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L'importanza della scelta nella filosofia di S. Kierkegaard

La rilevanza che Kierkegaard attribuisce alla capacità di scelta è legata alla distinzione tra dimensione autentica e inautentica dell’esistenza. Gli intervalli che separano i tre noti stadi esistenziali (estetico, etico e religioso) della filosofia kierkegaardiana si configurano a partire dalla questione di come compiere le scelte giuste per non fallire la propria vocazione. Ma cosa significa compiere una scelta? E come possiamo essere certi di scegliere bene?

Il primo elemento che Kierkegaard individua nel momento della scelta riguarda la necessità dell'autoconsapevolezza, attraverso una profonda «riflessione su se stessi» da sviluppare in relazione alle situazioni in cui ci si trova coinvolti. Il soggetto che vuole conoscersi in tutta la complessità degli aspetti che lo rendono tale, deve combinare armonicamente «l'io reale», cioè le dimensioni fisiche, psichiche e spirituali che lo caratterizzano, e «l'io ideale» ovvero «l'immagine a somiglianza della quale egli si deve formare». Gli errori che si possono compiere in questo ambito sono molteplici nella loro fenomenologia ma essenzialmente riducibili a tre categorie fondamentali, attinenti rispettivamente a una particolare forma di “misticismo”: quello greco, orientale e cristiano. In tutti e tre i casi, al di là delle trascurabili differenze storico-culturali che li distinguono, vi è la convinzione che la saggezza o “illuminazione” dello spirito umano consista nel ritirarsi dalle attività pratiche per esaminare se stessi, secondo un «agire interiore» che richiede l'abbandono di qualsiasi convivenza sociale «per non ritornarci mai più». Le virtù che vengono così sviluppate sono quelle «del coraggio, del valore, dell'astinenza, della parsimonia», seguendo una condotta di vita “astratta” che identifica la beatitudine in una «solitaria soddisfazione personale»1.

L'individuo mistico sceglie «se stesso in modo assoluto» col proposito di «amare Dio con tutta la sua anima e con tutto il suo pensiero», annullando ogni elemento relativo e finito, senza «tener conto di alcuna relazione colla realtà data». Ciò che per Kierkegaard non è accettabile in questo tipo di esistenza è la «debolezza» con cui «l’anima solo quando è diventata stanca del mondo sceglie Dio», conducendo una «vita solitaria» a cui tutto diventa «estraneo» e «ogni relazione, anche la più tenera e la più sentita», rimane indifferente. Si compie allora il «tradimento verso il mondo» e «verso le persone» che fanno parte dell'esistenza di un soggetto, aprendo un conflitto insanabile tra la dimensione divina e quella umana, per la quale Dio stesso «ha messo l'amore nei nostri cuori». La vita mistica è quindi l'«espressione negativa», cioè inadeguata, della «libertà assoluta» di cui ogni uomo è fornito per attuare la propria individualità, arrivando a perdere la possibilità di raggiungere la felicità.

Intorno a tali questioni si delineano le differenze tra misticismo e religione.

Se ciò che accomuna entrambe le componenti è il proposito di voler amare Dio al di sopra di tutto il resto, l'elemento che, invece, ne segna la distinzione fondamentale riguarda il modo in cui l'uomo si relaziona con la realtà che lo riguarda.

Scegliere se stessi in modo religioso significa accettare l'autentica soggettività di cui si è portatori in tutte le componenti che la contraddistinguono. Solo quando nella scelta «si entra in possesso di se stessi, si ha indossato se stessi, si ha penetrato se stessi, totalmente», cosicché «ogni movimento» della personalità sia «accompagnato dalla coscienza di una responsabilità» nei confronti di sé, degli altri e di Dio, allora è possibile “pentirsi” della propria costitutiva deficienza ontologica «in assoluta continuità con quella realtà alla quale si appartiene». Il mistico cerca di ottenere l'amore divino secondo «un'espressione diversa da quella che Dio vuole» e «si pente, ma si pente fuori di sé, non dentro di sé» cioè «si pente metafisicamente, non eticamente» come dovrebbe fare per virare incontrovertibilmente l'esistenza verso l'Assoluto, senza «sfuggire dalla realtà peccaminosa». Se lo stato d'animo del mistico è il «sentimento della nostalgia» dal momento che «il mondo intero è morto» ed egli è sprofondato «nella contemplazione della divinità», per la spiritualità religiosa «sana e normale» l’estraneità da tutto ciò che è terreno «non dura a lungo» e costituisce solo un «allontanamento momentaneo» che non diminuisce l'«intensità dei suoi rapporti terreni». La vera scelta concreta è quella di «colui che trova la forma positiva» della libertà, rimanendo «contento nella vita ch'egli è stata assegnata» perché sa che «questo rimanervi è l'espressione più certa del suo amore, della sua umiltà»: vivere la propria esistenza «fuori dal mondo», cioè in riferimento alla trascendenza divina, vuol dire allora fare anche sempre «ritorno nel mondo» di cui si fa parte2.

In questo contesto, grande importanza assume il rapporto con la temporalità storica. Se il mistico è determinato «astrattamente, cioè come fanciullo», e «manca di continuità» perché i cambiamenti che lo riguardano generano solo un «movimento» ma non uno «sviluppo», l'uomo religioso, invece, considera la successione degli eventi un «luogo di battaglia» nel quale lo spirito umano è chiamato a dare prova di sé al cospetto dello Spirito infinito. La temporalità non è dunque, come pensa il mistico, un ostacolo nel congiungersi immediatamente a Dio, quanto piuttosto un «dono di grazia» per l'uomo che «può avere una storia», il cui esito finale dipende dalle libere scelte che si compiono: chi sceglie autenticamente, infatti, «si sceglie concretamente, come questo determinato individuo, con queste doti, queste tendenze, queste passioni, questi ardori», all'interno di un «mondo circostante» che lo modella. Prendendo coscienza di ciò che è e può anche essere, il soggetto «assume tutto sotto la sua responsabilità», anche gli aspetti più piccoli e particolari della propria personalità, appropriandosi delle situazioni esistenziali che lo riguardano per viverle come «compito» esistenziale affidatogli dalla provvidenza divina. L'individuo religioso esercita una «sovranità sopra se stesso» che gli permette di vedere «subito il suo compito», rendendosi «immediatamente attivo» senza cadere nella “facile” illusione di credere che la felicità dipenda da «qualcosa che viene dal di fuori» dell'interiorità. Chi vive così è in grado di trovare «sempre una via di scampo» anche dalle situazioni che sembrano essere senza soluzione, garantendosi il «giusto posto nel mondo», nella certezza che, metaforicamente, «il suo ballo, se lo vuole, può essere altrettanto bello, altrettanto grazioso, altrettanto mimico, altrettanto vivace come quello di coloro ai quali fu dato un posto nella storia»3.

Il raggiungimento della maturità religiosa non richiede la distruzione delle dimensioni estetiche ed etiche dell'esistenza, ma solo l'“illuminazione” di esse, facendo sì che il singolo «divenga cosciente di sè tanto radicalmente che nessuna casualità gli sfugga» per “diventare ciò che deve diventare” ovvero se stesso. L'uomo religioso non ha il «dovere al di fuori di sè» ma «nel più profondo dell'anima», riposando con «fiduciosa sicurezza» in Dio, senza tormentarsi con «sofistiche ansietà su questo o su quello»: egli sa «tener fermo l'infinito», impedendo a «pensieri indefiniti di scorazzare in lui» o a «possibilità tentatrici di distrarlo coi loro incanti». Ogni uomo è chiamato a realizzare nella propria vita il modello ideale che Dio ha pensato per lui, nella consapevolezza che «mentre agisce, educa se stesso»: per giungere a questa meta, egli deve «amalgamare ciò che è casuale», apparentemente fortuito o accidentale, con «ciò che è universale» ovvero la legge con cui la provvidenza divina regola il corso degli eventi. Il compito che il “singolo” ha nei propri confronti è, quindi, prima di tutto pedagogico, e «consiste nell'ordinare, educare, temperare, infiammare, reprimere» tutte le componenti che lo caratterizzano così da «raggiungere nell'anima un equilibrio, un'armonia che è frutto delle virtù personali»4.

Contrariamente ad alcune interpretazioni (soprattutto di impostazione esistenzialistica) che hanno ridotto la soggettività umana a una dimensione quasi esclusivamente solipsistica5, Kierkegaard sottolinea l'importanza dell'agire «sociale e civile» dell'individuo: nell'adempimento del proprio dovere, infatti, ogni uomo «si mostra nel suo più alto valore», salvaguardando l'assoluta «differenza tra il bene ed il male» di cui è personalmente responsabile. La pregnanza della dimensione religiosa resta comunque sempre radicalmente soggettiva, come prova il fatto che, per il filosofo danese, rimanga «impossibile per un'altra persona dire cosa sia il mio dovere» mentre «sarà sempre possibile a lui dire quale è il suo»: ciò significa riaffermare con forza che ogni uomo, nella sua irriducibile unicità, è costantemente orientato verso il Bene assoluto dell'Amore infinito di Dio.

La conclusione kierkegaardiana è dunque quella di ancorare l'importanza della scelte umane alla dimensione religiosa, l'«unica via» in grado di fornire «il punto di Archimede dal quale si può sollevare il mondo». Tutte le altre eventuali soluzioni che vogliano fare a meno di vincolare la soggettività alla trascendenza, sono destinate ad un inevitabilmente fallimento, dal momento che «l'individuo, in ultima analisi, non è egli stesso l'assoluto» e solo per mezzo di Gesù Cristo diventa possibile orientarsi saldamente nel difficile percorso della propria esistenza6.



1S. Kierkegaard, Aut-aut, trad. it. di K. M. Guldbrandsen e R. Cantoni, Mondadori, 1977, pp. 118-119; p. 137.

2 Aut-aut, cit., pp. 119-121; p. 126.

3 Secondo Kierkegaard, quasi anticipando in controtendenza alcune intuizioni di Karl Jaspers riguardo al tema del “naufragio” dell'esistenza nell'essere (cfr. Filosofia, vol. III, Metafisica, trad. it. di U. Galimberti, vol. III, parte IV, Utet Torino 1978, pp. 1165-1171), solo l'uomo religioso, rimanendo sempre ancorato a Dio, non fa «naufragio» e, di riflesso, resta saldamente centrato su se stesso pur nella molteplicità mutevole delle circostanze esistenziali. Cfr. Aut-aut, cit., p. 131.

4 Aut-aut, cit., pp. 122-125, 127-137. Con queste riflessioni, Kierkegaard anticipa in qualche modo alcune intuizioni pedagogiche che nel corso del XX secolo verranno riprese dall'attivismo pedagogico sopratutto di matrice cattolica. Cfr. J. Maritain, L'educazione al bivio, a cura di A. Agazzi, La Scuola, Brescia 1963, pp. 63-81.

5 Cfr. J.-P. Sartre, L'universale singolare, da L'universale singolare. Saggi filosofici e politici 1965-1973, trad. it. di M. Gallerani, M. Cantoni, G. Ascenso, F. Fergnani, R. Kikchmayr, Mimesis, Milano 2009, pp. 140-162; K. Jaspers, Ragione ed esistenza, a cura di A. Lamacchia, Marietti, Torino 1971, pp. 42-47.

6 Aut-aut, cit., pp. 137-144.




Aggiunto il 30/01/2020 16:34 da Paolo Gava

Argomento: Filosofia morale

Autore: Paolo Gava



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