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Michel Foucault, potere e biopolitica

Nel corso della sua lunga indagine sul potere, Michel Foucault esprime la convinzione che esso non si eserciti esclusivamente nel modo “giuridico-negativo”, cioè nel porre dei limiti ai sudditi o ai suoi sottoposti, ma consista in un rapporto di forza che si avvale di un «gioco di relazioni disuguali e mobili» e che sia profondamente legato a delle forme di sapere che lo caratterizzano.

Quel che fa sì che il potere regga, che lo si accetti, ebbene, è semplicemente che non pesa solo come una potenza che dice no, ma che nei fatti attraversa i corpi, produce delle cose, induce del piacere, forma del sapere, produce discorsi; bisogna considerarlo come una rete produttiva che passa attraverso tutto il corpo sociale1.

Bisogna quindi andare a scandagliare il potere là dove diventa capillare nei suoi meccanismi infinitesimali e cercare di capire come funzionano quei rapporti che ne costituiscono l’essenza. Il suo è un percorso lungo che parte dalla Storia della follia del 1961, per culminare con i corsi al Collège de France, tra gli anni Settanta e Ottanta. 

La nascita della clinica

Il primo caso che Foucault prende in esame in questo itinerario è quello della follia. Il focus della sua ricerca è concentrato sull’età classica, termine con cui intende l’epoca che grosso modo si snoda tra la fine del Rinascimento e la Rivoluzione francese. A quei tempi è un dato assodato che i folli debbano essere rinchiusi in appositi ospizi e curati, essendo individui malati e socialmente pericolosi. La follia come patologia e rischio sociale deve essere esclusa dallo spazio pubblico; ciò appare del tutto naturale come se fosse sempre stato così. In realtà, precisa Foucault, nell’antichità e nel medioevo non si avvertiva nessuna urgenza di escludere e segregare la malattia mentale. La pazzia rappresentava una forma di scherno della ragione, talvolta inquietante, ma apriva uno squarcio sul lato irragionevole del mondo. Nella modernità, dunque, al folle viene attribuito il ruolo del reietto, che nel medioevo era già stato sperimentato, dal lebbroso, allontanato da ogni contesto, internato per il bene della collettività. E così il potere destabilizzante della follia verrà scongiurato con la detenzione negli ospedali. La reclusione clinica della malattia mentale come provvedimento che si attua nell’epoca classica rappresenta una forma di discontinuità con il passato, poiché le iniziative di assistenza che la riguardano assumono i connotati di autentiche misure di ordine pubblico, la follia assume pienamente i contorni di un problema politico. La fondazione dell’Hôpital géneral di Parigi, da parte di Luigi XIV nel 1656, segna in questo senso un punto di svolta, che fa dell’internamento una vera e propria categoria della modernità. Condannati dal diritto, poveri, ammalati, diseredati e, appunto, folli vengono accomunati in una forma di emarginazione dai caratteri omogenei, in quanto rappresentano una minaccia per l’ordine pubblico. La funzione dei luoghi nei quali vengono raccolti non è solo l’assistenza, ma anche la repressione, due preoccupazioni che si sommano nella gestione delle strutture di internamento, ambienti che Foucault definisce con l’epiteto di «terzo stato della repressione», che si va ad aggiungere ai due apparati della giustizia e della polizia. Il fatto che l’intento terapeutico si aggiunga all’esigenza repressiva potrebbe essere valutato come un progresso sociale, che induce a prendersi maggiormente cura delle devianze e delle emarginazioni sociali che rappresentano un rischio per la solidità del corpo sociale, invece è solo un modo molto pratico per far apparire più benevole, occultandole, le pratiche di segregazione. 

Il proposito terapeutico, infatti, nella ricostruzione di Foucault diventerà la chiave di lettura di molteplici circostanze e fatti. Con la recessione economica del Settecento l’attenzione viene posta per la prima volta sulla popolazione in quanto tale, perché, riconosciuta come elemento di forza e di ricchezza per uno Stato, fino al punto di riabilitare alcuni degli internati – ad esempio quei poveri che erano in grado di lavorare – relegando in un cerchio ancora più stretto la follia e ponendola sotto lo sguardo della medicina, come fenomeno specifico di cui indagare le cause individuando una terapia. 

La follia è dunque ridotta ad un “oggetto” che la medicina moderna può ispezionare e sulla quale può agire, valutandola talvolta come una colpa e il sintomo di una decadenza morale. Il malato è continuamente osservato, sottoposto ad analisi, interrogato e non gli rimane altro da fare che riconoscere la propria colpa, rimettersi alle definizioni della ragione e dichiarando di fronte ad essa la sconfitta totale della non-ragione che rappresenta, riconoscendo in pratica di appartenere ad una sorta di società rovesciata. Questa ammissione è la conditio sine qua non del proprio reintegro sociale, Quanti sragionano devono essere curati per tornare a ragionare, ad agire secondo una «sintassi» che sia riconosciuta come valida. La medicina assume l’incarico di ricondurre a normalità quelle devianze che non rientrano propriamente nell’ambito del penale, ma si presentano ugualmente come deterioramenti dell’attitudine morale e sociale degli individui.

L’analisi della malattia prosegue e l’attenzione di Foucault si sposta dalla malattia mentale a quella fisica. Egli ne esamina l’evoluzione a partire dalla metà del secolo XVIII e fino ai primi decenni di quello successivo. Il suo percorso segue il mutamento rapido che è intercorso tra la malattia e il corpo del malato, una trasformazione che ha avuto ripercussioni da un lato nel rapporto tra individuo e istituzioni e dall’altro nell’autocomprensione del soggetto come individuo, dal momento che la sua vita biologica è diventata oggetto di conoscenza o, per la precisione, di una specifica forma di conoscenza. Con la riorganizzazione della clinica moderna l’uomo viene a trovarsi nello stesso tempo “soggetto” e “oggetto” della conoscenza e bisogna quindi capire in che modo l’individuo sia la risultante delle tecnologie della politica applicate ai corpi. Infatti, 

è in quanto la singolarità somatica è diventata, attraverso i meccanismi disciplinari, il supporto della funzione-soggetto che l’individuo è potuto apparire all’interno di un sistema politico. L’individuo si è potuto costituire solo grazie al fatto che la sorveglianza ininterrotta, la scrittura continua, la punizione virtuale hanno inquadrato un corpo in tal modo assoggettato, e ne hanno estratto una psiche. […] Non è dunque pensabile di eliminare le gerarchie, le costrizioni, gli interdetti, per far valere l’individuo, come se l’individuo fosse qualcosa che esiste al di sotto di tutti i rapporti di potere, che a essi preesiste e sul quale tali rapporti graverebbero indebitamente. In realtà, l’individuo è il risultato di qualcosa che è anteriore, e che è rappresentato da questo meccanismo, da tutte quelle procedure che consentono di applicare il potere politico al corpo[2].

Nella seconda metà del secolo XVIII si verifica una rottura epistemologica: la scienza clinica modifica il suo approccio e instituisce un nuovo statuto del paziente e dello studio della sua patologia. Ora i sintomi accusati dal malato sono considerati segnali precisi e rivelatori della malattia e quindi devono essere ascoltati, osservati, riconosciuti e comparati con una tecnica di carattere statistico-matematico. Il luogo in cui tale casistica può essere raccolta, rielaborata e controllata è dunque l’ospedale. Nel passaggio dalla malattia come “specie” al sintomo rivelatore svolge un ruolo determinante il metodo anatomo-patologico e, in particolare, il ricorso all’autopsia. Entrare nel corpo del paziente deceduto permette di arrivare a ciò che non è visibile in un paziente vivo. Lo studio del cadavere permette di ricostruire il funzionamento corretto dei vari organi e quindi di formulare una nuova categoria di “normalità” che era precedentemente assente nella prassi medica. La condizione di normalità sostituisce quella di salute, per cui da questo momento non esiste più l’alternativa tra essere in salute o essere malati, ma si prendono in considerazione una serie di valori che assumeranno il significato di normalità o patologia. Se la malattia consiste nell’allontanarsi dalla normalità, la clinica assume una funzione istituzionale perché deve restituire il paziente ad una condizione di norma. Ne consegue che la medicina viene istituzionalizzata e quindi politicizzata, mentre la società viene medicalizzata[3]. La clinica pone il paziente in rapporto con un ordinamento ufficialmente riconosciuto che ha come punto di riferimento l’ideale della normalità, esattamente come avveniva con l’ospedale psichiatrico. Si chiude così un cerchio che conferma come il rapporto tra normale e patologico costituisca il nucleo attorno al quale si svolge gran parte della riflessione di Foucault sulla natura del potere.

La medicina compie un salto dal singolo al collettivo e la salute pubblica diventa questione istituzionale, un elemento nodale del governo degli esseri umani[4], fino alla medicalizzazione di tutta la società, corredata di una vigilanza generalizzata ad opera dello Stato. La condizione di salute della nazione diventa ad un certo punto molto rilevante per il potere politico, creando una situazione tale per cui la scienza medica si trova ad operare tra capacità tecniche e ideologia politica. Si innalzano nell’immaginario politico due miti: da un lato la formazione di una professione medica nazionalizzata e costituita sul modello di un «clero terapeutico» che si prende cura dei corpi anziché delle anime, dall’altro il mito della scomparsa della malattia dalla società, nel segno della sua «salute originaria»[5] da difendere e ripristinare.

La sorveglianza disciplinare

L’approfondimento del discorso sulla normalizzazione e sulla formazione del sapere nella società disciplinare si allarga poi dalla clinica alla prigione. L’idea di fondo è sempre la stessa, la correzione del disadattato agendo sul carattere da riformare e intervenendo con l’obiettivo della rieducazione, attraverso una pena detentiva di media e lunga durata. Questa modalità penitenziaria sembrerebbe a prima vista un progresso verso la civiltà, se paragonata con atroci scene dei supplizi pubblici dei secoli precedenti. Foucault sottolinea che non vi è niente di umanitario in questo cambiamento di strategia, ma solo un adeguamento ai tempi e alle nuove esigenze del potere, che non è più interessato alla punizione, ma alla correzione del reo. La nascita del penitenziario è finalizzata, dunque, alla risocializzazione del condannato mediante un processo di rieducazione che lo riconduca nei termini della normalità. Il carcere, in effetti, non è altro che un istituto disciplinare, dove la vita è regolata e vigilata nei minimi dettagli, mentre le pene corporali vengono gradualmente eliminate. Elemento essenziale dell’istituzione detentiva è la sorveglianza, con eventuali sanzioni e incentivi, in termini di aumento o diminuzione della pena, a seconda di come il detenuto si adegua alla rieducazione proposta. Tutto il sistema carcerario è allestito come un composito meccanismo che l’autore chiama «dispositivo» e il cui fine è predisporre l’individuo ai ritmi del processo di industrializzazione che si sta diffondendo. E questo è anche il motivo per cui il dispositivo disciplinare, a differenza del supplizio, rispetta il corpo. Il corpo è importante per la produzione e quindi non deve essere distrutto, ma educato a lavorare. La forma più alta del dispositivo disciplinare è quella rende la sorveglianza il più efficace possibile, ma nello stesso tempo minimizza i costi e riduce il ricorso alle sanzioni, mantenendo illesi i corpi. Tale efficienza può essere garantita dal Panopticon, la particolare costruzione di edilizia penitenziaria elaborata da Jeremy Bentham. La sua idea prevede una struttura architettonica circolare lungo la quale sono distribuite le celle, in cui i detenuti risiedono singolarmente, in modo che da una posizione appositamente studiata – una torre centrale dove staziona un osservatore – si possano controllare tutti i reclusi. Si tratta ovviamente di una visibilità unilaterale, nel senso che i detenuti non possono sapere se e quando l’occhio di chi sta ispezionando si posa su di loro. Ciò suggerisce la prudenza di comportarsi bene in ogni momento della giornata, come se in ogni momento fossero controllati, non potendo conoscere quando avverrà realmente. La stessa considerazione vale per il personale carcerario, che deve essere sempre in regola con le proprie mansioni per non essere trovato in difetto, nell’istante in cui lo sguardo della vigilanza si posasse su di loro. Il non sapere se e quando saranno osservati incute nei prigionieri e nelle guardie carcerarie una sensazione di inquietudine ancora maggiore della certezza di essere costantemente ispezionati. Un congegno che Bentham pensava applicabile a molti contesti in cui vi fosse l’esigenza di un controllo amplio ed economico in termini di risorse, come le scuole e – coerentemente con quanto detto nelle pagine precedenti – gli ospedali[6]. Negli ultimi anni della sua vita, Foucault vide l’applicazione dei primi sistemi di videosorveglianza, ad esempio nei luoghi di lavoro, e manifestò la sua contrarietà. Che cosa direbbe oggi, che tale sistema ha raggiunto una dimensione reticolare, da far pensare a George Orwell? Per ironia della sorte, il nostro autore morì proprio nel 1984, l’anno del titolo del romanzo dello scrittore britannico.

Gli aspetti più rilevanti e innovativi della struttura panottica sono principalmente due. Il primo consiste nella dissociazione della doppia e reciproca azione vedere-essere visti, un aspetto che permette di  deindividualizzare il potere, che non è più riconducibile ad una persona o ad un rappresentante, ma si perde in un automatismo impalpabile che copre comunque gli spazi, non si cala dall’alto ma pervade dall’interno, e che agisce sui corpi, perché li spinge ad adattare i propri comportamenti. Il secondo aspetto che giova rilevare nell’innovazione panottica è la sua capacità di introiezione nei soggetti controllati e l’autodisciplina che in genere riesce a indurre nei membri della società. Coloro che sanno di essere sottoposti al controllo si rendono collaboratori dei loro stessi sorveglianti, perché si adeguano e si autocontrollano, diventando sorveglianti di se stessi e collaborando de facto con il potere che cerca di irretirli. Assumendo questa fisionomia, il potere si riveste di una forza proteiforme che agisce nel corpo oltre che sul corpo, con i suoi tentacoli è invisibile e mobile, ma anche seducente e produttivo[7]. 

L’applicazione continua e silenziosa dei dispositivi disciplinari è stata la risposta che la società, fin dal XVIII secolo, ha dato alla necessità di sostituire i grandi meccanismi del terrore, ormai costosi e pericolosi. In questo modo ha realizzato una forma di controllo molto efficace e nello stesso tempo discreta, perché agisce sottotraccia. Con una sorveglianza continua e la prospettiva di una punizione, i corpi vengono espugnati, cioè inquadrati in un modello di performance al quale si devono costantemente adeguare. La disciplina sorveglia e corregge, imbrigliando in questa trama anche i soggetti coinvolti, i quali si sforzeranno per raggiungere questi risultati. Non solo dominio, dunque, ma anche consenso. La disciplina impone una normalizzazione in funzione di un certo obiettivo a cui arrivare, in modo che tutte le persone si adeguino ad esso. Normale è chi sa adeguarsi, anormale chi non ci riesce o, peggio, si rifiuta di farlo. La capacità del dispositivo disciplinare di convogliare il consenso consiste proprio nel fatto che tutti – o la maggior parte – si sforzeranno di conformarsi alla norma proposta. «La disciplina scompone gli individui e i loro gesti in parti minute, li classifica, ne stabilisce le sequenze e le coordinazioni ottimali al fine di ottenere elementi osservabili, modificabili e disposti nella maniera più efficace»[8]. Se la sovranità solitamente non era diretta al controllo dei corpi, il potere disciplinare è sempre indirizzato alla singolarità somatica, al corpo e ai gesti, ai suoi movimenti e alle sue funzioni. Inoltre la disciplina genera un sapere che deriva dall’osservazione costante dei casi, dal controllo che si esercita su di essi e dalla creazione di registri che raccolgono i dati acquisiti. L’ospedale, come si diceva, è il luogo simbolo di questa azione di potere che mette al centro della società la medicina, legittimata dall’approvazione che deriva dalla scienza. Nella società della normalizzazione il potere va ben oltre il campo del giuridico e opera nel segno della produzione di verità, che vengono validate dalla scienza. Se la procedura giuridica viene sostituita o perlomeno affiancata da quella sanitaria, il potere non si muove più nell’alveo del lecito e dell’illecito, ma tra il normale e il patologico; se l’illecito va punito, il patologico va corretto e guarito. Il sapere medico produce un discorso che può insinuarsi al centro della società della normalizzazione proprio perché è suffragato dalla legittimità scientifica. 

Controllare per orientare significa che emerge la tendenza a appurare non tanto ciò che gli individui fanno, ma quello che potrebbero fare. Essi vanno inquadrati e osservati per tutta la loro vita e corretti in tempo, istruiti a rimanere o rientrare nella norma e verificare se fanno progressi in tal senso. La differenza tra l’istituzione penale e quella disciplinare consiste proprio in questa azione in qualche misura preventiva, che controlla, esamina, corregge all’interno di un meccanismo di sapere-potere che necessità di una sempre maggiore individualizzazione. Infatti, l’individuo, precisa Foucault, «è anche una realtà fabbricata da quella tecnologia specifica del potere che è la “disciplina”. Bisogna smettere di descrivere sempre gli effetti del potere in termini negativi: “esclude”, “reprime”, “respinge”, “astrae”, “maschera”, “nasconde”, “censura”. In effetti il potere produce; produce il reale; produce campi di oggetti e rituali e di verità. L’individuo e la conoscenza che possiamo assumerne derivano da questa produzione»[9]. 

Governamentalità e biopolitica

Lo sguardo di Foucault si sposta ora su un campo più vasto, quello dello stato come organo che gestisce i processi bio-sociologici delle masse, segnato dalla “governamentalità”. Con questo termine, spiega l’autore, si intende, principalmente ma non solo, «l’insieme di istituzioni, procedure, analisi e riflessioni, calcoli e tattiche che permettono di esercitare questa forma specifica e assai complessa di potere, che ha nella popolazione il bersaglio principale, nell’economia politica la forma privilegiata di sapere e nei dispositivi di sicurezza lo strumento tecnico essenziale» con la tendenza ad affermare il primato del potere governativo – con i suoi saperi – su tutti gli altri[10]. La governamentalità comporta l’allargamento del governo a meccanismi e apparati che non sono propriamente istituzionali, ma che hanno comunque la capacità di  sollecitare all’obbedienza. Il potere si esplica attraverso una serie di rapporti dominato-dominante che sono preesistenti allo stato. Per arrivare ad esaminare queste trame il potere deve essere isolato, poi sminuzzato «nella sua trama di relazioni e procedure»[11]. Gli studi di Foucault sulla sovranità hanno come scopo quello di «tagliare la testa al re», per dire – in breve – che bisogna mutare la prospettiva dalla quale si osserva il potere. Pertanto, non tutto il potere proviene dallo stato e, in secondo luogo, il potere non è stato istituito per volere di coloro che vi si sottomettono, come nel modello contrattualistico. Ogni uomo, invece, entra in una serie di relazioni con gli altri – e talvolta non può fare a meno di entrarvi – dalle quali si generano rapporti di potere che derivano da lui e a cui egli si adegua: genitore-figlio, insegnante-studente, lavoratore-datore di lavoro.

Il potere sovrano è stato caratterizzato a lungo per la sua specifica caratteristica, o meglio per il suo privilegio, di possedere nelle proprie mani il diritto di vita e di morte. Con il tempo si è venuta a stabilire una sorta di «diritto di replica» da parte dei sudditi. Accettando tale richiesta, il potere sovrano riconosce che il suo diritto non si possa esercitare in modo incondizionato, ma solo quando si trova in una situazione di pericolo. Se ci sono nemici esterni che ne minacciano l’esistenza esso è autorizzato a chiedere ai cittadini di esporre le loro vite – e quindi teoricamente di provocare la loro morte – in difesa dello stato, partecipando ad una eventuale guerra. Il dominio del potere sovrano sulla vita dei sudditi si proclama solo indirettamente, cioè attraverso la morte che è in grado di esigere. «Il diritto che si formula come “di vita e di morte” è nei fatti il diritto di far morire o di lasciar vivere»[12]. Esso può esigere la vita, prelevandola ai sudditi come qualsiasi altra cosa, i beni, il denaro, il lavoro. Potremmo dire che la vita è trattata al pari degli altri beni materiali posseduti dagli esseri umani e in questo senso può essere richiesta dal sovrano, come è tipico del potere appropriarsi delle ricchezze del popolo in alcune forme storiche di società. Ma questo tipo di potere si rivolge prevalentemente al singolo.

Nella modernità «si vede apparire qualcosa che non è più anatomo-politica del corpo umano, ma qualcosa che chiamerei “biopolitica” della specie umana»[13]. Il prelievo non è più l’elemento fondante dell’affermazione del potere, ma viene affiancato da tanti altri che, insieme, hanno lo scopo di organizzare, controllare, ordinare, rafforzare le forze umane che gli sono sottomesse. Soprattutto, come abbiamo visto in precedenza, l’attenzione si pone, a partire dal Settecento, sulla popolazione e il potere politico si concentra sempre di più sugli aspetti demografici – prevenzione di epidemie e igiene pubblica – e su questioni di economia politica – sistemi di coltivazione, produttività. È il modo attraverso il quale il potere si occupa in maniera più diretta della vita, per favorirla e condizionarla e diventa «biopotere», che si concentra su due fronti, il corpo e la specie. 

In questa fase il potere comprende che promuovere e condizionare la vita è più utile che toglierla, anziché uccidere conviene investire energie e risorse nel promuoverla. Disciplinare il corpo e regolare la popolazione sono i due modi attraverso i quali si possono tenere sotto controllo i processi biologici, la nascita e la mortalità, il livello di salute, la longevità[14]. 

Appare evidente il nesso tra biopolitica e capitalismo. La società industriale ha bisogno di controllare e regolamentare la popolazione e i corpi degli individui per avere costantemente a disposizione forza lavoro addestrata ai ritmi di fabbrica e in buona salute, in modo che il sistema non debba mai frenare il suo processo incessante. Per l’utilità del sistema economico, la salute e la malattia assurgono a problemi politici ed economici di primo piano e la medicina diventa una strategia biopolitica, dato che permette di intervenire direttamente sul corpo collettivo. L’incontro tra la medicina e le esigenze dell’ideologia politica porteranno ulteriori sviluppi, secondo Foucault. In particolare dagli anni Settanta del Novecento prende avvio un sistema di protezione della salute che sposta la sua attenzione dalla fase della cura a quella della prevenzione, segnando l’avvio di quella medicalizzazione della società descritta da Foucault[15]. La proposta della prevenzione per evitare l’insorgere di malattie e per mantenere alti gli stili di vita diventa un dovere che promana dallo stato e che i singoli sono invitati ad accogliere con forti pressioni. Il biopotere in questo frangente non solo intende normalizzare, ma anche moralizzare, attribuendo a chi esce dalla normalità il distintivo di pericoloso. Se il termine di paragone è la normalità, considerando che la norma non è la legge, bisogna riconoscere che la biopolitica non interviene più su soggetti giuridici, ma soltanto sulla corporeità, trattando tutti gli uomini come un insieme di esseri viventi che possiedono per natura tratti biologici e patologici simili, per cui si può intervenire su di loro con un’azione collettiva che si avvalga di saperi e tecniche specifiche.

Secondo Roberto Esposito, tale metodo della prevenzione è utilizzato anche per rispondere a problemi di ordine diverso da quello meramente sanitario, soprattutto dopo l’attentato alle Torri gemelle di New York[16]. Il Patriot Act, ad esempio, è una norma che limita alcune libertà e il diritto alla privacy, per prevenire il terrorismo. Anche questa, secondo il filosofo italiano, è una forma di immunizzazione, perché vuole scovare e combattere il nemico prima ancora che si presenti “nell’organismo”, proteggendo le potenziali vittime in anticipo. Tuttavia, sottolinea Esposito, non deve diventare un’ossessione, altrimenti anziché aiutare la vita, rischia di reprimerla. 

 

Note

1] M. Foucault, Dits et écrits, Gallimard, Paris 1994, 4 voll.; trad. it. (parziale) Biopolitica e liberalismo. Detti e scritti su potere ed etica. 1975-1984, Medusa, Milano 2001, p. 179.

2] Id., Le Puvoir psichiatrique, Gallimard-Seuil, Paris 2003; trad. it. Il potere psichiatrico. Corso al Collège de France (1973-74), Feltrinelli, Milano 2004, p. 65.

3] Id., Naissance de la clinique. Une archéologie du regard médical, Press Universitaires de France, Paris 1963; trad. it. Nascita della clinica, Einaudi, Torino 1969, pp. 35 ss. 

4] D. Fassin, Les politiques de la médicalisation, in P. Aïach, D. Delanoë (sous la direction de), L’ére de la médicalisation. Ecce homo sanitas, Anthropos, Paris 1998, p. 7.

5] M. Foucault, Nascita della clinica, cit., pp. 31-37.

6] J. Bentham, Panopticon, Or The Inspection House, London 1790; trad. it. Panocticon ovvero la casa d’ispezione, Anthropos, Paris 1998, pp. 36-37.

7] S. Berni, Arendt e Foucault, in S. Berni, A. Camerano, L’alchimia del potere. La filosofia politica di Hannah Arendt, Mimesis, Sesto San Giovanni 2022, p. 160.

8] G. Vagnarelli, Oltre i confini del politico. Michel Foucault filosofo della politicizzazione, Mimesis, Sesto San Giovanni 2018, p. 53.

9] M. Foucault, Surveiller et punir, Gallimard, Paris 1975; trad. it. Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Einaudi, Torino 1993, pp. 207-208.

10] Id., Securité, territoir, population, Seuil-Gallimard, Paris 2004; trad. it. Sicurezza, territorio, popolazione, Feltrinelli, Milano 2007, p. 88. 

11] S. Luce, Fuori di sé. Poteri e soggettivazioni in Michel Foucault, Mimesis, Sesto San Giovanni 2009, pp. 80-81.

12] M. Foucault, La volonté de savoir, Gallimard, Paris 1976; trad. it. La volontà di sapere, Feltrinelli, Milano 2013, p. 120.

13] Ivi, p. 123.

14] Ibidem.

15] G. Vagnarelli, op. cit., p. 71.

16] Cfr. R. Esposito, Immunitas. Protezione e negazione della vita, Einaudi, Torino 2002.




Aggiunto il 25/11/2024 18:48 da Simone Rapaccini

Argomento: Filosofia politica

Autore: Simone Rapaccini



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