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Lo stato come residuo o come strumento

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Il pensiero neo-liberista professa una forte avversione per lo stato, al quale vorrebbe ritagliare poche funzioni residuali, quali la giustizia e i servizi, e il potere di legiferare sulle materie che restano quando si toglie l’economia. Per decenni i maîtres á penser del liberismo post-capitalistico ci hanno rifilato la nozione incontrovertibile – per la verità,  più simile a una prescrizione che a una legge di natura - che lo stato dovesse abbandonare il presidio della finanza, che la deregulation dei mercati – massicciamente varata nell’era di Reagan e della Thatcher – avrebbe liberato questi di ogni intoppo burocratico e gli avrebbe consentito di dispiegare tutta la loro creatività, la loro razionalità, la loro auto-determinazione.

La meravigliosa macchina finanziaria avrebbe generato le sue stringhe infinite di prodotti, perdendo progressivamente ogni aggancio alla materialità dei processi produttivi, alla consistenza del denaro come strumento di scambio, alla fisicità dei luoghi, degli spazi in cui si produce la ricchezza. I mercati sarebbero diventati ciò che era loro destino divenire: pura astrazione, denaro come valore, valore come prosciugamento di ogni residuo processuale del fare, del costruire, del produrre materiale.

Ciò che non è stato mai detto, mai chiaramente, è che il pendant necessario a questa strategia globale di trasformazione della produzione di valore dovesse essere la trasformazione in merce di ogni cosa, di ogni cosa pensabile ma anche di ogni cosa impensabile, che aspetta solo di essere pensata in quanto merce. Nulla resta fuori dalla portata regolativa e manipolativa del post-capitalismo neo-liberista: tutte le materie – delicate, sensibili, colme di umanità – esigibili come “diritti civili” sono fatte circolare nell’inesausto discorso sulle cose che prepara la loro definitiva consacrazione a merci!

Un esempio: il tema della procreazione assistita, che sembrava dibattersi fra vincoli etici e superstizioni religiose, in realtà doveva solo aspettare che la macchina fagocitasse anch’esso, lo ruminasse nel suo inesorabile apparato digestivo, per poi espellerlo come “possibile”, cioè come possibile merce. E che la procreazione assistita sia velocemente diventata uno dei più lucrosi business sulla piazza nessuno che abbia un minimo di buona fede oggi potrebbe negarlo.

Lo stato doveva garantire l’amministrazione ordinaria della giustizia e del controllo poliziesco. Oltre al residuo della gestione di un welfare sempre più ridotto all’appetibilità del privato. Meno stato, più mercati: questo è stato lo slogan che abbiamo sentito per lustri, spettacolare annunciazione del benessere prossimo venturo!

La verità sta davanti ai nostri sguardi impauriti: non esiste una “razionalità” dei mercati, meno che mai una loro puntuale, esatta corrispondenza a una legge di natura che assegnerebbe ai comportamenti umani (perché tali sono, in definitiva, i mercati!) regolarità, prevedibilità, razionalità. Nell’universo di pensiero (unico) del neo-liberismo in assetto ideologico l’economia si apparenta, in un legame di sangue, con la psicologia.

Lo stato e la sua funzione etica di realizzazione del diritto inalienabile e universale di cittadinanza è divenuto un’agenzia fra le tante dei centri di potere che presiedono al funzionamento della macchina: la sua fiscalità, la sua dimensione legislativa ridotta al rango di continua decretazione d’urgenza, la completa spoliazione del suo compito di garanzia rispetto alle classi sociali più disagiate, la compiuta delega della sua sovranità agli organismi sovranazionali che dirigono le politiche statuali, la distruzione di un patrimonio storico e culturale che aveva reso i paesi europei quanto di più prossimo alla città ideale di Tommaso Moro.

Lo stato come strumento del capitalismo. Il capitalismo di stato. Il capitalismo dello stato.

La compagnia è buona: i media curano la certosina costruzione della soggettività di cittadini asserviti alla logica dilagante della merce, essendo loro stessi assimilati alla nozione di merce; il mondo accademico produce costantemente gli strumenti giustificativi con i quali si afferma che non c’è alternativa; la stessa scienza, in gran parte funzionale alla perpetuazione dell’equazione tecnologia=progresso, contribuisce alla rincorsa da tempo ingaggiata fra un sistema la cui irrazionalità non ha uguali nella storia dell’umanità e la sostenibilità del pianeta.




Aggiunto il 09/03/2015 08:40 da Sandro Vero

Argomento: Filosofia politica

Autore: sandro vero



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