Jacques Maritain si interessa a Machiavelli1 in quanto «padre della moderna scienza politica» e fondatore del “realismo politico” che considera «i mezzi normali di provvedere al bene comune di uno Stato, cioè la giustizia e la moralità politiche», cause principali della «rovina» e del «disastro di questo Stato». Il pessimismo antropologico di Machiavelli ha «accettato, riconosciuto e accolto» l'idea che gli uomini siano «bestie guidate dalla cupidigia e dal timore», trasformando «ciò che gli uomini fanno» in «quello che dovrebbero fare» cioè il «semplice fatto» in «diritto». In base all'imperativo di «abbandonare ciò che si deve fare per ciò che si fa», si è provocata una scissione profonda tra «ciò che si chiama idealismo (a torto confuso con la morale) e ciò che si chiama realismo (a torto confuso con la politica)»: l'etica è stata esautorata «dalla scienza degli atti umani, dalle finalità umane e dall'agire veramente umano», riducendo la politica ad un'“opera artistica”, facente parte del poietikon (fare) anziché del praktikon (agire). Ne è conseguito un vero e proprio “paradosso” antropologico, secondo cui solo un vero «principe», fornito di astuzia volpina e forza leonina, avrebbe potuto «maneggiare e dominare» il «materiale umano» attraverso l'imposizione di valori morali che sarebbero dovuti essere, però, «completamente estirpati dal cervello dell'artista politico»2.
Il principale errore machiavellico che viene rilevato dal filosofo francese è quello di considerare il successo immediato come il supremo criterio per valutare l'efficacia di un processo politico, confondendo la conservazione del potere con la salute di uno Stato. Tale impostazione si è dimostrata assolutamente debole in durata storica e politica: anche ammettendo, infatti, che il successo immediato possa essere stato vantaggioso per un uomo, esso non lo è mai stato nelle medesime modalità per una comunità, tanto che, se le «realizzazioni dei grandi machiavellisti ci sembrano durevoli», è solo perché «la nostra scala di misura della durata è eccessivamente corta di fronte al tempo proprio delle nazioni». I momentanei e apparenti “successi” del male si sono tutti esauriti nel corso del tempo a causa di quello che Maritain definisce, usando una suggestiva metafora, «il fair play di Dio», che ha concesso il tempo a coloro che hanno liberamente scelto l'ingiustizia, di goderne i benefici immediati, per poi far piombare su di essi l’inevitabile disastro finale. I soprusi e gli inganni non sono mai riusciti in politica perchè si sono ritorti contro chi li ha commessi, con modalità che, seppur diverse da situazione a situazione, hanno comunque confermato sempre l'indefettibile logica storica che «distruggere non è riuscire». Per questi motivi, ogni forma di machiavellismo, sia moderato (alla Richelieu e Bismarck che hanno utilizzato mezzi immorali per ottenere il bene pubblico) che assoluto (alla Mussolini e Hitler che hanno fatto del potere personale il loro unico criterio d’azione attraverso ogni forma di male) è stata votata al fallimento3.
Contrariamente alla posizione machiavellica, la riflessione politica maritainiana ritiene che l'autentica prassi politica sia «intrinsecamente morale» e abbia come obiettivo primario il «compimento del bene comune», nella certezza che uno Stato «fedele alla giustizia politica» sia sufficientemente forte «contro la rovina o la distruzione» derivanti dalla brama di «conquista» o di «potere»4. A questo riguardo, Maritain evita qualsiasi forma di ingenuo utopismo, denunciando lucidamente anche il grande rischio di raccogliere «soltanto frutti di amarezza, di dolore e di sconfitta» da un’azione politica che volesse essere «moralmente giusta e allo stesso tempo felice»5. La coscienza morale priva di riferimenti valoriali assoluti e trascendenti, «non basta», infatti, a se stessa, se non è nello stesso tempo una «coscienza religiosa» in grado di sostenere e orientare ogni persona umana «a conquistare la sua definitiva libertà e a raggiungere il suo destino finale». Per superare le insidie del male nella vita dei popoli e delle nazioni, c'è bisogno di una vera «politica cristiana» che non sia «né teocratica, né clericale», quanto piuttosto animata dalla tensione verso il «destino eterno dell'uomo» e la «verità del Vangelo». Solo in questa ottica è possibile equilibrare evangelicamente la prudenza del serpente e la semplicità della colomba, facendo un giusto uso dell'intelligenza e del coraggio nella complessità dell’esperienza umana, senza escludere l'eventualità di intraprendere anche delle «guerre giuste» contro «aggressori iniqui»6.
La riflessione maritainiana sottolinea la contingenza e l'unicità di tutte le civiltà storiche in quanto sottoposte a condizioni fisiche e materiali che ne determinano «le leggi naturali dell'invecchiamento», insieme a quelle morali e spirituali che ne costituiscono la «forza interna e spirituale di vitalità». Conservare ed accrescere la «forza immateriale interna» di «giustizia lungamente vissuta, di amore, di energia morale», significa favorire la “legge di fruttificazione delle azioni umane” inscritta da Dio nella natura delle cose, seguendo il principio provvidenziale per cui «la giustizia e la rettitudine tendono per se stesse alla conservazione degli Stati e a un successo reale a lunga scadenza», mentre «la ingiustizia e il male tendono per se stessi alla distruzione degli Stati e a un fallimento reale a lunga scadenza». Per quanto «le fruttificazioni naturali del bene o del male qualche volta abortiscano», è importante sottolineare come le cause di questi processi non siano mai intrinseche ai valori messi in campo ma sempre legate a fattori esterni che ne impediscono l'effettiva attuazione. Nel momento in cui un'organizzazione politica si dissolve, le opere prodotte da essa, buone o cattive che siano, continuano a portare i loro frutti, secondo «una profonda intersolidarietà di generazione in generazione che unisce insieme i popoli della terra» in «una comune eredità e un comune destino». In tal senso, la Storia non procede a “caso” ma segue una linea di tendenza che coinvolge l'intera umanità verso la realizzazione di una civitas humani generis, destinata ad assumere la forma di «una struttura internazionale dei popoli più organica ed unificata». Grazie ad «un'eredità di strutture ritenute indiscutibili, di costumi stabiliti e di sentimenti comuni profondamente radicati» in tutto il genere umano, è possibile “salvare” la politica dai pervertimenti machiavellici, ottenendo una «saggezza pratica» o «energia fisico-morale» che permetta la realizzazione del bene comune universale.
Il giudizio complessivo che Maritain esprime dunque sul pensiero di Machiavelli e, più in generale, sul machiavellismo politico, è fortemente negativo. La sfida che attende gli uomini del domani è proprio quella di vincere la dissociazione machiavellica tra politica ed etica, attraverso il recupero della dimensione metafisica e spirituale dell'esistenza, senza cedere «alla tentazione di perdere, per amore della vita, la ragione stessa dell'esistenza e del vivere». Tale compito, arduo e sublime allo stesso tempo, «oltrepassa il campo della filosofia morale e dell'esperienza storica», chiamando in causa il «governo divino delle cose create»: esso «procede da un impulso evangelico, lavora contro la corrente della “natura”» egoista dell'uomo ed esige, di conseguenza, «un'ispirazione eroica». Partendo dalla convinzione che «la giustizia di Dio» non possa fallire riguardo al «destino immortale di ogni persona umana», il pensatore francese individua nella Provvidenza divina il criterio assoluto e definitivo in base al quale valutare il corso degli eventi storici. L'azione di Dio, infatti, è «in opera nel tempo e nella storia, ma regna solo in cielo e all'inferno», di modo che se la «giustizia naturale» può anche «fallire, come la natura può fallire nel produrre i suoi frutti fisici», resta sempre comunque la certezza che nulla di ciò che di buono è stato realizzato nel corso del tempo possa mai andare perduto in modo definitivo7.
1Maritain sviluppa la sua analisi del pensiero di Machiavelli nell'articolo La fine del machiavellismo, risalente al gennaio 1942 e pubblicato per la prima volta in inglese nella “Review of politics” (The End of Machiavellianism, in "Review of politics", IV, gennaio 1942, pp. 1-33), successivamente in francese (La fin du machiavélisme, in "Nova et vetera", XVII, aprile-giugno, 1942, pp. 113-145). Cfr. J. Maritain, La fine del machiavellismo, in Per una politica più umana, Morcelliana, Brescia 1979, p. 117. Per la traduzione di questo saggio ci si è attenuti alla traduzione italiana del 1947 (nella rivista "Quaderni di Roma", N. 1, 1947, pp. 19-42 e N. 2, pp. 124-141).
2J. Maritain, La fine del machiavellismo, cit., pp. 117-127.
3Ivi, pp. 132-140; p. 137, n. 9.
4Ivi, pp. 127-139.
5Ivi, pp. 128-129; p. 140.
6Ivi, p. 132; pp. 139-141.
7Ivi, p. 132; pp. 142-155.
Aggiunto il 23/11/2019 11:09 da Paolo Gava
Argomento: Filosofia politica
Autore: Paolo Gava
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