Come Hegel permea in penombra la struttura esistenziale kierkegaardiana
«Grazie tante! Alla mia morte ci sarà parecchio da fare per i docenti. Le infami canaglie! Eppure ciò non servirà a nulla, anche se sarò stampato e ristampato, letto e riletto. I docenti mi convertiranno in un articolo di lucro; mi faranno oggetto del «docere» […]» – S. Kierkegaard, Diario, Fr. 2886
Così, lo stesso Kierkegaard, mostrava grande coscienza, grande consapevolezza (seppure qualcuno possa forse dire a ragione “grande presunzione”), di quanto la sua filosofia potesse essere rivoluzionaria, o quantomeno di quanto essa potesse essere di grande interesse in senso postumo; già presentiva, già gli era chiaro l’eco – a lui non tanto graziosa o gradita, evidentemente – della sua importanza nella Storia della Filosofia. Come evidente, la storia gli ha effettivamente dato ragione – suo malgrado – e ad oggi un purchessia manuale di Storia della Filosofia che si rispetti, riporta – a volte tanto efficientemente quanto sinotticamente, alle volte in modo discutibilmente sintetico – l’impalcatura generale del pensiero kierkegaardiano, poi definito esistenzialista.
Proprio questi stessi manuali, generalmente, propongono una lettura del filosofo decisamente anti-hegeliana: rifiuta la teologizzazione dello Spirito, rinnega il panlogismo e, generalmente, nega la megalomania, la tensione all’universale, che caratterizza fortissimamente l’interezza del sistema dialettico hegeliano. Ed effettivamente, sembra essere proprio così: dando importanza al singolo in quanto singolo, affidando a lui la fiaccola del Vero il cui compito è illuminare una vita di illusioni e menzogne, sembra che Kierkegaard stia completamente rigettando la teoretica hegeliana a favore di una più concreta, singolare ed unicizzante teoria del singolo. Questo è effettivamente tutto molto bello, anche molto sintetico, decisamente appetibile a tutti coloro che considerano il filosofo in questione un piccolo punto infinitesimale in un’orizzontalità filosofica pregna di giganti insormontabili; questo, salvo poi leggere qualche testo e ricredersi immediatamente. Di fatti – specialmente nel testo di cui oggi ci occuperemo, Aut-Aut, la configurazione della riflessione kierkegaardiana circa l’argomento del singolo è completamente imbevuta, traboccante, di un profumo inebriante proveniente da quell’hegelismo che tanto, secondo molti[1], avrebbe aborrito.
E questo è immediatamente manifesto – è spontaneamente scorgibile, direbbe Kierkegaard: la lingua con cui egli si esprime è quella che parla di “spirito”, di “assoluto”, e, generalmente, il lessico è chiaramente d’impostazione hegeliana, soprattutto per quanto concerne il movimento di uscita-da-sé e rientro-in-sé tipico della dialettica triadica. Nello scritto che vi presentiamo, stiamo proponendovi una rilettura completa dell’opera Aut-Aut del filosofo Søren Kierkegaard, una rilettura che faccia rilucere – a Heidegger sarebbe sicuramente piaciuto questo termine – quell’Hegel del quale ne avvertiamo la presenza grazie al suo nascondersi nell’intera produzione kierkegaardiana. L’opera alla quale stiamo introducendovi tratta specificatamente di quella sezione del pensiero kierkegaardiano riguardante lo stadio estetico dapprima, e poi quello etico: pertanto, perlomeno in questo contesto, non ci occuperemo del terzo stadio, quello religioso.
Aut-Aut si presenta come una enorme epistola il cui destinatario è chiaramente un esteta – come viene anche specificato nel corso del testo, ed il mittente rappresenterebbe colui il quale ha deciso di scegliere – utilizzando l’avverbio che lo stesso Kierkegaard usa – seriamente, diventando un uomo bell’e compiuto, un uomo etico. L’uomo etico in questione, attraverso una serie di rimproveri, una sequela di suggerimenti e digressioni su vari argomenti – a dire la verità decisamente eterogenei fra loro, seppure interconnessi da un fil rouge seguibile – mostra all’esteta – ed in modo subliminale al lettore, cosa ci voglia per essere degli uomini davvero compiuti. Pertanto, l’opera è interamente configurata in questo modo: l’etico critica l’esteta per essere indisciplinato nella ricerca di sé e lo rende reo di non essere sé stesso in alcun modo[2]così da mostrarci cosa, viceversa, proponga l’etica; il dramma dell’esteta è che non conosce niente di sé, non sa neanche chi sia davvero. Kierkegaard evidenzia in modo tanto sofisticato quanto tagliente come l’esteta, in realtà, abbia l’illusione della scelta – di fatti, sceglierebbe il piacere – eppure, in verità, la tragedia, la drammaticità di questa illusione, è tutta nel fatto che sia il piacere stesso a scegliere l’esteta nella misura in cui questi viene soggettivizzato dal piacere stesso. Ai riguardi di ciò, si dice che «[…] una scelta estetica non è una scelta. […] La scelta estetica o è completamente spontanea, e perciò non è una scelta, o si perde nella molteplicità».[3]È chiaro quanto dica: la spontaneità della “scelta” estetica è ciò che rende la stessa scelta una non-scelta nella misura in cui non vi sia una vera e seria, disciplinata, riflessione dietro la scelta stessa; ancora, la molteplicità nella quale si perde rappresenterebbe l’impossibilità di auto-determinarsi in quanto io in senso rigoroso.
Viceversa, l’etico viene presentato come colui che «[…] ha lo stato d’animo e lo ha in sé»[4], è lui solo che «ha visto sé stesso, conosce sé stesso, compenetra con la sua coscienza tutta la sua concretezza, non permette a pensieri indefiniti di scorrazzare in lui, a possibilità tentatrici di distrarlo coi loro incanti[…]»[5]. Insomma, in poche parole, lo stadio etico è lo stadio il quale pone realmente il problema della scelta e questo, non venendo rifiutato ma essendo preso in carico seriamente dall’uomo-scegliente, contemporaneamente, una volta risoltosi nella scelta stessa, determina definitamente l’io, rendendolo autocosciente per davvero. Così sinteticamente riportato, il contenuto dell’opera pare tendere verso un chiaro rifiuto dell’hegelismo, verso un chiaro distaccarsi dal paradigma strettamente dialettico insito nell’intera riflessione hegeliana. Le cose, però, a meglio vedere, non stanno propriamente così: seppur sia vero Kierkegaard si esprima come sopra, non è raro imbattersi in periodi dal senso, per come inteso finora, discutibilmente kierkegaardiano. Ad esempio, è emblematico il seguente passo dove si parla dell’assolutizzazione dell’Io, dove questo, meglio, viene addirittura pensato e ritenuto lo stesso Assoluto già parlato (seppure con le dovutissime differenze, si vuole rimarcare la vicinanza terminologica) da Schelling, Fichte, e lo stesso Hegel: «Il mio pensare l’assoluto è l’auto-pensarsi dell’assoluto in me»[6], ancora: «Ma cos’è l’assoluto? Sono io stesso nel mio eterno valore»[7]. Senza volerci inerpicare nella spiegazione o interpretazione di quanto qui volesse l’autore intendere, crediamo sia evidente e sotto gli occhi di tutti, ora, come – sempre, ripetiamo, con le dovute differenze semantiche – la lingua parlata da Kierkegaard, pur nel convinto rifiuto della stragrande maggioranza dell’impostazione hegeliano-idealistica, è quella di Hegel. Speriamo sia ora sdoganato il lessico kierkegaardiano: non si parla solamente di “singolo nella sua concretezza”, di “io in quanto io”, di “scelta” o “angoscia”, “disperazione”; lo sfondo dietro è hegeliano nella misura in cui, inevitabilmente, in primo luogo la sua educazione filosofica è stata originariamente quella, ed in secondo luogo, pur nel rifiuto determinato[8], Kierkegaard sceglie deliberatamente di mantenere il lessico dell’ex-mentore.
Consci di questo, vorremmo ora proporre una nuova divisione dell’opera – con consonante rilettura complessiva – che inglobi in sé quanto abbiamo sinora detto: una rilettura non certo in chiave hegeliana – non si fraintenda l’intento dello scritto come fosse un tentativo di “hegelianizzare” il pensiero di Kierkegaard – ma che tenga comunque conto della grande influenza, a quanto pare negata dalla manualistica generale (negazione effettivamente sostenuta anche dallo stesso Kierkegaard), del filosofo idealista. Seppure, purtroppo, potremmo eufemisticamente dire come già l’opera originale di Aut-Aut sia stata stuprata editorialmente, avendo smembrato questa in due parti (una “Aut-Aut” stessa, una “Diario del Seduttore”), vorremmo separare l’opera – sperando in una ipotetica più felice accondiscendenza dell’autore – in due grandi parti, dal nome decisamente poco confonfondibile: “in-sé” e “per-sé”. Facciamo chiaramente capo ai due momenti chiave dell’idealismo hegeliano: la tesi che si pone e l’antitesi che a questa si oppone. Questi due momenti, forse, non sono immediatamente scorgibili nell’opera kierkegaardiana, eppure, ad una lettura più attenta e scaltra, sono abbastanza evidenti: in un primo momento, il discorso si focalizza interamente nell’in-sé, e, successivamente, in un per-sé. L’in-sé sarebbe, in Kierkegaard, riguardante il porsi in sé dello stadio estetico ed etico, ossia, sarebbe un’analitica estetico-etica, sarebbe l’esporsi del funzionamento più interno di questi stessi stadi. Questo nella misura in cui lo stadio estetico viene mosso al (e dal) piacere, al desiderio, alla malinconia, all’eclissi della memoria ed alla disperazione estetica, e quello etico viene invece caratterizzato dall’angoscia, dalla disperazione, dal dovere, dall’io auto-determinantesi[9]. Kierkegaard, dapprima, conduce una riflessione in-sé dei vari stadi la quale mira a descriverli in loro stessi, senza dover pensare a come si configurino nell’estrinsecazione: gli stadi si pongono ed in-sé vengono concepiti e caratterizzati. Emblematico è come lo stadio estetico non abbia un vero in-sé, seppure goda anch’esso di caratteristiche interne (quelle sopravviste): questo perché, in ogni caso, la tensione estetica non è mai all’interno ma sempre all’esterno. Se la concretizzazione etica è tendente dall’interno ad un esterno che è in virtù della determinazione interna dell’io, quella estetica tende esclusivamente ad un esterno, e muore lì: non v’è alcuna determinazione, ma solo un momento passeggero, un secondo, un istante che sono effimeri, caduchi ed insulsi.[10]
Consequenzialmente, lo stadio estetico è, in-sé, quasi un per-sé: tanto lo è che azzarderei a dire che non siano quasi distinguibili nella confusione disordinata, caotica, che anima lo spirito dell’esteta.La distinzione che risulta essere maggiormente evidente, è invece quella riguardante lo stadio etico: Kierkegaard è come se volesse effettivamente separare la sfera dell’in-sé dell’etico (fondata sul dovere)[11]e quella del per-sé fondantesi sul lavoro[12]: infatti, la determinazione etica non avviene semplicemente scegliendo seriamente, ma avviene, in senso completo e duro, nel determinarsi nel tempo e nel determinarsi socialmente. Avere un lavoro, essere un avvocato o un giurista (l’autore stesso porta questi esempi)[13], o, meglio, sposarsi, è per Kierkegaard il vero senso della determinazione dell’io; eppure, proprio questo sostiene maggiormente la nostra tesi: l’etica, una volta postasi in-sé, si estrinseca da sé introducendosi nel mondo esterno nella forma del lavoro, del ruolo, per poi ritornare in sé portando quell’io che tanto stava ricercando.
Questo movimento decisamente hegeliano dall’interno all’esterno in funzione dell’interno non è mica un vaneggiamento pretestuoso dell’autore del presente contributo, tutt’altro, è lo stesso Kierkegaard che lo suggerisce quando così si esprime, lasciando ben poco spazio ad interpretazioni: «Il suo io (l’io dell’individuo, ndr) si deve piuttosto aprire in tutta la sua concretezza; ma a questa concretezza appartengono anche quei fattori la cui determinazione è di intervenire attivamente nel mondo. Così il suo movimento parte da sé stesso, attraverso il mondo, e ritorna a sé stesso» (ibidem, p.136). Insomma: credo che un commento ulteriore sia pleonastico. Concludendo, crediamo fortissimamente che Kierkegaard debba essere riletto, debba essere posto sotto una nuova luce che maggiormente rispecchi le influenze dell’autore e che sia bisognoso approcciarsi meno dogmaticamente (e superficialmente) al suo pensiero: una luce, quella che desideriamo, che possa rendere onore ad un autore che ha avuto una influenza indicibilmente estesa, avendo ispirato – seppure lui tanto non ne fosse contento – alcuni tratti della filosofia heideggeriana (sempre con le dovute differenze, ripetiamo), e quindi, a riverbero, il successivo esistenzialismo novecentesco, tanto in filosofia quanto, credo, in letteratura.
[1] E lui stesso, come più volte paradossalmente ribadisce.
[2] Questo pur riconoscendogli grande acume ed intelligenza, come può evincersi nel testo a p.28 (S. Kierkegaard, Aut-Aut/Enten-Eller, Mondadori, Milano, 2016) e come sarà a più riprese fatto.
[3] Ivi, p.14
[4] Ivi, p.86
[5] Ivi, p.117
[6] Ivi, p.78
[7] Ivi, p.67
[8] Emblematico e famoso per gli specialisti è, nel Diario, l’esclamazione “io, stupido hegeliano!”, a provare nuovamente come, effettivamente, un certo ribrezzo nei confronti della filosofia hegeliana vi sia stato; eppure, questo sembra essere inconsistente, non totale.
[9] Concetti tutti rigorosamente esposti nell’opera in oggetto.
[10] «Chi vive esteticamente non può dare della sua vita nessuna spiegazione soddisfacente, perché egli vive sempre solo nel momento, e ha una coscienza soltanto relativa e limitata di sé stesso» (S. Kierkegaard, Aut-Aut, Mondadori, Milano, 2016, p.27)
[11] «Il dovere infatti non è una imposizione, ma qualche cosa che è compito per la personalità. […] Chi vive eticamente ha sé stesso come proprio compito» (ivi, p.113, 115)
[12] E qui farei notare come, intuibilmente, la considerazione che Kierkegaard offre del lavoro, soprattutto in alcuni passi (dei quali suggerisco uno presente a p.152 della stessa edizione presa fino ad ora in considerazione), è molto allineata ad una a lui sostanzialmente coeva: quella, lapalissianamente, di Karl Marx.
[13] Cfr. ivi, p.13
Articolo originariamente figurante presso la rivista telematica "Filosofia in Movimento", nella sezione "Formazione e Ricerca"
Aggiunto il 01/12/2021 07:13 da Simone Santamato
Argomento: Filosofia teoretica
Autore: Simone Santamato
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