, “terra e cielo indietreggiano nell'incerto”(1993, p.373, I) difronte al “sovrano divenire della fluidità di tutti i concetti, tipi e specie, della mancanza di ogni differenza cardinale tra l'uomo e l'animale”(ivi, p.376). 

È questo il prodotto delle discipline scientifiche che causano “il terremoto delle idee” e che “toglie all'uomo il fondamento di tutta la sua sicurezza e serenità, la fede in ciò che è costante ed eterno”(ivi, p.382), che manda in frantumi il concetto stesso di naturale e, ad esso collegato, quello di artificiale in quanto, se si assume che l'umano non ha possibilità di abitare l'esistere se non lo crea trasformandolo e ri-trasformandolo, alterando continuamente l'ambiente circostante, creando, allora, continuamente ambienti artificiali è facile giungere alla co-appartenenza di questi due concetti, alla perdita dell'inizio, non naturale, non artificiale ma, al contrario, costantemente alter-ato, sempre altro da ciò che fu all'inizio, sempre un passo in meno rispetto all'inizio. Se tutto è un divenire fluido e incostante, allora, anche la soggettività umana elevata a principio universale è deflagrata, essa, come ogni altro concetto, non fornisce più un punto fermo per delineare una prospettiva suscettibile di spiegare ogni cosa.

Se Darwin ha azionato il processo di storicizzazione del concetto di Uomo riportandolo, così, alla sua terra e mostrando come anch'egli abbia una storia naturale, con Nietzsche, assistiamo ad un radicale cavopolgimento dell'intera struttura concettuale Umana. La cosiddetta trasvalutazione dei valori nietzschiana provoca la messa in mora di tutte le concezioni tradizionali che l'umano aveva faticosamente costruito: una volta che il pensiero critico arriva ad intaccare il valore, l'universo umano non può non andare incontro ad una ri-significazione completa. Anche questo capovolgimento è partito dalla messa in discussione degli a-priori metafisici consegnatici dalla nostra tradizione e quelli che Niezsche, per primi, intacca sono “l'invenzione platonica dello spirito puro e del bene in sé”, in quanto, “parlare dello spirito e del bene, come ha fatto Platone, significa capovolgere la verità e negare il carattere prospettico, la condizione fondamentale di ogni vita”(1984, p.38). Ed è proprio il carattere prospettico e limitato delle concezioni umane che porterà Niezsche a comprendere come il bene/giusto in sé e, ad esso rilegato, “il mondo intelligibile [la trascendenza delle idee umane] non esiste”(2019, p.87) in quanto, l'affermare o meno il bene di un'azione non dipende dall'aderire ad una idealità che trascenda il soggetto ma, al contrario, al suo reiterare e consolidare azioni a seconda della loro utilità: “l'utilità dell'azione non egoistica deve costituire l'origine della sua lode […] questa utilità è stata piuttosto in ogni tempo l'esperienza quotidiana, qualche cosa, dunque che venne sempre di nuovo continuamente sottolineata”(2021, p.16).

Reiterazione continua, quindi, di specifiche azioni atte al consolidamento di particolari esigenze che lasciano intravedere come, in fondo, concetti come morale/immorale, giusto/sbagliato siano “stati inventati da un bisogno impellente”(2019, p.244), primo e ultimo bisogno dell'umano: quello della sopravvivenza. È a partire da queste considerazioni che l'idea tradizionale di morale, da virtù innata e da strada privilegiata per raggiungere il divino, diventa morale storicizzata e, quindi, si può affermare che “non esistono fenomeni morali, ma solo un'interpretazione morale dei fenomeni”(1984, p.99). Ma Nietzsche non si arresta a questo primo risultato e una volta compresa la chiave di volta per la messa in questione completa delle idee, intuisce che “anche dietro ogni logica e l'apparente dispotismo dei suoi movimenti” si celino “giudizi di valore”, “esigenze fisiologiche per il mantenimento di un determinato tipo di vita”; l'umano, detto altrimenti, per sopravvivere ha avuto bisogno di fissare l'idea che “il determinato abbia più valore dell'indeterminato, che l'apparenza abbia meno valore della 'verità'” ma, ormai, si comprende che “tali valutazioni, pur con tutta l'importanza normativa che hanno per noi, potrebbero essere tuttavia soltanto valutazioni pregiudiziali”(ivi, p.41). È sempre la continua reiterazione di specifiche azioni che fissano “ciò che in seguito dovrà essere la 'verità'; in altre parole, viene scoperta una designazione delle cose uniformemente valida e vincolante, e la legislazione del linguaggio fornisce altresì le prime leggi della verità”(2022, p.229). 

 

3.  Appare quanto mai palpabile che le concezioni, i giudizi, i concetti, di cui l'umano si serve per descrivere e vivere nello spazio-realtà, “debbono essere creduti veri allo scopo di conservare gli esseri della nostra specie; per cui naturalmente potrebbero essere anche falsi giudizi!”(1984, p.48). In queste analisi ad apparire prospettico è tutto il complesso delle creazioni umane, a partire dalla creazione umana per antonomasia: il linguaggio. Il suo significato e la realtà che trasmette è “un riflesso parziale e del tutto imperfetto, un segno allusivo, sulla cui comprensione ci si deve accordare”(2022, p.71); le parole, quindi, sono soltanto “simboli per designare le relazioni reciproche fra le cose e le relazioni delle cose con noi, e non toccano mai la verità assoluta”(ivi, p.171). Qui la critica di Nietzsche appare irrefrenabile e ci immette all'interno di una prospettiva che, a distanza di un secolo e più, continua a dare i suoi frutti: “in quanto l'uomo ha creduto, per lungo tempo, ai concetti e ai nomi delle cose come ad aeternae veritates, ha acquisito quell'orgoglio con il quale si è elevato al di sopra della bestia. […] soltanto ora agli uomini comincia a balenare l'idea di aver propagato, con la loro fede nel linguaggio, un errore mostruoso. […] anche la logica si basa su premesse che non trovano corrispondenza alcuna nel mondo reale, ad esempio sulla premessa dell'uguaglianza delle cose, dell'identità della stessa cosa in momenti diversi” (1993, p.525, II).

Si capisce, allora, come ciò che chiamiamo realtà o esperienza, non è qualcosa di immutabile già riempito di tutti i contenuti ma, sembra essere qualcosa di “divenuto a poco a poco, anzi sia ancora in divenire, e non debba esser considerato come una grandezza fissa, dalla quale si possa trarre, o anche solo respingere, una conclusione sul suo autore (la ragion sufficiente). Proprio per il fatto che noi, da millenni, abbiamo guardato nel mondo con pretese morali, estetiche, religiose, con cieca attrazione, passione e timore, e ci siamo lasciati andare agli eccessi del pensiero non logico, questo mondo è diventato a poco a poco così stupendamente variopinto, terribile, profondo di significato e pieno di anima, ha insomma acquistato colore – ma a colorarlo siamo stati noi: l'intelletto umano ha fatto comparire il fenomeno e ha trasposto nelle cose le sue erronee concezioni fondamentali” (ivi, p.528). 

Insomma, “siamo stati noi a creare la 'cosa identica', il soggetto, il predicato, l'azione, l'oggetto, la sostanza, la forma, dopo esserci per lunghissimo tempo esercitati a rendere uguali, a rendere grossolane e semplici le cose. Il mondo ci appare logico perchè noi prima lo abbiamo logicizzato”(2001, p.288). E la verità, in questo contesto, non può che dileguarsi come ombra al buio, essa, ormai, non appare più essere il concetto lusinghiero da affibbiare ad ogni ricerca cui il pensiero umano mira ma, semmai, appare divenire “un mobile esercito di metafore, metonimie, antropomorfismi, in breve una somma di relazioni umane che sono state trasferite e abbellite, e che dopo un lungo uso sembrano a un popolo solide, canoniche e vincolanti: le verità sono illusioni di cui si è dimenticata la natura illusoria, sono metafore che si sono logorate”(2022, p.233). A questi colpi di martello nemmeno la scienza esatta potè sottrarsi, infatti, a partire dalla fine del 800' si iniziarono a mettere in discussione anche le branche della matematica e della fisica tradizionali e anche in questo Nietzsche funge da interprete esemplare: “Oggi cinque o sei cervelli cominciano a rendersi conto che anche la fisica è soltanto un'interpretazione e una sistematizzazione del mondo e non una spiegazione del mondo”(1984, p.49).

I concetti di “causa ed effetto”, essenziali per lo studio fisico dei fenomeni, appaiono essere, anch'essi, “finzioni convenzionali che hanno come scopo la definizione, la connotazione”, e “non la spiegazione” dei fenomeni naturali. In essi non ci sono “legami causali, necessità, illibertà psicologiche”, in natura “l'effetto non segue alla causa e non domina nessuna legge”. Ancora una volta siamo stati esclusivamente “noi che abbiamo immaginato le cause, la successione, la reciprocità, la relatività, la costrizione, il numero, la legge, la libertà, il motivo, lo scopo;”. A tal proposito Nietzsche, giustamente, ammonisce che, una volta appresa questa consapevolezza, se continuassimo ad innestare “nelle cose questo mondo di segni come se esistessero 'in sé', allora” continueremmo ad operare “ancora una volta come abbiamo sempre operato, vale a dire facciamo della mitologia”(ivi, p.56).

Nietzsche oltre a prelevare e interpretare questi risultati epistemologici dalle stesse branche della scienza, li coglie attraverso un attenta lettura e comprensione di quegli autori che cadono sotto l'etichetta di Scuola Storica e che portarono alla luce, attraverso la forza del senso storico, che “l'uomo si è fatto, che anche la capacità di conoscere si è fatta. […] tutto si è fatto: non esistono fatti eterni, come non esistono verità assolute”; tutto, nel mondo umano che è mondo storico, è in movimento, ragion per cui, ad essere necessario, d'ora in avanti, sarà “il filosofare storico e, con esso, la virtù della modestia”(1993, p.522, II), la quale porterà Nietzsche, a concludere, inevitabilmente che: “siamo ignoti a noi medesimi, noi uomini della conoscenza, noi stessi a noi stessi”(2021, p.3). 

 

4.  Se, allora, il mondo umano altro non è che esistenza storica, appare quanto mai chiaro come, in realtà, “non esista alcun 'essere', al di sotto del fare, dell'agire, del divenire”(ivi, p. 34); resta da confessare, quindi, che l'umano “sulla terra non può sentirsi altro che un viandante, anche se non un viaggiatore diretto verso un'ultima meta, che non c'è. Ma egli ben vuole guardare, e tener gli occhi aperti su tutto quel che veramente accade nel mondo; per questo non gli è consentito unire troppo strettamente il suo cuore a nessuna cosa particolare; dev'esserci in lui stesso qualcosa di nomade, che gioisca del mutamento e della provvisorietà”(1993, p. 701, II). 

I pilastri dell'apocalisse: nomadismo, mutamento e provvisorietà. La distruzione della Ragione, del Soggetto e della Sicurezza. Da discorsi e prospettive marmoree si è passati a discorsi e pratiche sdruccievoli; visualizzare in questo modo i fenomeni e le pratiche esistenziali induce, ancora una volta, a ripensare il passato e il presente, induce a quel lavorio instancabile del pensiero critico che vuole ripensare se stesso per darsi nuove forme, per trovare diverse verità senza aver timore di scoprire che, probabilmente, ciò che si troverà non combacerà con quello che inizialmente ci si aspettava. Si scoprirà, in questo modo, che il senso/valore/significato delle cose spetta solo a noi deciderlo. 

E qui la domanda, probabilmente non troppo felice: chi siamo e chi vorremmo essere, in questo momento, noi?

 

Bibliografia:

F. Nietzsche, Al di là del bene e del male, Newton Compton, Roma, 1984.

F. Nietzsche, Sull'utilità e il danno della storia per la vita. Considerazioni inattuali II, in, Opere 1870/1881, Newton Compton, Roma, 1993. (I)

F. Nietzsche, Umano, troppo umano. Un libro per spiriti liberi. Volume Primo, in, Opere 1870/1881, Newton Compton, Roma, 1993. (II)

F. Nietzsche, La volontà di potenza, Bompiani, Firenze, 2001.

F. Nietzsche, Ecce Homo. Come si diventa ciò che si è, Adelphi, Milano, 2019.

F. Nietzsche, Genealogia della morale. Uno scritto polemico, Adelphi, Milano, 2021.

F. Nietzsche, La filosofia nell'epoca tragica dei greci. E scritti 1870-1873, Adelphi, Milano, 2022.




Aggiunto il 16/06/2025 00:21 da Matteo Spagnuolo

Argomento: Filosofia del novecento

Autore: Matteo Spagnuolo



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