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Nel venticinquesimo anniversario della "Fides et ratio"

Venticinque anni fa, esattamente il 14 settembre 1998, il papa Giovanni Paolo II, oggi santo, promulgava una lettera enciclica, Fides et ratio, la cui tematica era abbastanza inusuale per un documento pontificio, la filosofia, seppure osservata dal punto di vista della fede cristiana. Soltanto una volta, in precedenza, un pontefice aveva emanato un documento di pari importanza dedicato a questo tema, quando nel 1879 Leone XIII, con la Aeterni Patris, additava il sistema di san Tommaso d’Aquino come modello nella ricerca filosofica e punto di riferimento costante nel cammino della Chiesa, una dottrina «da far penetrare negli animi», mettendone «in luce lo spessore e l’eccellenza […] a preferenza di tutte le altre»[1]. 

Il rapporto tra fede e ragione è stato un argomento di prim’ordine nella trattazione filosofica per lungo tempo, nell’ambito delle dissertazioni del cristianesimo, ma anche dell’islamismo e dell’ebraismo. E nell’ambito della filosofia cristiana, limitatamente alla quale facciamo riferimento in questo contesto, non è mai stata proposta una mera subordinazione della ragione alla fede, anzi entrambe vengono considerate «come le due ali con le quali lo spirito umano si innalza verso la contemplazione della verità»[2]. Il pioniere dell’incontro costruttivo tra la fede cristiana e il pensiero filosofico fu san Giustino, filosofo greco, il quale dopo la conversione manteneva intatta la sua stima per la filosofia greca, affermando di aver trovato nel cristianesimo il naturale completamento della ricerca speculativa, la più sicura e proficua fra tutte le filosofie[3]. Ben presto i Padri della Chiesa inizieranno a far propri concetti della filosofia per difendere il cristianesimo dagli attacchi di esponenti del mondo culturale e filosofico, utilizzando all’inizio soprattutto il pensiero platonico e neoplatonico. In tal modo si veniva elaborando una prima bozza di teologia cristiana, che si avvaleva dell’apporto filosofico, ma se ne distingueva apertamente per molti aspetti. Il primo grande e coerente ordinamento in cui venivano a confluire le tradizioni filosofiche e teologiche sia greche che latine è quello di Agostino[4]. Con lui la ragione era giunta ai più alti livelli di riflessione e si era pienamente aperta alla trascendenza, spinta sempre più avanti dal desiderio della verità.

Questo desiderio è connaturato all’essere umano, che aspira a rendere sempre più autentica la sua esistenza. Tra le risorse a sua disposizione, nella ricerca di tale obiettivo vi è proprio la filosofia, che nel porre le domande circa il senso della vita ne abbozza la risposta e, pertanto, svolge uno dei compiti più nobili che l’umanità si sia proposta[5]. 

La capacità speculativa, che è propria dell’intelletto umano, porta a elaborare, mediante l’attività filosofica, una forma di pensiero rigoroso e a costruire così, con la coerenza logica delle affermazioni e l’organicità dei contenuti, un sapere sistematico. […] A prescindere dalle correnti di pensiero, esiste un insieme di conoscenze in cui è possibile ravvisare una sorta di patrimonio spirituale dell’umanità. È come si ci trovassimo dinanzi ad una filosofia implicita per cui ciascuno sente di possedere questi principi, anche se in forma generica e non riflessa[6]. 

A questo sapere l’uomo attinge per comprendere meglio se stesso, per migliorarsi, per cercare di scrutare le verità ultime della propria esistenza. Questo processo, afferma il pontefice, scaturisce dalla meraviglia che suscita la contemplazione e il sentirsi parte di un creato, in relazione con i propri simili. È la meraviglia che impedisce all’uomo di cadere nella ripetitività, potremmo dire nella noia e nell’apatia. Senza citarlo, anch’egli come Aristotele, pone il punto di partenza dell’esigenza conoscitiva dell’uomo e dell’urgenza filosofica nella meraviglia[7].

Ragione e fede

Un posto del tutto particolare occupa in questo percorso la filosofia tomista e non poteva essere diversamente, dato quando dicevamo in premessa. Il grande merito dell’Aquinate è stato quello di aver compreso che la natura, che è oggetto dell’indagine filosofica, non si oppone, anzi può essere di aiuto alla comprensione delle questioni di fede, le quali a loro volta sono pienamente ragionevoli. La fede pertanto non teme, ma ricerca essa stessa, il confronto con la ragione e quando quest’ultima accetta i contenuti della fede non ne esce affatto sminuita, poiché anche la fede è «esercizio del pensiero». La sapienza che, come dice il nome stesso, è il fine della filosofia, si può distinguere secondo Tommaso in due forme diverse. In primo luogo la sapienza teologica che indaga Dio alla luce della Rivelazione e dei contenuti propri della fede, poi la sapienza filosofica che è data dalle capacità che l’intelletto possiede per sua natura e con le quali può indagare la realtà, cercando di comprenderne gli aspetti più reconditi. Anche questa sapienza ricerca la verità, quella stessa verità che costituì la passione dell’Aquinate, alla quale egli dedicò tutta la sua vita, attingendo ad entrambe le forme di sapienza. In ogni caso, pur riconoscendo e rivendicando un profondo legame tra la teologia e la filosofia, Tommaso – così come altri autori cristiani – fu anche deciso nel riconoscere l’autonomia di cui la filosofia e la scienza in genere avevano bisogno[8]. 

La conoscenza della fede e quella della ragione, tuttavia, non sono mai in contrasto, anzi sono uniti da un legame che, sottolinea il pontefice, è ben evidenziato già nella Sacra Scrittura. Nei libri sapienziali, in particolare, si mette bene in rilievo come il desiderio della conoscenza sia caratteristica di tutti gli esseri umani, ai quali indistintamente è stata donata l’intelligenza: 

Il mondo e ciò che accade in esso, come pure la storia e le diverse vicende del popolo, sono realtà che vengono guardate, analizzate e giudicate con i mezzi propri della ragione, ma senza che la fede resti estranea a questo processo. Essa non interviene per umiliare l’autonomia della ragione o per ridurne lo spazio di azione, ma solo per far comprendere all’uomo che in questi eventi si rende visibile e agisce il Dio di Israele[9]. 

Lo sguardo di fede e l’introspezione razionale non possono essere disgiunte perché solo collaborando è possibile per l’uomo accedere alla piena conoscenza del mondo e di Dio. Non si deve trascurare la portata di queste asserzioni. Se la piena conoscenza dell’uomo e del mondo hanno bisogno della luce della fede, la conoscenza di Dio non può eludere il percorso della ragione umana, poiché attraverso il creato gli occhi della mente possono arrivare a scorgere Dio (cfr. Rm 1, 20). Se Dio è al di là dei confini naturali e la ragione umana invece è del tutto racchiusa in tali confini, le viene implicitamente riconosciuta un’attitudine eccezionale, superiore agli stessi limiti della natura, in quanto capace di arrivare fino a Dio. Può elevarsi al di sopra delle realtà sensoriali e della vita sensibile: l’uomo possiede l’abilità di elaborare pensieri metafisici e di addentrarsi in questo mondo ampio e affascinante. Dal punto di vista cristiano, però, vi è uno snodo fondamentale in cui il rapporto fede-ragione può rafforzarsi per poi muoversi senza ostacoli verso la libertà oppure può infrangersi e procurare una netta separazione. Questo punto nodale è la sapienza della croce. Il piano salvifico che si realizza in Cristo non può essere ridotto a mera logica umana, ma se la sapienza umana riesce a riconoscere nella propria debolezza il presupposto della sua forza può rintracciare nella sapientia crucis una critica salutare a quanti, confidando solo nella propria ragione, si illudono di possedere la verità. «Il rapporto tra fede e filosofia trova nella predicazione di Cristo crocifisso e risorto lo scoglio contro il quale può naufragare, ma oltre il quale può sfociare nell’oceano sconfinato della verità»[10]. D’altro canto la verità proveniente dalla Rivelazione deve necessariamente essere compresa alla luce della ragione[11].

La sete di verità non si può estirpare dal cuore dell’uomo ed è proprio vero che, come diceva Aristotele, tutti desiderano sapere. Alcune domande fondamentali assillano la mente e la vita dell’uomo da sempre e ognuno porta dentro di sé o una sua possibile risposta – quantomeno un abbozzo – o un’irrequietezza che non riesce a placare. Non tutte le risposte si possono porre sullo stesso piano, così come vi sono diversi ordini di verità, da quelle più evidenti della vita quotidiana, alcune delle quali sono suffragate dalla ricerca scientifica, a quelle filosofiche, frutto dell’abilità speculativa dell’intelletto umano, fino a quelle religiose, anch’esse spesso derivanti dalle riflessioni della filosofia e che offrono le loro risposte alle domande ultime dell’esistenza. Nel corso della sua formazione e della sua vita, l’uomo riceve una serie quasi infinita di informazioni e nozioni che entrano a far parte del suo bagaglio culturale e delle quali è impossibile fare una verifica meticolosa, per cui si può affermare che egli vive in gran parte di «verità credute». L’uomo che cerca costantemente la verità, vive di credenza[12]. La sua ricerca di verità, infatti, non si limita a procurarsi delle verità parziali, come possono essere anche quelle scientifiche, non ambisce a spiegare ogni sua singola conoscenza o decisione. La verità a cui aspira è al di sopra di tutto questo perché deve essere in grado di spiegare il senso della vita. L’esito di tale ricerca si può pertanto avere solo nell’assoluto, ma l’uomo, nei limiti della sua natura, è in grado di valutare e riconoscere una verità del genere. Se il pensiero umano si fonda sul postulato della non-contraddizione, la verità che il pensiero filosofico può indagare deve necessariamente essere unica e non può contrastare con la verità che deriva dalla rivelazione. Intellego ut credam. 

Una “drammatica” separazione

Nella storia della cultura, purtroppo, secondo il pontefice, si è verificato ad un certo punto un «dramma»: l’autonomia di cui godevano filosofia e teologia, ragione e fede, per dedicarsi con profitto ai rispettivi campi, si è gradualmente divaricata fino a diventare netta separazione, una rottura nefasta, causata dal radicarsi di un certo spirito razionalista. Il connubio che nel pensiero patristico e medievale era considerato capace di raggiungere le più alte vette della speculazione si spezza fino al punto da considerare che non ci possa essere più alcun punto di incontro tra i due ambiti. Così per lo meno si esprimono molte delle posizioni filosofiche della modernità, che si sono aperte a forme di umanesimo ateo o che hanno cercato di tradurre i contenuti della stessa fede in strutture razionali, fino ad eliminare ogni richiamo metafisico e talvolta morale. È come se, smarrito il punto magnetico della fede, la bussola della ragione non sapesse più dove puntare il suo ago. Quando, poi, il razionalismo è entrato in crisi si è affermata una nuova forma di pensiero altrettanto deleteria, il nichilismo. La filosofia del nulla ha coerentemente abbandonato ogni pretesa di raggiungere la verità, contribuendo al successo dell’effimero e del disimpegno, in considerazione del fatto che nulla è definitivo ma tutto è transitorio e incerto. E sarebbe del tutto errato pensare, in tale contesto, che di fronte ad un pensiero debole possa rafforzarsi il ruolo della fede; al contrario, senza l’audacia della ragione essa potrebbe rischiare di essere ridotta a mito o superstizione. D’altro canto una fede ferma è necessaria per provocare la ragione ed incitarla a prendere in esame l’essere nella sua radicalità. 

Teologia e filosofia si inseguono continuamente in un rapporto circolare. Se la teologia si fonda sulla Scrittura, questa in quanto parola di Dio – insiste il pontefice – è verità, pertanto anche la ragione filosofica che è in ricerca della verità può risultare di aiuto per una sua piena comprensione. Su questa base, pertanto, anche la ricerca propria della filosofia viene in qualche modo guidata a non deragliare dal percorso della verità autentica, ma soprattutto incitata a sondare settori e percorsi che forse da sola non avrebbe osato affrontare. Questi nuovi orizzonti che si dischiudono lungo il suo cammino valorizzano e impreziosiscono i talenti della filosofia. Molte figure si sono messe in evidenza per essersi giovate delle ricchezze che il pensiero umano può acquisire confrontandosi con «i dati della fede». Dando per scontati i Padri della Chiesa e i grandi Dottori medievali, il testo cita, insieme ad altri – per rimanere nell’epoca più vicina alla nostra – Antonio Rosmini e Jacques Maritain, Edith Stein e Etienne Gilson. 

La filosofia, rispetto alla fede, si può porre in atteggiamenti diversi. Il primo, che corrisponde alla totale indifferenza tra le due realtà, è anche quello che storicamente si è manifestato per primo, nelle prime generazioni di filosofi, quando il cristianesimo non era ancora nato, e che permane tutt’ora in quelle terre che non hanno ricevuto il messaggio del vangelo. La ragione si muove con le proprie forze naturali, inseguendo attraverso di esse la verità. Un secondo atteggiamento è dato dalla filosofia cristiana, che non è la filosofia ufficiale del cristianesimo, poiché la fede non si può ridurre ad una filosofia, ma l’insieme di tutti «gli importanti sviluppi del pensiero filosofico che non si sarebbero realizzati senza l’apporto, diretto o indiretto della fede cristiana»[13]. Nel circolo di una filosofia cristiana la Rivelazione libera la ragione dalla presunzione e le offre alcuni oggetti di indagine che sono del tutto raggiungibili dalla ragione, ma che forse quest’ultima non avrebbe scoperto di sua spontanea iniziativa. Un terzo stadio si ha quando è la stessa teologia a interpellare la filosofia. Fin dalle sue origini la teologia ha chiamato in causa la filosofia, che per ovvi motivi a quei tempi non era cristiana. È stato un incontro del tutto naturale, poiché anche la teologia è un’indagine compiuta dalla ragione critica, che necessita di verificare l’intelligibilità e la verità delle sue attestazioni.

Parlando della filosofia cristiana che si appella alla fede, mediante la quale riesce a purificare la ragione dalle scorie della superbia, il pontefice cita due personalità, Pascal e Kierkegaard, che sono passati attraverso questa purificazione e hanno affrontato con umiltà argomenti e problemi – come l’identità di Dio e il senso della vita – che altrimenti non avrebbero potuto esaminare con la stessa potenza espressiva. Pascal è citato soltanto un’altra volta in tutto il documento, riportando un passo in cui afferma che la fede nasconde realtà sublimi le quali, all’apparenza, si presentano senza alcuna distinzione da quelle ordinarie, come l’Eucaristia che, pur contenendo il corpo di Cristo, si confonde in mezzo al pane comune. 

In dialogo con Pascal

Proprio con il filosofo francese, che ha trattato il tema della fede in rapporto alla ragione, vorremmo, in conclusione, confrontare l’enciclica di Giovanni Paolo II. Pascal, da uomo del XVII secolo, è fortemente attratto dal pensiero scientifico, utile per la conoscenza della natura, ma che ritiene insufficiente per comprendere la realtà interiore dell’essere umano, che rimane oscura e misteriosa all’indagine razionale. Per questo motivo egli ridimensiona l’onnipotenza della ragione di cui Cartesio si faceva banditore nello stesso secolo. All’esprit de géométrie, ossia il ragionamento astratto, il procedimento matematico, Pascal contrappone l’esprit de finesse, lo spirito di finezza, che si avvale dell’esperienza e dell’intuito, nonché della fantasia, in un contatto più diretto con la realtà, per una maggiore comprensione delle questioni umane, sociali, morali. In questi ambiti l’acutezza dello spirito di finezza può molto più della freddezza matematica tipica dello spirito di geometria. La ragione, in sostanza, è uno strumento indispensabile per conoscere il mondo, ma è più affidabile se è capace di riconoscere i suoi limiti. Essa, infatti, è racchiusa tra ciò che la precede – l’evidenza, che non può essere dimostrata perché è il punto di partenza di ogni ragionamento – e ciò che la supera – la complessità totalizzante –, che la ragione indaga, ma non può raggiungere. Nello spazio che non le è consentito scrutare può invece entrare l’introspezione del cuore. 

Il cuore ha le sue ragioni, che la ragione non conosce: lo si osserva in mille cose. Io sostengo che il cuore ama naturalmente l’Essere universale, e naturalmente sé medesimo, secondo che si volge verso di lui o verso di sé; e che s’indurisce contro l’uno o contro l’altro per propria elezione. Voi avete respinto l’uno e conservato l’altro: amate forse voi stessi per ragione? [14].

Il ricorso al cuore non è la rivincita del sentimentalismo o dell’irrazionalità, ma una forma diversa di conoscenza della verità, proprio perché anche il cuore ha le sue ragioni, diverse da quelle della ricerca logico-razionale. Si tratta di una forma di intuizione che permette di giungere ad una conoscenza immediata e diretta delle cose, che la ragione non contempla. Problemi e domande esistenziali – l’identità della persona, il senso della vita – restano insoluti di fronte agli algoritmi della ragione scientifica, ma si possono affrontare ricorrendo a questo intuito intellettuale che trova nel cuore la sua sede. A tali affermazioni pascaliane si può accostare la critica che Giovanni Paolo II opera nei confronti dello scientismo. Quest’ultimo è considerato dal pontefice come una delle linee di pensiero più diffuse nella nostra epoca, ma che nascondono delle insidie per l’attività filosofica, intesa nella sua continuità con quella tradizione che dialoga con la fede per discutere dei grandi temi della vita. Lo scientismo, infatti, non accetta forme di conoscenza diverse da quelle proprie delle scienze positive, giungendo a ritenere prive di senso le affermazioni di carattere metafisico. 

Si deve constatare, purtroppo, che quanto attiene alla domanda circa il senso della vita viene dallo scientismo considerato come appartenente al dominio dell’irrazionale o dell’immaginario. Non meno deludente è l’approccio di questa corrente di pensiero agli altri grandi problemi della filosofia, che, quando non vengono ignorati, sono affrontati con analisi poggianti su analogie superficiali, prive di fondamento razionale. Ciò porta all’impoverimento della riflessione umana, alla quale vengono sottratti quei problemi di fondo che l’animal rationale, fin dagli inizi della sua esistenza sulla terra, costantemente si è posto[15]. 

Le osservazioni sullo scientismo sono di stretta attualità, anche se non è questo il luogo per approfondire l’argomento. Tuttavia il pieno accordo con Pascal va rivisto alla luce di una considerazione. Se per “ragione” intendiamo la ragione scientifica, quella che si riduce ad una ricostruzione della realtà interamente basata sulla scienza, allora le conclusioni di Pascal sono perfettamente in linea con quelle dell’enciclica. Se invece per “ragione” si intende una più generica capacità di scrutare il mondo, possiamo individuare una divergenza. Tutta la riflessione del pontefice è incentrata sull’esaltazione della ragione, come qualità umana indispensabile anche per la ricerca teologica e la comprensione della fede. Il dialogo tra quest’ultima e la ragione risulta del tutto naturale e il loro allontanamento è frutto di un errore prospettico. Per Pascal, invece, la ragione nel campo della fede è inutile, brancica nel buio. A suo avviso l’esistenza di Dio non può essere provata esclusivamente con metodi logico-razionali – come dimostrerebbero secoli di filosofia scolastica – i quali non sarebbero sufficienti a convincere un non credente a convertirsi. Al contrario, la dimostrazione inconfutabile dell’esistenza di Dio non sarebbe un bene, perché eliminerebbe la libertà dell’uomo di credere o non credere. Per questo motivo il filosofo parla di un Deus absconditus, un Dio che si è rivelato nella storia della salvezza, ma che nello stesso tempo  continua a nascondersi, come se giocasse a nascondino: si disvela quel poco che basta a coglierne la presenza velata: non è così celato da poterne negare l’esistenza, ma nemmeno tanto evidente da non poterla negare. La fede dunque è una scelta, un atto della volontà individuale, sorretta – come si diceva – dal cuore, cioè dal sentimento e dall’intuizione. 

Per riavvicinare Pascal alle considerazioni contenute nella Fides et ratio, si potrebbe comunque ribadire che il cuore non corrisponde alla semplice emozione o al mero sentimento, ma si può accostare a quello che in altre epoche, quelle della filosofia greca, era inteso come il noûs, il pensiero noetico (dal greco noèin, “intuire”, “comprendere”), un tipo diverso di ragione che conosce intuitivamente, differente dal ragionamento discorsivo. D’altro canto, pur non essendovi alcun cenno diretto, dall’andamento dell’enciclica riteniamo non sarebbe accettato come plausibile l’argomento pascaliano della scommessa[16]. 

Alla fine, dunque, rimane un quesito, che consta in un’alternativa tra due possibilità. La prima coltiva la convinzione che la ragione sia in grado di elaborare un pensiero filosofico che costituisca un sapere autentico e vero e che si impegni nella ricerca di ciò che dà senso all’agire dell’uomo nel mondo. Tale filosofia può offrire un valido apporto alla fede e ricevere a sua volta spunti e indicazioni[17]. La seconda nega che la fede possa in qualche modo essere introdotta o preparata dalla ragione e la filosofia, per i limiti insiti nella ragione, si trova fortemente limitata nel discutere di Dio, di questioni morali e della condizione esistenziale dell’uomo. Fare filosofia, conseguentemente, consisterebbe in una riflessione sulla sua impotenza, in un beffarsi della filosofia stessa, poiché «nulla è così conforme alla ragione come questa sconfessione della ragione»[18]. Il passaggio alla fede, in questa seconda prospettiva, avviene, pertanto, non attraverso un dialogo ma mediante un “salto” oltre la ragione. La fede non si affianca alla ragione, ma vi si sovrappone, invocata come rimedio per colmare un vuoto, o meglio un abisso, che l’uomo e la sua razionalità non riescono a riempire.

 

NOTE

1] Leone XIII, Lett. enc. Aeterni Patris (4 agosto 1879): ASS 11 (1878-1879), 109. 

2] Giovanni Paolo II, Lett. enc. Fides et ratio (14 settembre 1998): ASS 91 (1999), 5. 

3] Cfr. Giustino, Dialogo con Trifone, 8,1: PG 6, 492.

4] Per un approfondimento su Agostino quale incarnazione e modello della ricerca filosofica, si può vedere S. Rapaccini, Fare filosofia alla luce di Agostino, in «Pensierofilosofico.it», 13 agosto 2019.  

5] Fides et ratio, 3.

6] Ivi, 4.

7] Cfr. Metafisica, 982b.

8] Fides et ratio, 45.

9] Ivi, 16.

10] Ivi, 23.

11] Ivi, 35.

12] Ivi, 31.

13] Ivi, 76.

14] B. Pascal, Pensieri, Città Nuova, Roma 2003, p. 61.

15] Fides et ratio, 88.

16] Secondo Pascal ogni uomo è chiamato a compiere una scelta: credere o non credere in Dio e a vivere di conseguenza. Non essendo possibile addivenire ad una conclusione convincente con l’argomentazione razionale, non resta che compiere la scelta più conveniente, come nel caso di una scommessa, soppesando la posta in gioco e l’entità sia della perdita che della vincita. Pertanto, chi scommette sull’esistenza di Dio se vince, vince tutto (la beatitudine eterna), mentre se perde ha rinunciato solo a dei beni temporanei (i piaceri del mondo). All’opposto, chi scommette contro l’esistenza di Dio se vince ottiene qualcosa di finito, ma se perde è costretto a rinunciare all’infinito. Considerando che la vincita, nel caso Dio esista, è infinitamente superiore alla perdita, conviene scommettere sull’esistenza di Dio.

17] Cfr. Fides et ratio, 81-82.

18] B. Pascal, op. cit., 4 e 272.

 




Aggiunto il 31/12/2023 19:46 da Simone Rapaccini

Argomento: Ermeneutica filosofica

Autore: Simone Rapaccini



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