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ARTICOLI

Le passioni dell'anima nel pensiero di David Hume



LE PASSIONI DELL’ANIMA NEL PENSIERO

DI DAVID HUME






  1. INTRODUZIONE


Il panorama culturale del ‘700 nel quale David Hume visse e realizzò il suo percorso filosofico fu particolarmente rivoluzionario sia dal punto di vista dei metodi di indagine scientifico-filosofica che dallo scopo vero e proprio della ricerca. Con l’avvento delle rivoluzioni metodologiche del secolo precedente ad opera di pensatori del calibro di Galilei, Descartes e Newton e delle nuove correnti di pensiero illuministe, il sottobosco nel quale venivano a formarsi i giovani filosofi in tutta Europa, non poteva che essere particolarmente fertile e produttivo. Tanto che in pochi anni le nuove idee si svilupparono a tal punto che in alcuni, non rarissimi casi, arrivarono a mettere in crisi tutto il sistema precedentemente accettato. Esempio illuminante di questa nuova generazione di filosofi e pensatori è appunto la figura di David Hume.








    1. VITA E OPERE DI DAVID HUME


Hume nacque ad Edimburgo il 26 aprile dell’anno 1711, figlio di Joseph, avvocato e membro della famiglia dei conti di Home e di Katherine Falconer figlia di David, presidente del Collegio di Giustizia. David Hume una volta conclusi gli studi collegiali venne spinto dal padre verso l’avvocatura, nei confronti della quale nutrì da subito un certo disprezzo fino a sostenere di provare «un’avversione insuperabile per ogni ricerca che non riguardi l’apprendimento della filosofia e di una cultura generale»1.

La sua carriera nell’ambito della giurisprudenza non andò a buon fine e così nell’anno 1734 si recò per la prima volta in Francia, dove rimase per tre anni tra Reims e La Flèche e dove venne alla luce la sua opera più completa, il Treatise of Human Nature, opera che però non riscosse il successo sperato dall’autore.

Di ritorno in Inghilterra pubblicò una prima parte dei suoi Essays Moral and Political ottenendo più successo rispetto al Trattato ma comunque non tale da garantirgli la successione alla cattedra di etica e filosofia di Edimburgo, che venne assegnata nel 1744 a William Cleghorn e a quella di logica a Glasgow. Probabilmente questi mancati approdi all’ambiente accademico furono causati dall’opposizione della casta ecclesiastica a lui sempre contraria per via della fama di ateo e dagli strenui tentativi di estromissione dall’ambiente culturale attuati a suo danno dal suo più grande critico, Thomas Reid. Nell’anno 1748 completò e pubblicò il Philosophical Essays concerning Human Understanding e quattro anni dopo venne assunto dalla Advocates’ Library di Edimburgo come conservatore, impiego che gli permise di poter disporre di un elevato numero di testi inerenti la storia inglese. Del 1754 è la prima pubblicazione della History of England che incontrò la condanna «dei chierici e dei settari, dei liberi pensatori e dei partigiani della religione, dei patrioti e dei cortigiani»2. Il completamento dell’opera avvenne nel 1756 con la seconda e nel 1761 con la terza e ultima parte del testo. Le Four Dissertations, suddivise in: The Natural History of Religion, Of the Passions, Of Tragedy e Of the Standard of Taste; furono pubblicate nel 1757. Particolare di questa pubblicazione fu la doppia sostituzione del quarto scritto che una prima volta avrebbe dovuto riguardare i principi della geometria e della filosofia naturale e che venne messo da parte a causa delle obiezioni dell’amico Lord Stanhope; la seconda volta il tema sarebbe dovuto essere l’immortalità dell’anima e il suicidio ma anche in questo caso venne sostituito per paura delle reazioni del pubblico.

L’impiego come segretario dell’ambasciata di Parigi, dove lo volle Lord Hertford, lo riportò nella sua adorata Francia dove venne accolto coi massimi onori nei migliori salotti intellettuali del paese.

Nel 1766 tornò in Inghilterra pieno d’amarezza per la pessima conclusione del suo rapporto con Rousseau a causa delle manie di persecuzione dell’autore dell’ Emilio. Gli ultimi impieghi in ambito politico gli consentirono di potersi ritirare a Edimburgo ad occuparsi esclusivamente della revisione delle proprie opere giovanili. Le continue accuse di alcuni contemporanei, tra i quali il già citato Reid e Beattie non gli permisero però di abbandonare la scrittura pubblica, tanto da dover aggiungere all’ultima edizione degli Essays and Treatise una premessa, nella quale rimanda l’esposizione dei suoi principi filosofici alle due Enquiries. La vita di David Hume si concluse il 26 agosto dell’anno 1776 ad Edimburgo, sua città natale, dopo aver strenuamente tentato di veder pubblicata la sua ultima opera i Dialogues concerning Natural Religion che nonostante i suoi sforzi verranno rilasciati postumi nel 1779 grazie al nipote.







    1. IL PENSIERO GENERALE


Il pensiero di Hume nasce in un ambito di rinnovamento della scienza e del sapere generale, la stessa concezione che lo scozzese ha della filosofia è frutto della semina effettuata in ambito metodologico da Newton e Descartes tra gli altri. Il tentativo di Hume è quello di realizzare una scienza della natura umana sulla scia, ma discostandosi in vari punti centrali come vedremo successivamente, del metodo Cartesiano. La nuova scienza per il filosofo doveva ottenere la stessa certezza e organizzazione della matematica, considerata quindi vera scienza; finalità ottenibile solamente previo superamento delle due tipologie di filosofia che a suo parere erano state perseguite fino a quel tempo, ossia una filosofia esortativa, consolatoria e banale e un’altra astratta e inservibile empiricamente, frutto delle dispute metafisiche che nel vano tentativo di giungere a conoscere l’inconoscibile, allontanavano inesorabilmente dal possibile sapere umano. Principio guida nel progetto di rinnovamento del pensiero portato avanti da Hume era la regola della semplicità e della generalità presente nei Principia di Isaac Newton, il quale sosteneva che:



«l’analisi consiste nel fare esperimenti e osservazioni e nel derivarne delle conclusioni generali, respingendo le obiezioni che non siano tratte da esperimenti e da altre verità certe. La filosofia sperimentale non deve infatti tener conto delle ipotesi. E sebbene l’indurre dei principi dagli esperimenti e dalle osservazioni non valga a dimostrarli, nondimeno esso è il modo migliore di ragionare permesso dalla natura e si può considerare tanto più saldo quanto più l’induzione è generale»3.





Questo metodo di ragionamento giunge a mettere in discussione anche un punto fermo della filosofia precedente come il principio di causalità che Hume arrivò a rifiutare, sostenendo che il fatto che a un evento ne segua generalmente un altro non può dare la certezza indiscutibile che la concatenazione sia sempre la stessa, al punto da dedurne una legge naturale. Per permettere ciò sarebbe infatti necessaria la costanza delle leggi di natura, fatto per Hume indimostrabile, il che riconduce appunto alla prima regola dei Principia di Newton.

Hume sostenne di aver rintracciato i tre principi generali necessari per la realizzazione di una scienza della natura umana: la priorità delle impressioni sulle idee; la libertà dell’immaginazione, avente una funzione attiva e libera dalle sensazioni, in opposizione alla mancanza di libertà della memoria; associazione delle idee. Riguardo alla priorità delle impressioni si può dire che queste sono una suddivisione delle percezioni, che danno vita anche alle idee e costituiscono tutte le forme possibili della nostra esperienza, in quanto l’impressione è frutto dell’utilizzo dei sensi, mentre l’idea deriva dal pensiero attraverso la memoria e l’immaginazione. Il secondo principio non necessita ulteriori precisazioni, a differenza del terzo, perché le associazioni di idee possono essere di tre tipologie: rassomiglianza, contiguità nel tempo e nello spazio e causa ed effetto che però per Hume è una sorta di attrazione le cui cause ci sono per lo più sconosciute. Caratteristica molto importante di questi tre principi, per il filosofo scozzese, è che la loro individuazione non è conseguenza di cause inconoscibili, come possono essere la Rivelazione, il principio di Autorità o la Tradizione; il che gli permise di allontanarsi dai predecessori che, come nel caso di Descartes, avevano utilizzato questi mezzi per la dimostrazione dell’esistenza del divino e di evitare l’autoreferenzialità dell’Io.

Il tentativo atto da Hume di discostarsi dalle scuole di pensiero precedenti è rintracciabile anche nella sua critica al concetto di credenza, alla questione della sostanza corporea e nel suo scetticismo di nuova matrice. Andando per ordine, la critica alla credenza si ricollega in parte alla querelle sulla legge di causalità, infatti Hume pone il proprio veto sulla validità della credenza sostenendo che non necessariamente le leggi passate hanno anche valore nel futuro e che l’uniformità temporale non è un principio logico sufficientemente dimostrabile.

Nella questione della sostanza corporea Hume tende a dare importanza alla sensazione e alla percezione, definendo la sostanza come un amalgama di qualità particolari, stimoli e percezioni esterne, che l’elaborazione intellettuale trasforma nell’idea dell’oggetto incontrato. La medesima sorte tocca all’Io che viene ridotto al punto tale da non essere più, nel caso fossimo in grado di tacciare tutte le nostre sensazioni.

Per quanto riguarda infine la posizione scettica adottata da Hume è necessario premettere che il filosofo stesso si definiva scettico ma non pirroniano e che il suo scetticismo era frutto di una considerazione della conoscenza come elemento solo probabile, non certo. Nell’esame scettico la ragione si trovava ad essere imputato, giudice e giuria perché veniva messa d’innanzi ai suoi stessi limiti ed esortata a non superarli, pena l’errore. Conseguenza inevitabile di questo percorso scettico non poteva che essere la critica della moralità che essendo una questione pratica, empirica, non poteva essere oggetto della ragione che veniva così esautorata anche dal compito etico, frutto della simpatia.

Riguardo al tema religioso, Hume presentò la sua posizione all’interno dell’opera Natural History of Religion facente parte delle Four Dissertations. Il filosofo scozzese spiega che lo scopo del testo è quello di trovare i fondamenti della religione umana, ponendo l’alba di questa all’interno della concezione politeista della divinità, frutto del percorso immaginativo dell’uomo che, per dare una spiegazione plausibile ed imbrigliare così le forze della natura, le divinizza, mantenendo però un carattere antropomorfo. La religione risulta così sorgere dal timore ineluttabile della morte e dal desiderio di un’ulteriore possibilità o di una qualche sorta di salvezza dopo di essa. Il passo successivo della fede all’interno dell’evoluzione umana è a parere di Hume, quello verso il monoteismo, che si instaura nel momento in cui gli individui giungono ad alienare ad un’unica divinità l’onnipotenza e la totale perfezione. Vi è una differenza insormontabile nel percorso di comprensione della divinità, tra il popolo e i filosofi secondo lo scozzese; i primi giungono alla concezione di Dio tramite i sentimenti e la percezione della propria caducità, mentre i secondi la ottengono attraverso il ragionamento e le riflessioni filosofiche.

Hume rimase comunque sempre in contrasto con la fede monoteista, sostenendo che a differenza del politeismo, propenso alla tolleranza, gli esempi forniti dalle varie religioni monoteiste dell’epoca non concedevano l’esistenza di dubbi sulla loro impronta violenta, fanatica e intollerante; queste svilivano a suo parere l’essenza terrena dell’uomo riducendo spesso la sua natura a peccato, in opposizione ai politeismi che esaltavano la naturalità. La conclusione tratta dallo scozzese è che la religione non può insegnare nulla in campo morale all’uomo e che:



«tutto è ignoto: un enigma, un inesplicabile mistero. Dubbio, incertezza, sospensione del giudizio appaiono l’unico risultato della nostra più accurata indagine in proposito. Ma tale è la fragilità della ragione umana, e tale il contagio irresistibile delle opinioni, che non è facile tener fede neppure a questa posizione scettica, se non guardando più lontano ed opponendo superstizione a superstizione, in singolar tenzone; intanto, mentre infuria il duello, ripariamoci felicemente nelle regioni della filosofia, oscure ma tranquille»4.


















2. I PREDECESSORI DI HUME


2.1 RENÈ DESCARTES


Renè Descartes venne alla luce a La Haye en Touraine il 31 marzo 1596 e morì il giorno 11 febbraio 1650 a Stoccolma. Il padre, Joachim fu avvocato e consigliere del Parlamento di Rennes, la madre Jeanne Brochard morì un anno dopo la nascita di Renè, il quale venne cresciuto da una balia, a lui molto cara per tutta la vita e alla quale dopo la morte garantì un vitalizio. L’istruzione elementare gli venne impartita in forma privata, mentre gli studi regolari iniziarono solo nel 1607 a causa della salute cagionevole. Iscritto al collegio di La Flèche, istituto fondato nel 1603 da Enrico IV e gestito dai Gesuiti conobbe, il grande amico Marin Mersenne, col quale non interruppe mai i rapporti, nemmeno dopo la fine del ciclo di studi collegiali nel 1615. Proseguì successivamente i propri studi in ambito giuridico all’Università di Poitiers ottenendo il baccalaureato il 9 novembre 1616. Nel 1618 Descartes decise di arruolarsi volontariamente in un reggimento francese di stanza a Breda, nei Paesi Bassi, retto dal principe d’Orange; scelta che gli permise di conoscere il medico inglese Isaac Beeckman, figura che risultò di enorme importanza per la direzione intrapresa dagli studi che Descartes avviò successivamente. Spostatosi in Baviera dopo aver assistito all’incoronazione di Ferdinando II, passò l’inverno del 1619 a Neuburg dove portò avanti il suo percorso di riflessioni sul vaglio critico della conoscenza. Terminato il servizio militare visitò l’Italia dove però non incontrò Galileo Galilei e al ritorno in Francia rinunciò ad ogni possibile carica pubblica per dedicarsi esclusivamente allo studio. Trasferitosi in Olanda nel 1629 iniziò la stesura del Le Monde ou traitè de la lumière che però a causa della condanna ricevuta da Galilei nel 1633, venne rimandata per diverso tempo, tanto che l’opera vide la pubblicazione solo nel 1664, divisa in due parti e successivamente nel 1667 in maniera integrale. Ritenuto il padre della matematica e della filosofia moderna, il lavoro di Descartes fu di eccezionale importanza per la preparazione culturale di David Hume e per la realizzazione del suo schema delle passioni umane. Il testo più importante scritto dal francese sul tema delle passioni è senza dubbio la sua ultima opera, ossia Les Passions de l’ame del 1649, edita solamente pochi mesi prima della sua morte e nata dalle richieste di indottrinamento postegli da una delle figlie dell’elettore del Palatinato Federico V, la principessa Elisabetta, dopo la sconfitta rimediata dal padre nella battaglia della Montagna Bianca nei pressi di Praga nel 1620. L’opera è a tal punto legata all’insegnamento riservato alla principessa che è solitamente consigliata la lettura della stessa in relazione alla corrispondenza epistolare tra allieva e maestro (Lettere sulla Morale).

Le passioni cartesiane descritte in maniera generale nella prima parte de Les Passions de l’ame vengono definite come percezioni che si riferiscono all’anima in particolare e che sono causate, mantenute e rafforzate da qualche movimento degli spiriti. Esse sono con le azioni «sempre una medesima cosa con due nomi, secondo che la si riferisce…al soggetto a cui capita…o a quello che lo determina»5, il che ci porta a concepire le passioni dell’anima come azioni del corpo. Questo paragone porta sulla strada del nuovo metodo di analisi utilizzato da Descartes per studiare le passioni, il metodo “fisico”. Così il filosofo francese spiega che anima e corpo sono due nature diverse e che non vi è nulla di intermedio tra esse e che per il corpo che è pura macchina, valgono le leggi della fisica, mentre per la mente che è puro spirito valgono solamente le leggi del pensiero, spingendo al punto questa tesi da poter sostenere che la morte sopraggiunge per una sorta di “guasto” della macchina-corpo che provoca anche l’abbandono da parte dell’anima di quest’ultimo. Le passioni così sono causate materialmente dagli oggetti dei sensi che provocano l’agitazione dovuta agli spiriti animali, cioè una “certa aria” o “vento sottilissimo” ( sostanza psichica) della ghiandola pineale, posta al centro del cervello. Attraverso quei canali che sono i nervi, partenti tutti dal cervello in base ad una falsa credenza del tempo, gli spiriti animali arrivano in tutto il corpo e permettono l’interazione tra questo e la mente.

Dal punto di vista immateriale invece le passioni dell’anima sono causate dall’anima stessa, in quanto egli sosteneva che si potesse definire una passione, come l’accorgersi di ciò che si vuole anche se nell’anima la volontà è considerata un’azione; e dal corpo. Le cause corporee sono di quattro specie: riferite agli oggetti esterni ossia la percezione, riferite al nostro corpo ( fame, sete, dolore, ecc…), le immaginazioni come i sogni o le fantasticherie, riferite all’anima ossia le passioni principali. Invece la funzione delle passioni altro non è che «disporre l’anima a voler ciò che la natura indica come utile»6; nonostante le passioni siano quindi tutte buone possono in alcuni casi confonderci e farci desiderare qualcosa che in realtà è per noi nocivo, per cui è necessario “maneggiare” le passioni con attenzione e non abbandonarsi all’eccessivo trasporto cercando invece sempre la moderazione. Così facendo, l’anima che in principio “ patisce” le emozioni, può prenderne il controllo e con l’apporto della ragione e della saggezza, indirizzarle verso il miglioramento dell’esistenza.

Descartes suddivide le passioni in principali e derivate; le prime definite anche semplici o primitive sono sei: la meraviglia, l’amore, l’odio, il desiderio, la gioia e la tristezza. Scendendo nei particolari, il filosofo ritiene la meraviglia la passione filosofica per eccellenza, conseguenza inevitabile della ricerca e della curiosità, sorpresa dell’anima che ci permette di apprendere e immagazzinare ciò che precedentemente non ci era noto; l’amore è un sentimento che ci attira verso l’oggetto da noi considerato come bene; l’odio, il suo opposto, ossia il tentativo di allontanarsi da ciò che è percepito come male; il desiderio cioè la speranza di poter ottenere in futuro ciò che oggi consideriamo positivo e utile per la nostra persona, accompagnato sempre da amore, speranza e gioia e di evitare tutto l’opposto di questo, ossia ogni situazione od oggetto che tenda ad arrecarci danno, in questo caso suffragato da odio e orrore; e infine gioia e tristezza, la prima, la sensazione del godimento del bene ottenuto o sperato e la seconda, lo sconforto dell’anima nell’atto del confronto con un male o un difetto.

Le passioni secondarie o derivate sono tutte quelle che dipendono o sono frutto della mescolanza delle principali passioni primarie. Nonostante i tentativi di chiarire tutti gli ambiti della sua ricerca, Descartes conclude comunque sostenendo che «le passioni rientrano in quelle percezioni che lo stretto legame fra anima e corpo rende confuse e oscure»7 anticipando di molto la sensazione di incertezza alla quale giungerà anche Hume.






2.2 THOMAS HOBBES


Thomas Hobbes nacque nella cittadina di Westport, nel Wiltshire il 5 aprile 1588, venne in tenera età abbandonato dal padre, parroco di Charlton e Westport e crebbe grazie allo zio paterno Francis.

L’istruzione primaria gli venne impartita nella parrocchia di Westport, passò successivamente all’insegnamento privato e concluse i suoi studi senza terminarli tra la Magdalen Hall di Oxford, ottenendo il baccalaureato delle Arti nel 1608 e l’Università di Cambridge. Fu precettore di William Cavendish, del figlio di quest’ultimo e del figlio di Sir Gervase Clifton. Durante i numerosi viaggi intrapresi in giro per l’Europa riuscì a conoscere figure come Galileo Galilei, Mersenne, Bacon e molti altri. A causa dell’instabile situazione politica londinese della prima metà del ‘600, Hobbes decise di trasferirsi a Parigi nel 1640, dove rimase per undici anni, conquistandosi la stima dei migliori intellettuali francesi e intraprendendo con questi fruttuose discussioni. Nel 1651 riuscì a pubblicare quella che divenne la sua opera più famosa, ossia il Leviatano, o la materia, la forma e il potere di uno stato ecclesiastico e civile e a tornare in patria chiedendo la protezione del governo rivoluzionario inglese. Morì il 4 dicembre 1679 ad Hardwick Hall dopo aver dovuto affrontare negli ultimi anni della sua vita, accuse di eresia e numerosi attacchi dai suoi detrattori.

Hobbes in linea con Galileo e Descartes portò avanti per tutta la sua esistenza una visione materialistica e scientifico filosofica della realtà, basata sui due concetti primi e semplici del corpo e del moto, grazie ai quali, utilizzando il metodo matematico-deduttivo realizzò il suo progetto di costruzione di una filosofia con base scientifica che spiegasse tutti i fenomeni. Secondo il filosofo inglese la conoscenza è frutto indiscutibile della sensazione che è a sua volta modificazione del proprio corpo a partire da altri corpi esterni ed è movimento, il quale trasmesso all’interno del corpo e tra interno ed esterno di questo, attiva la percezione e l’intelletto, creando immaginazioni e idee che a differenza dei corpi esterni non sono indipendenti da noi, sono semplici apparenze; la sensazione da noi avvertita come immagine del mondo viene conservata nella memoria che costituisce così l’esperienza di ogni singolo essere umano. Le immagini contenute nella memoria sono a disposizione del soggetto e sono modificabili e assemblabili, dando così i natali all’immaginazione, nel caso della veglia e al sogno, durante il sonno. Ogni individuo può avere molte sensazioni di una medesima cosa e ovviamente essendo ogni corpo diverso dagli altri, ogni soggetto avrà percezioni differenti da ogni altro. Conseguenza di ciò è che i moti dell’animo, ossia le passioni come desiderio, avversione, amore, odio, speranza, timore ecc…, sono frutto dell’azione dei corpi esterni, che per amore ed odio ad esempio, sono attuali, presenti, mentre per desiderio ed avversione sono futuri. Ovviamente questo schema prevede che bene e male, fonte di piacere e dolore all’interno di una visione meccanicistica della morale, siano l’oggetto del desiderio e dell’avversione e quindi che non sia concepibile un’imposizione della ragione nelle scelte etiche, né sia attuabile il concetto di libertà se non come assenza di opposizione.

Riguardo al tema della volontà, Hobbes sottolinea che i pensieri possono originarsi in due modi: internamente ed esternamente. Se la mente riceve immagini elaborando sensazioni esterne, la volontà non entra in gioco, mentre nel caso in cui i pensieri vengano determinati dall’imporsi di un desiderio interno, che per l’inglese resta comunque legato all’istinto alla vita, alla sopravvivenza, su di un altro, allora si può parlare di volontà. Quando due volontà frutto di uguali desideri, appartenenti a due individui differenti si scontrano, cercando di usare i medesimi mezzi per ottenere il medesimo fine, l’egoismo prende il sopravvento e la determinazione del singolo a veder realizzato il proprio progetto, porta alla guerra dell’uomo contro l’uomo, concetto centrale in tutta la filosofia di Hobbes.








2.3 JOHN LOCKE


John Locke, filosofo e medico britannico, visse durante la seconda metà del Seicento, più precisamente nacque il 29 agosto 1632 a Wrington e morì il 28 ottobre del 1704 a Oates. Il padre fu un noto procuratore e ufficiale giudiziario, fiero oppositore del re Carlo I decapitato nel 1649.

Locke frequentò l’università di Oxford, nel collegio di Christ Church, dove divenne anche insegnante di greco e retorica, per poi intraprendere la strada dello studio della medicina e delle scienze naturali nel 1666, scelta che gli permise successivamente di stringere rapporti con Lord Ashley, conte di Shaftesbury. Questa amicizia però lo costrinse, nel 1682, a fuggire in Olanda per paura delle persecuzioni conseguenti alla scelta di Shaftesbury, di sostenere la congiura protestante del duca di Monmouth; il suo ritorno in patria avvenne solo nel 1689 successivamente alla “gloriosa rivoluzione” che vide il ritorno in Inghilterra anche della principessa Maria, moglie di Guglielmo d’Orange. Locke fu figura di spicco anche a livello politico ricoprendo diverse cariche tra cui quella di consigliere per il commercio delle colonie, che gli permisero di ottenere fama e ricchezze.

L’analisi Lockiana del sapere, parte dal presupposto che non tutta la conoscenza è a completa disposizione dell’uomo, e che conseguentemente è necessario essere coscienti dei limiti della ragione e non tentare in vano di varcarli per poi continuare a fare mero esercizio dialettico senza ottenere risultati tangibili. A differenza di Bacon e Descartes, Locke sostiene che sia insufficiente cercare di imbrigliare il sapere all’interno di un nuovo metodo, per quanto valido esso sia, se non viene prima stabilita quale sia la conoscenza umana accessibile, errore nel quale a suo parere inciamparono i suoi predecessori, confidando nel potere assoluto della ragione.

Locke si oppose strenuamente alla teoria dell’innatismo, in base alla quale alcuni concetti come quello di Dio, i principi logici e morali, il principio di non contraddizione ecc…, sono presenti nella mente umana già alla nascita, perché inscindibilmente legati all’anima; al contrario secondo il filosofo inglese tutta la conoscenza è frutto dell’esperienza empirica. Nulla può considerarsi principio e non dipendere da nulla di tangibile e dimostrabile, neanche la matematica che da molti pensatori precedenti era stata considerata fondamento del sapere, libera dalle continue verifiche empiriche.

Nel Saggio sull’intelletto umano, all’interno del secondo libro, Locke spiega la sua posizione riguardo al tema delle passioni. Le passioni risultano muoversi sui cardini dei concetti di bene e male, di piacere e dolore, idee semplici frutto della sensazione e della riflessione, che possono essere conosciute solamente tramite l’esperienza. Il piacere e il dolore comportano le concezioni di bene e male; tutto ciò che produce o accresce piacere in noi, che evita un male, che diminuisce una pena, è considerato bene, mentre tutto ciò che produce o accresce il dolore, diminuisce un piacere o procura un male è considerato cattivo. E proprio dall’esame di queste sensazioni, del loro grado, delle loro modificazioni e delle loro conseguenze sul nostro corpo e sul nostro spirito, possiamo farci un’idea delle nostre passioni, che risultano quindi essere le disposizioni della nostra anima relative a piacere e dolore in generale, indifferentemente da ciò che causa il loro realizzarsi in noi.









2.4 ANTHONY ASHLEY COOPER, III CONTE DI SHAFTESBURY


Anthony Ashley Cooper, III conte di Shaftesbury nacque il 26 febbraio del 1671 a Londra; suo padre fu il II conte di Shaftesbury, mentre sua madre, Lady Dorothy Manners era figlia di John Manners, conte di Rutland. La sua preparazione culturale venne affidata sin da tenera età all’amico del nonno, primo conte di Shaftesbury, John Locke. Successivamente frequentò il college di Winchester fino al 1686, anno nel quale cominciò una serie di viaggi all’estero. Tornato in Inghilterra nel 1689, dopo la “Gloriosa Rivoluzione”, si dedicò allo studio, intervallando questa attività con cariche istituzionali, anche all’interno del parlamento, fino al 1698 quando, costretto dalla salute cagionevole dovette abbandonare gli impegni politici. Si trasferì nei Paesi Bassi per alcuni anni, dove trovò un ambiente ideale alla sua personalità, conoscendo intellettuali di spicco come Bayle. Al ritorno in Inghilterra un anno dopo, ereditò la carica di conte e riprese l’attività politica partecipando alle elezioni del 1700 parteggiando per i Whigs. Tornò nei Paesi Bassi a causa del peggioramento delle sue condizioni di salute e a quasi quarant’anni si sposò con Jane Ewer. Nel luglio del 1711 partì per Napoli dove continuò la stesura di alcuni testi tra cui la seconda edizione delle Caratteristiche, pubblicata nel 1713, anno della sua morte che avvenne il 4 febbraio.

Shaftesbury fu ostico avversario di Thomas Hobbes e in particolar modo della teoria dell’egoismo. Il principio di tutto il suo pensiero è quello dell’armonia, basata sul buon gusto e sui buoni sentimenti opposti alla razionalità. L’uomo di Shaftesbury è un insieme di appetiti, passioni, affezioni, controllati totalmente o in parte dalla ragione. L’armonia o equilibrio entra in gioco in questa situazione, regolando l’alchimia di tutti questi fattori; ciò non avviene nel caso di un individuo «meno incline verso questo tipo di architettura morale, la sua struttura interna è composta in modo che basta un’estensione troppo breve di una singola passione per portare a una rovina e una miseria irrimediabili»8.

Vi è per Shaftesbury un evidente parallelismo tra la sfera dei criteri morali e quella dei criteri estetici, che sfocia nell’esistenza di una capacità di apprendere il concetto di bellezza, così come l’esistenza di una simile capacità di apprendere i valori morali delle azioni, ossia il senso morale che per Anthony Ashley Cooper è emozionale e non riflessivo, spunto che spingerà Henry Home ad approfondire l’argomento.












3. IL TRATTATO SULLA NATURA UMANA


Il Treatise of Human Nature è l’opera saggistica più importante scritta da David Hume. Il testo nacque tra il 1734 e il 1736, durante il soggiorno del filosofo scozzese in Francia, tra Reims e La Flèche; venne dato alle stampe al suo ritorno in Inghilterra tra il 1739 e il 1740 e contrariamente alla fama ottenuta nei secoli successivi, non fu accolto dall’entusiasmo generale. Nel 1739 vennero pubblicati i primi due libri dell’opera, quelli concernenti l’intelletto e le passioni; mentre l’anno dopo vide la luce quello che fu il terzo e ultimo libro, riguardante la morale. Il progetto originale del Trattato prevedeva anche delle parti successive inerenti la sfera politica e la critica ma non avendo riscosso interesse pubblico, Hume decise di non completare la realizzazione del saggio.

Il filosofo si convinse che il problema principale del suo scritto fosse stilistico e che la difficile comprensione a livello lessicale ed espositivo avesse causato l’insuccesso dell’opera. Così nel 1748 decise di pubblicare una rielaborazione dal taglio più popolare del Trattato, pubblicata con il nome di An Enquiry concerning Human Understanding, anche se il titolo originale fu Philosophical Essays concerning Human Understanding, ma anche questa non ottenne grande attenzione da parte del pubblico nonostante il ritorno superiore rispetto al Trattato. Lo scozzese stesso scrisse con amarezza, commentando l’esito della pubblicazione del suo testo che esso «fu nato morto sin dalla stampa»9.









3.1 DISAMINA DEL TRATTATO SULLA NATURA UMANA


Il nome completo dell’opera tradotto in italiano è “ Trattato sulla natura umana: un tentativo di introdurre il metodo del ragionamento sperimentale nelle materie morali” e nella versione conosciuta e pubblicata ancora oggi è suddiviso, come precedentemente ricordato in tre libri.







3.2 PRIMO LIBRO: SULL’INTELLETTO – UNA TRATTAZIONE ONNICOMPRENSIVA DALL’ORIGINE DELLE NOSTRE IDEE A COME ESSE DEBBANO ESSERE DIVISE


Suddiviso in quattro parti, di cui la prima riguardante la natura delle idee, la seconda sulle idee di spazio e tempo, la terza sulla conoscenza e la probabilità e la quarta sullo Scetticismo e altri sistemi filosofici; questo libro risulta essere un esame preventivo dell’intelletto, delle sue capacità, delle idee e della loro suddivisione.

Il primo passaggio essenziale per Hume e per la sua trattazione riguardo al tema dell’intelletto, è la suddivisione delle percezioni in idee ed impressioni. Questa prima suddivisione sorge dal grado diverso di forza e vivacità con cui le percezioni colpiscono la mente. Le sensazioni, passioni ed emozioni che appaiono per la prima volta nella nostra anima e che agiscono con grande forza e violenza sulla nostra mente sono definite impressioni, invece vengono definite idee tutte le immagini evanescenti delle impressioni sia nel pensare che nel ragionare. Il percorso di spiegazione e suddivisione dell’intelletto procede quindi con la differenziazione tra impressioni e idee semplici e complesse, le prime indivisibili mentre le seconde passibili di separazione. Questa divisione però non è sempre netta e facilmente identificabile e può capitare spesso che un’impressione ed un’idea possano confondersi, ciò risulta sperimentabile ad esempio nei sogni o nei casi di follia. Inoltre risulta evidente per Hume che ci sia totale corrispondenza tra impressioni semplici ed idee semplici e che «tutte le idee semplici, nella loro prima apparizione, derivano dalle impressioni semplici corrispondenti e le rappresentano esattamente»10. Hume presenta, nonostante ciò, un esempio che consiste in un’eccezione alla sua massima generale, ossia quello di un uomo che abbia potuto godere della vista per trent’anni, e che abbia avuto la possibilità di conoscere colori di tutti i generi e che si sia creato uno spettro al quale però manca una certa varietà di blu. Ponendogli di fronte tutte le varie sfumature conosciute, tranne quella a lui ignota, in ordine discendente, egli percepirà uno spazio vuoto dove avrebbe dovuto trovarsi la sfumatura sconosciuta. La questione che Hume pone è relativa alla possibilità che l’immaginazione possa sostituirsi alla percezione sensibile creando la varietà di colore mancante. La conclusione del filosofo tende alla considerazione di questo caso come un’eccezione, sostenibile da pochi, che non sempre le idee semplici nascano dalle impressioni corrispondenti. Seguendo il percorso logico della corrispondenza e dipendenza delle idee dalle impressioni, Hume pone la questione delle idee innate sostenendo nel suo primo principio che:



«le idee riproducono le immagini di loro stesse in nuove idee; ma dal momento in cui si ammette che le prime idee derivino dalle impressioni, rimane sempre vero che tutte le idee semplici procedono mediatamente oppure immediatamente dalle loro impressioni corrispondenti»11.



Altro tema di particolare importanza affrontato dal filosofo scozzese all’interno della prima parte del primo libro del Treatise è quello relativo al concetto di idea astratta. Come Berkeley nella sua Introduzione ai Principi della Conoscenza Umana, Hume sostiene che «tutte le idee generali sono in realtà idee particolari, congiunte ad un certo nome, che conferisce loro un significato più estensivo: in questo modo esse possono richiamare, all’occorrenza, altre idee individuali simili a loro»12.

Nella seconda parte del primo libro il tema centrale è quello delle idee di spazio e di tempo considerate non divisibili infinitamente; questa conseguenza è derivata dal fatto che tutto ciò che può essere diviso all’infinito deve possedere un numero infinito di parti. Le idee che ci formiamo di qualcosa di finito non possono essere divise all’infinito e per negare l’infinitezza dell’idea è necessario negare anche quella della mente umana, il che porta a concepire il fatto che la mente giunge inevitabilmente, nel suo percorso di divisione, ad un minimum che fa nascere un’idea indivisibile, pena l’annullamento della stessa. Collegandosi così a questo passaggio Hume spiega che se il tempo fosse infinitamente divisibile due momenti potrebbero finire col risultare coesistenti, fatto inconciliabile con la definizione stessa di tempo, e che quindi ogni porzione, ogni momento di cui è composto deve essere indivisibile. L’indivisibilità dello spazio segue logicamente quella del tempo in base alla natura stessa del movimento. L’idea di estensione, indissolubilmente legata a quella di spazio, è frutto della nostra percezione dei corpi esterni, essendo queste impressioni, sensazioni visive; nessuna nostra impressione interna potrà mai essere fonte di derivazione dell’idea di spazio che viene prodotta quindi solo dai sensi. I sensi però ci trasmettono solamente impressioni di punti colorati e raggi di luce, è quindi la mente che nell’elaborazione dell’idea di estensione crea una copia dei punti colorati e dei raggi percepiti nel modo in cui essi ci appaiono.

Per quanto riguarda invece l’idea di tempo, Hume sostiene che essa sia la derivazione della successione delle due forme di percezione, impressioni e idee, senza la quale non avremmo di conseguenza una nozione di tempo; a suffragare questa tesi, pone degli esempi, come la differente percezione dello scorrere del tempo che ha un uomo dormiente oppure un individuo concentrato su di un unico pensiero. Il tempo è quindi sempre conseguenza dell’osservazione e della percezione di oggetti mutevoli e della loro successione e in presenza di oggetti immobili e costanti non potremmo costruirci l’idea stessa di tempo e temporalità.

La terza parte affronta il tema della conoscenza e della probabilità spiegando le sette specie di relazioni filosofiche che le consentono; ossia la rassomiglianza, l’identità, la relazione di tempo e luogo, la proporzione di quantità e numero, i gradi di qualunque qualità, la contrarietà e la causalità. Relazioni, che si suddividono tra quelle che dipendono interamente dalle idee che giustapponiamo tra loro cioè rassomiglianza, contrarietà, gradi di qualità e proporzione di quantità o numero, e che quindi fondano la scienza e quelle che mutano indifferentemente dalle idee ossia identità, relazione di tempo e luogo e causalità.

Le ultime pagine sono dedicate alla Credenza, che Hume sulla scia della separazione illuminista di questa dalla conoscenza e dai temi fideistici, svuota di ogni contenuto ontologico logicamente vincolante, riducendola ad una forma soggettiva di rafforzamento di relazioni o di istanze puramente immaginate.

Infine la quarta e ultima parte del primo libro del Treatise è dedicata allo scetticismo e ad altri sistemi filosofici, con una conclusione atta a ribadire l’inintelligibilità della questione antica sulla sostanza dell’anima perché «tutte le nostre percezioni non sono suscettibili di unione locale, né con ciò che è esteso o non esteso; dal momento che ce ne sono alcune di un genere e alcune dell’altro. Poiché, inoltre, l’unione costante degli oggetti costituisce l’essenza propria della causa ed effetto, la materia e il movimento possono essere spesso considerati come le cause del pensiero, per quanto concerne la nostra nozione di quella relazione»13; la sezione VI tratta dell’identità personale e della sua difficoltà di definizione, chiarendo però che la memoria, permettendoci di conoscere la continuità e l’estensione della successione di percezioni che ci riguardano, deve esserne considerata come l’origine. Però non come un’origine produttiva ma come scoperta dell’identità stessa, in quanto mostra la relazione di causa ed effetto tra le nostre percezioni. L’identità è quindi frutto della relazione tra le idee ma la nostra speranza di chiarire tutte le questioni rimaste in sospeso è vana, al punto che secondo Hume queste andrebbero considerate più come «difficoltà grammaticali invece che filosofiche»14.









3.3 SECONDO LIBRO: SULLE PASSIONI – UNA TRATTAZIONE DELLE EMOZIONI E DEL LIBERO ARBITRIO


Il secondo libro del Trattato sulla natura umana è incentrato sull’importanza che David Hume assegna alle passioni, come cardine essenziale della vita dell’uomo. Facendo tesoro delle lezioni di Descartes, che aveva definito le passioni come «percezioni o sentimenti o emozioni dell’anima, che si riportano particolarmente a essa e sono causate, sostenute e rafforzate da qualche movimento degli spiriti»15 sulla ghiandola pineale; di Malebranche che invece le classificava come «emozioni che l’anima avverte naturalmente in occasione dei mouvements extraordinaires degli spiriti animali»16; o di Hobbes per il quale le emozioni erano «principi invisibili del movimento del corpo umano»17, appetiti o avversioni nei riguardi degli oggetti che li producono e controllano la condotta intera dell’individuo; e concordando con tutta la propria metodologia di ricerca, lo scozzese sostiene che esista una sorta di “meccanismo regolare”, assimilabile alle leggi del moto, dell’idrostatica, della filosofia naturale, che determina lo schema di “movimento” delle passioni. Le passioni vengono definite da Hume come delle impressioni secondarie, riflesse, derivanti dalle impressioni originarie, ossia le impressioni di sensazione, in maniera immediata oppure dalla frapposizione delle idee. Hume sostiene anche che le passioni possono essere di due tipologie: calme, come il senso del bello e del brutto ad esempio, oppure violente come sono l’amore, l’odio, tristezza, gioia, orgoglio e umiltà. Un’altra distinzione è quella tra passioni dirette e passioni indirette, le prime derivanti immediatamente dal bene, dal male, dal piacere e dal dolore, come nel caso di desiderio, avversione, tristezza, gioia e simili; le seconde invece frutto della commistione di questi principi con altre qualità, e comprendenti orgoglio, umiltà, vanità, invidia, amore e odio tra le altre.

La visione tradizionalista dell’uomo come unico animale razionale viene spazzata via dal nuovo principio guida che vede gli esseri umani, così come gli animali, alla mercé delle passioni senza l’aiuto della ragione che si trova d’innanzi a dubbi e difficoltà indissolubili con le sue sole forze. Le passioni finiscono con l’essere mezzo indiscutibile di apprendimento della realtà esterna e delle sue leggi, conoscibili per Hume solo tramite l’esperienza; esperienza che serve all’uomo per studiare anche il comportamento proprio e dei propri simili, base necessaria alla costruzione di una società giusta. Ed è proprio grazie alla società che l’uomo non potendo più, come ritenuto dalle tradizioni precedenti, fondare la propria azione e relazione con gli altri sulla ragione, ed essendo dominato dalle passioni che rendono schiavo anche il suo precedente lume, si basa sul principio di trasmissione della simpatia tra individui. La relazione di simpatia tra individui fa nascere le quattro passioni definite fondamentali da Hume, ossia l’orgoglio, l’umiltà, l’amore e l’odio. Tutto lo schema delle passioni steso da Hume è infatti frutto delle relazioni di simpatia tra esseri umani, lo stesso sentimento egoistico dell’orgoglio non potrebbe esistere, nella sua concezione, senza un legame empatico con gli altri.

Il secondo libro del Treatise affronta quindi ogni sfaccettatura del tema delle passioni, senza dimenticare i rapporti che queste fanno nascere tra gli individui, i modi e le caratteristiche delle singole passioni, le loro cause e i loro oggetti, l’importanza che i concetti di spazio e tempo hanno nello sviluppo delle relazioni tra i soggetti e gli oggetti delle passioni. La prima parte spiega le passioni di orgoglio e umiltà, i loro oggetti e le loro cause e la loro derivazione; riprende il tema delle relazioni tra impressioni e idee, utilizzandolo per approfondire lo studio delle passioni; traccia le differenze tra virtù e vizio, tra bello e brutto; e nelle ultime sezioni tratta delle ricchezze, dell’amore per la fama e della nostra attrazione per esse. La seconda parte si apre invece affrontando le passioni di amore e odio in tutte le loro sfaccettature, ponendo la questione empiricamente grazie all’utilizzo di vari esempi tratti dall’esperienza e dall’osservazione della natura umana; da qui trae la scintilla per poter portare il discorso verso l’esplorazione di quelle passioni frutto del nostro rapporto con gli altri individui, come la benevolenza, la rabbia, la compassione, il rispetto, il disprezzo e la passione amorosa tra le altre. Da non sottovalutare lo spazio che il filosofo scozzese dedica, come fatto precedentemente nel primo libro riguardante la ragione, alle passioni negli animali, concedendo a questi uno status più alto rispetto a quello fino a quel momento concesso loro da altri pensatori, tra i quali Descartes, che li inquadrava nell’ambito delle semplici macchine. Nella terza e ultima parte del secondo libro si apre infine, il tema della volontà e della libertà e di come l’una e l’altra siano possibili all’interno di uno schema empiristico, figlio della necessità. Vengono attraversati gli argomenti dell’abitudine e dei suoi effetti; le passioni violente; dell’immaginazione e dello spazio e del tempo, per concludere poi il secondo libro con una dissertazione riguardante le passioni dirette e l’amore per la verità, ossia la curiosità.









3.4 TERZO LIBRO: SULLA MORALE - UNA TRATTAZIONE DELLE IDEE MORALI, GIUSTIZIA, OBBLIGAZIONI, BENEVOLENZA


Nel terzo libro della sua opera più completa, David Hume porta la trattazione nell’ambito delle idee morali, della giustizia, delle obbligazioni e della benevolenza come descritto dal titolo stesso del testo in questione. All’interno della prima parte di quello che risulterà essere l’ultimo libro appartenente al Treatise, il filosofo scozzese pone il proprio veto su tutta la tradizione precedente, riguardo alla questione morale e al significato di vizio e virtù, sostenendo che la ragione, fonte fino a quel momento, in base all’opinione dei più, della sfera morale all’interno della vita umana, non può essere causa di finalità ultime essendo un principio inattivo in sé stesso. La ragione garantisce all’uomo la possibilità di conoscere la differenza tra verità e falsità, ma non quella etica tra giustizia e ingiustizia. La moralità risulta essere così, figlia di una qualche tipo di sensazione, più che di un giudizio, anche se la sensazione in questione è facilmente confondibile con un idea, a causa della «nostra abitudine a considerare identiche le cose che si assomigliano fortemente tra loro»18; e le nostre decisioni riguardo ad essa sono di conseguenza percezioni, ed essendo «tutte le percezioni… impressioni o idee, l’esclusione di una è un argomento convincente a favore dell’altra»19. La distinzione tra vizio e virtù finisce così per essere la tipologia di impressione generata; se l’impressione genera in noi un certo dolore, allora essa risulterà viziosa, se invece in caso contrario genera piacere allora sarà virtuosa; e il senso della virtù non è altro che la capacità insita in ognuno di noi di saper sentire una soddisfazione o un dispiacere, generato dalla contemplazione di una data qualità. Il rischio concatenato a questo sistema è quello di rendere l’intera etica, vile conseguenza della nostra approvazione o disapprovazione implicata nella sensazione di piacere o dolore; ma Hume si oppone a questa visione affermando che la sensazione virtuosa non è esclusivo frutto del piacere provato, ma una sorta di giudizio, più simile a quello che noi abbiamo nel caso della bellezza, del gusto e delle sensazioni. La conclusione è quindi che nel sistema morale dello scozzese, non è necessaria la presenza di leggi immutabili ed eterne, come egli stesso spiega, sostenendo che:


«il problema dell’origine della rettitudine e della depravazione morale di un’azione si riduce… alla semplice questione, di spiegare perché un’azione o un sentimento, a uno sguardo o a un esame generali, ci diano una certa soddisfazione o un certo dolore, senza dover andare in cerca di relazioni e di qualità incomprensibili, che non sono mai esistite in natura, e nemmeno nella nostra immaginazione ne esiste una concezione chiara e distinta »20.



Nella seconda parte la trattazione si sposta sul concetto di giustizia e alla sua condizione di innaturalità, supportata secondo Hume dal fatto che essa sorge dalle necessità che l’umanità si trova a dover affrontare quando si riunisce in società. Le regole di giustizia sociali sono quindi di origine artificiale e frutto di convenzioni che risultano vantaggiose per ogni individuo, che accetta così di rispettarle. La società quindi, per potersi sostenere, deve garantire agli uomini che nessun loro simile possa influire negativamente e liberamente sulla loro esistenza; il metodo più diretto per far sì che questo avvenga è l’istituzione della proprietà e di leggi di giustizia che la difendano. Ma questa interconnessione tra giustizia e proprietà non è un interesse strettamente pubblico, ossia non nasce dal desiderio di benevolenza verso gli altri individui; la giustizia affonda le sue radici nelle impressioni umane, impressioni gradevoli per il singolo che solo successivamente si tramutano in una sorta di virtù pubblica a favore degli altri, una simpatia verso l’interesse generale che diventa la sorgente dell’approvazione morale; la scintilla iniziale è l’interesse privato, radicalmente contrario ad ogni singolo atto di giustizia pubblico. E' solamente grazie alla visione universale dello schema di giustizia che si può cogliere la sua utilità sia pubblica che privata.

La terza sezione entra nella specificità delle tipologie di proprietà esistenti; queste nuove specie di proprietà sono necessarie per Hume, conseguentemente alla fallibilità del criterio di stabilità che garantirebbe ad ogni singolo individuo la possibilità di continuare a godere dei beni in suo possesso. Lo scozzese sostiene che un principio di tal genere sia concepibile in una prima fase sociale ma che sulla lunga distanza, nasce la necessità di garantire altri criteri di proprietà, ossia: l’occupazione, cioè il primo possesso, inservibile col passare del tempo; il lungo possesso, ossia la proprietà ottenuta dalla disponibilità prolungata nel tempo di un dato oggetto; l’accessorietà che consiste nella proprietà di oggetti, legati necessariamente e subordinatamente a beni già appartenenti ad un individuo; e infine la successione, considerata da Hume un diritto naturale frutto di legami sanguinei ed emotivi. Per concludere il discorso intrapreso da David Hume riguardo alla proprietà, è necessario ricordare che egli include un ultima tipologia di trasferimento del possesso di un bene, ossia il consenso, che garantisce ad un individuo, il diritto di trasferire volontariamente ad un altro, parte delle sue proprietà e risulta essere la base del commercio e dello scambio.

Concludendo l’esposizione relativa alla giustizia, David Hume affronta anche la questione delle obbligazioni di promessa, sostenendo che anch’esse come la regola morale, non sono naturali, ma frutto di convenzioni umane e che quindi una promessa non genera naturalmente un’obbligazione di adempimento; il mantenimento di una promessa è quindi solamente il risultato del conseguimento dell’interesse privato. Quindi le leggi di giustizia fondamentali, che garantiscono l’esistenza di una società imprescindibile per la sopravvivenza degli uomini, sono in definitiva tre: la stabilità del possesso; il trasferimento mediante consenso; e l’adempimento delle promesse. Queste leggi, create dagli uomini per gli uomini, assolvendo al compito di sostenere strutturalmente la società, fungono da codice protettivo della proprietà, essenziale per l’esistenza della giustizia stessa, definita da Hume « una costante e perpetua volontà di dare a ciascuno ciò che gli spetta »21. La proprietà potrebbe così risultare antecedente alla giustizia stessa, ma non essendo quella, qualità ascrivibile all’oggetto ma solamente una relazione tra questo e un individuo razionale, la fallacia dell’affermazione risulta evidente. E la nostra ragione facendoci astenere dal tentativo di impossessarci di un oggetto che non ci appartiene, ci rende palese che:




«queste azioni sono propriamente ciò che chiamiamo giustizia; e quindi è da questa virtù che dipende la natura della proprietà, e non la virtù da questa proprietà»22.



E’ importante inoltre ricordare che i diritti, le obbligazioni e le proprietà così come giustizia e ingiustizia, non sono suscettibili di grado; e la distinzione tra giustizia e ingiustizia si fonda su due punti: l’interesse proprio, essendo impossibile vivere in una società priva di regole; e la morale, conseguente all’osservazione che l’interesse è comune a tutta l’umanità che a sua volta trae piacere o dolore dalle azioni che sono favorevoli o contrarie alla società.

Le ultime sezioni della seconda parte del terzo libro del Treatise sono dedicate ai temi dei governi e dell’obbedienza dei popoli. I governi, data la natura egoistica degli esseri umani, fungono secondo Hume da rimedio alla ricerca da parte del singolo dell’esclusivo bene privato. Considerato che il rimedio dovrebbe sorgere dagli individui stessi, il filosofo sostiene che, data la natura umana, ciò sia impossibile, e che quindi l’unica soluzione possibile, sia la presenza all’interno di ogni società di una “classe governante”, il cui principale interesse non consista nel proprio esclusivo fine ma nel bene comune e nella messa in atto della giustizia. Quindi grazie a questa classe di re, governanti, magistrati, la pluralità può sperimentare la mutua assistenza indispensabile per il vivere comune.

Per quanto riguarda invece la teoria dell’obbedienza, Hume si pone in contrasto con alcune posizioni precedenti, sostenendo che sì il governo garantisce il rispetto delle tre leggi principali e permette agli individui di vivere in società, ma è anche vero che la promessa di obbedienza fatta nei confronti della classe governante risale ad una posizione iniziale, non più condivisibile da tutti i facenti parte la società. Dato questo fatto, i singoli sono spinti a rispettare i regolamenti, dal proprio interesse personale che altrimenti renderebbe “scomoda” la vita in comune. Conseguenza di tutto ciò è che sarebbe insensato porre l’origine della sottomissione all’autorità nel consenso, avendo il governo potere anche su coloro che il proprio consenso non lo hanno mai concesso. La teoria alternativa a quella del contratto sociale proposta da Hume pone quindi l’attenzione sulle motivazioni che spingono gli uomini ad accettare l’accordo, sui loro interessi. E nel momento in cui, questi interessi personali e di protezione vengono a mancare, il singolo è autorizzato a venir meno alla propria obbligazione nei confronti dell’autorità. Questa soluzione deve essere comunque considerata come eccezionale, e non può essere presa in considerazione in casi in cui i governi, regolarmente autorizzati, cioè nati da: lungo possesso, possesso attuale se preserva la pace e l’interesse pubblico, conquista, successione e leggi positive, non vengano meno alla propria funzione. L’unico ambito in cui un governante può, a parer di Hume, infrangere le tre leggi di giustizia, è quello del rapporto tra le nazioni, se e solo se, questa infrazione reca vantaggio al proprio paese. Questa differenza di attuazione delle norme vigenti tra regnanti e individui normali è da attribuire, secondo il filosofo scozzese, alla stessa situazione che si presenta riguardo alla castità e alla modestia tra uomini e donne; castità e modestia sono infatti qualità gradevoli per entrambi, ma la loro importanza per la valutazione del sesso femminile è senz’altro maggiore.

Il Trattato sulla natura umana si chiude con una disquisizione, appartenente all’ultimo segmento del terzo libro, sulle virtù e sui vizi naturali, toccando anche i temi della grandezza d’animo, della bontà e benevolenza e delle capacità naturali; e con un appendice, all’interno della quale David Hume provvede alla correzione di alcuni errori ed imprecisioni, ad alcune rettifiche e delucidazioni anche in risposta a critiche ricevute dall’opera. I vizi e le virtù naturali si contrappongono diametralmente ai vizi e alle virtù artificiali perché frutto dell’essenza stessa degli uomini e scaturentesi direttamente da essi. A differenza della giustizia ad esempio, essi non sono una macchinazione artificiosa ma la conseguenza dei principi attivi della mente umana, ossia piacere e dolore. Viziosità e virtuosità risiedono nella natura stessa di un’azione e nella sua capacità di suscitare piacere e dolore; ma questa capacità di sviluppare piacere e dolore non è altro che una qualità o una sorta di carattere dell’azione stessa. Ovviamente il filosofo scozzese ribadisce in questa sezione della sua trattazione, l’inevitabile importanza del concetto di simpatia per l’esame del vizio e della virtù naturali; senza l’influsso della simpatia non verrebbero prodotti i nostri sentimenti morali nell’ambito delle virtù artificiali, i nostri gusti riguardo al bello sarebbero differenti e le virtù naturali non avrebbero la loro origine. La simpatia nel campo della naturalità ci mostra la tendenza delle nostre e altrui qualità a rendere gli individui adatti alla vita in società o meno e grazie ad essa riusciamo a biasimare o lodare una certa persona o un suo comportamento; ovviamente Hume avverte che non tutte le nostre azioni possono essere valutate in base al criterio dell’interesse pubblico, facendo notare che la differenza principale tra virtù naturali e giustizia risiede «nel fatto che il bene che risulta dalle prime sorge da ogni singolo atto, ed è oggetto di una qualche passione naturale: mentre un singolo atto di giustizia, considerato in se stesso, può spesso essere contrario al bene pubblico; e soltanto il concorso di tutto il genere umano, in uno schema generale o sistema d’azione, è vantaggioso»23.

Nella seconda sezione il tema della grandezza d’animo viene risolto difendendo il virtuosismo dell’orgoglio e sostenendo che nella più ampia parte dei casi ciò che noi tendiamo a chiamare grandezza d’animo, o virtù eroica, altro non è che «orgoglio e stima di sé stabili e ben fondati»24; Hume porta avanti la sua “battaglia” all’umiltà cristiana spiegando che coraggio, intrepidezza, magnanimità, amore per la gloria, ambizione e tutte le virtù di questo genere scaturiscono per gran parte proprio dall’orgoglio; che non deve quindi essere biasimato, come spesso fatto dagli ecclesiastici del tempo, riducendo le suddette virtù a “pagane e naturali”, a favore dell’umiltà stessa.

Hume infine traccia la distinzione tra capacità naturali e virtù morali, attenendosi però in questo frangente, alla tradizione e sostenendo che esse sono entrambe qualità mentali producenti piacere e tendenti ad ottenere l’amore e la stima degli altri. Le capacità naturali, sostiene lo scozzese, non vanno sottovalutate e anche esse garantiscono favori e benevolenza alla persona che le possiede, donando inoltre nuovo lustro alle virtù; la stima che queste capacità garantiscono deriva dalla loro utilità per chi le possiede e dall’importanza che ad egli attribuiscono.

Come precedentemente sottolineato, l’opera si chiude con la tradizionale conclusione del terzo libro che funge in questo caso anche da pseudo riassunto dei tratti salienti del testo stesso, e con l’appendice contenente le correzioni.























4 LE PASSIONI


4.1 IL SECONDO LIBRO DEL TREATISE: SULLE PASSIONI


Hume propone in apertura del secondo libro del Treatise, riguardante le passioni, una suddivisione parallela a quella delle percezioni mentali in impressioni e idee, ossia quella delle impressioni in originarie e secondarie. Le prime, dette anche impressioni di sensazione non vengono precedute da percezione alcuna, e «sorgono nell’anima dalla costituzione del corpo, dagli spiriti animali, o dalla sollecitazione che gli oggetti imprimono sugli organi esterni»25, sono di questo tipo tutte le percezioni dei sensi e i dolori e piaceri corporei; le seconde invece, dette anche di riflessione, sorgono dalle impressioni di sensazione in maniera immediata o mediata tramite le loro idee, come ad esempio le passioni e le emozioni simili. Le impressioni originarie vengono tralasciate nell’esposizione di Hume, che pone la motivazione di questa scelta nel desiderio di non allontanarsi troppo dall’argomento trattato, sostenendo solamente che esse sono deducibili dal fatto che, precedendo le impressioni le proprie idee corrispondenti, «devono allora esistere alcune impressioni che appaiono nell’anima senza che nulla le introduca»26.

Fatta questa precisazione il filosofo sposta l’attenzione sulle impressioni secondarie, specificando che molte passioni sorgono dal dolore e dal piacere, siano essi sperimentati personalmente o solo esaminati dalla mente umana; ma che è comunque necessario fare una distinzione, che spesso risulta fallace, tra impressioni di riflessione calme e violente: le prime frutto del senso del bello o del deforme, le seconde definibili come le passioni di amore e odio, angoscia e gioia, orgoglio e umiltà. Addentrandosi sempre più nel particolare, lo scozzese sottolinea che le passioni, precedentemente isolate si suddividono ancora in dirette, sorgenti immediatamente da bene e male o da piacere e dolore come nel caso del desiderio, dell’avversione, della speranza, dell’angoscia, del terrore ecc…, e indirette derivanti dagli stessi principi ma mischiati ad altre qualità, come per l’orgoglio, l’umiltà, l’invidia, l’ambizione, l’amore, l’odio e simili.








4.2 ORGOGLIO E UMILTÀ


Hume sostiene che sia impossibile definire in maniera generale e corretta i concetti di orgoglio e umiltà, essendo queste due impressioni semplici e uniformi; l’unica possibilità concreta è quella di presentare degli esempi empirici di casi in cui queste due passioni entrano in gioco, ma essendo termini di uso generale, il filosofo scozzese ritiene superflua una spiegazione del genere e procede con l’analisi delle loro caratteristiche. Punto focale per entrambe, risulta così essere il fatto che esse si riferiscono ad un medesimo oggetto, ossia l’Io, considerato come «successione di idee e impressioni collegate, di cui abbiamo intimamente memoria e coscienza»27. Hume avverte però, che essendo queste due passioni, l’una il contrario dell’altra, non è possibile che il loro oggetto sia anche la loro causa, perché in tal caso si annullerebbero, essendo entrambe destate in pari grado; sarebbe infatti impossibile per un individuo provare contemporaneamente queste due passioni, in quanto la più forte sormonterebbe la più debole o in un caso più estremo, potrebbero essere destate in successione. Quindi una volta conosciuto l’oggetto, il fine di orgoglio e umiltà, è necessario trovare ciò che le fa nascere, e ciò altro non può essere che una qualità a noi appartenente o collegata. Le qualità che fungono da causa possono essere di vario tipo: immaginazione, giudizio, buon senso; ma anche caratteristiche fisiche possono far sorgere l’orgoglio, nel caso in cui ci procurino una sorta di piacere, mentre fanno nascere in noi la passione dell’umiltà nel caso contrario. Particolarità imprescindibile di queste due passioni è che esse, non vengono risvegliate solamente da qualità che ci appartengono, ma come precedentemente anticipato possono trovare la causa della loro esistenza anche in soggetti a noi connessi, come avviene ad esempio per un uomo orgoglioso della casa da egli stesso costruita. Hume classifica queste cause come naturali grazie ad un semplice stratagemma, consistente nel far notare che in qualsiasi epoca e luogo, e in simil modo anche per gli stranieri, sono sempre gli stessi oggetti a produrre le passioni di orgoglio e umiltà; allo stesso tempo però asserisce che queste, non sono originali perché «ogni causa di orgoglio e di umiltà non si adatta a queste passioni per una qualità distintiva originaria: la loro efficacia, al contrario, deriva da una o più circostanze comuni a tutti loro»28.

Il tema delle relazioni tra impressioni e idee viene aperto con il raggiungimento di due verità secondo Hume:


«che è in forza di principi naturali che questa varietà di cause sollecita orgoglio e umiltà, e che non è in forza di un diverso principio che ogni nuova causa si adatta alla propria passione»29.




Lo scopo della trattazione a questo punto è quello di ridurre i possibili principi scaturenti orgoglio e umiltà e delineare uno schema di quelli principali; l’enumerazione parte dalla proprietà della natura umana, come le definisce lo scozzese, dell’associazione di idee: si intende definire così la caratteristica della mente di non riuscire a fissarsi per lungo tempo su di una singola idea, ma di passare, seguendo uno schema rigido, da un oggetto a ciò che gli somiglia, che gli è contiguo, o che ne è prodotto. La seconda proprietà è una sorta di associazione di impressioni, in quanto come accade per le idee, essendo tutte le impressioni simili collegate tra loro, quando una di esse viene risvegliata, ecco che le altre la seguono; differenza importante però tra l’associazione di idee e quella di impressioni, è che le prime si associano in base a tre principi, ossia la rassomiglianza, la contiguità e la causalità, mentre per le seconde vale solamente il principio di rassomiglianza. Il terzo caso infine è la mescolanza tra associazione di idee e di impressioni, in tal situazione infatti la mente viene doppiamente sollecitata, facendo nascere una passione assai più violenta che nei casi precedenti, e in grado grazie a questa concordanza di sorgere in maniera più semplice e naturale. Come precedentemente accennato, Hume compie un esercizio empirico, cercando nella quotidianità ogni possibile attuazione delle sue teorie; ripercorre così la strada sino al momento delineata dimostrando che orgoglio e umiltà sono passioni scaturentesi da sensazioni di dolore e piacere, connesse non solo alla nostra persona in senso stretto, ma anche a soggetti a noi vicini o che intrattengono con noi un rapporto. Infatti delle qualità positive a noi inerenti o trasferite a soggetti a noi relazionati, ci permettono di provare la passione dell’orgoglio, viceversa sprofondiamo nell’umiltà; nel caso in cui le suddette qualità riposassero in soggetti a noi estranei e con i quali non intratteniamo alcun tipo di rapporto, esse risulterebbero per noi ininfluenti, almeno riguardo alle passioni di orgoglio e umiltà. Riassumendo:


«le qualità producono un particolare dolore o piacere, e i soggetti, in cui le qualità sono collocate, sono in relazione all’Io»30.



Queste risultano così essere qualità originarie. La deduzione che deriva da queste osservazioni è che esiste un rapporto duplice tra idee e impressioni, tra la causa che desta la passione e l’oggetto naturale della stessa; e la sensazione di piacere o dolore prodotta dalla causa con la sensazione della passione stessa. Hume si spinge oltre, asserendo che gli organi umani sono posizionati in modo da produrre la passione che a sua volta, se destata, crea naturalmente un’idea.

Il filosofo pone però delle limitazioni al sistema secondo cui «tutti gli oggetti gradevoli, a noi collegati associando idee e impressioni, producono orgoglio, mentre quelli sgradevoli producono umiltà»31; egli infatti asserisce che, per far sì che lo schema sia posto correttamente è necessario, non solo che esista una relazione tra noi e ciò che funge da scaturigine di orgoglio e umiltà, ma anche che questa relazione sia stretta; questa è la prima limitazione. La seconda riguarda la diffusione dell’oggetto producente piacere o dolore; se l’oggetto non è infatti prerogativa nostra e di pochi altri individui, la sua influenza sulle nostre passioni di orgoglio e umiltà è inferiore; non siamo infatti orgogliosi di una qualità o di un oggetto largamente diffuso tra i nostri simili, e parimenti una qualità, motivo di umiliazione, sarà affievolita nella sua intensità se condivisa da un gran numero di persone. Inoltre, il terzo punto, riguarda l’evidenza che l’oggetto scatenante la nostra passione ha per i nostri simili; se infatti la qualità in questione non è ovvia sia a noi che agli altri, la sua forza sarà inevitabilmente minore. La quarta limitazione è inerente alla durevolezza delle cause delle passioni, se infatti la loro origine è casuale o la loro durata è estremamente breve, esse non appagano sufficientemente la nostra soddisfazione. La quinta e ultima limitazione spiega che «le regole generali hanno una grande influenza sull’orgoglio e sull’umiltà, così come su tutte le altre passioni»32. La conclusione annessa da Hume all’esposizione di queste cinque limitazioni è che non sempre gli uomini più orgogliosi e con più diritto di esserlo, sono anche i più felici, e nello stesso modo i più umili e motivati ad esserlo, sono i più infelici; sostiene infatti il filosofo, che spesso i mali peggiori sono tali da non essere a noi relazionati, peculiari, manifesti, costanti e sottostanti a regole generali e nonostante questo, capaci di renderci miserabili indifferentemente dalla loro influenza sul nostro orgoglio.






4.3 IL VIZIO E LA VIRTÙ


Dopo aver completato la presentazione delle passioni di orgoglio e umiltà, Hume sposta l’attenzione sui concetti di vizio e virtù, considerati cause delle due precedenti passioni, senza però addentrarsi a fondo nella questione della loro naturalità o artificialità, anzi dimostrando l’efficacia del proprio sistema in entrambi i casi. La posizione dello scozzese riguardo alla suddetta diatriba viene esposta efficacemente nel terzo libro del Treatise, dove egli pone la sfera morale tra gli artifici umani senza possibilità d’appello. Ottenendo la certificazione del proprio progetto, sia utilizzando un’impostazione artificiale di vizio e virtù, che un’impostazione naturale, l’autore si accomiata da questo tema con una precisazione di importanza cruciale e che sicuramente non raccolse molte critiche positive all’epoca; Hume pone infatti la virtù come causa della passione dell’orgoglio e il vizio come causa dell’umiltà, in opposizione ai contemporanei e in particolar modo all’ambiente ecclesiastico depositario dell’opinione opposta, ma specificando che la natura delle due impressioni non è cementata attorno ad una singola posizione e che non sono sempre esclusivamente viziose o virtuose.


«Il bello è un ordine e una costruzione di parti che, sia per costituzione primaria, sia per abitudine, sia per capriccio, tende a dare piacere e soddisfazione all’anima. Questo è il carattere distintivo del bello, ossia tutto ciò che costituisce la sua differenza con il brutto, che per naturale tendenza produce dolore»33.



Con queste parole Hume descrive i concetti di bello e brutto, riconoscibili come nel caso dell’arguzia tramite il gusto, e il loro inscindibile legame con la capacità di produrre piacere o dolore a coloro i quali li incontrano; il bello naturale e il bello morale, ossia il virtuoso, vengono così accomunati da questa capacità di produrre una sensazione di piacere, opposta a quella prodotta dal brutto, depositario della capacità di produrre dolore. Risulta così semplice comprendere che anche nel caso del bello e del brutto è la sensazione di piacere e dolore la causa scatenante; e l’orgoglio, così come l’umiltà, destati dal bello e dal brutto in noi presente o a noi collegato, si presentano nella loro pienezza.







4.4 VANTAGGI E SVANTAGGI ESTERNI


Comincia così l’esposizione delle cause di orgoglio e umiltà non appartenenti direttamente al nostro Io, ma ad esso strettamente collegate in modo da facilitare il passaggio da un’idea all’altra. Ovviamente non tutte le relazioni precedentemente esposte sono adatte all’alimentazione della passione dell’orgoglio; la relazione di rassomiglianza ad esempio non si presta efficacemente a questo fine, essendo insito nella nostra natura il preferir riconoscere in noi stessi, in primis, una qualità, piuttosto che per riflessione in un’altra persona. Invece nel caso di contiguità o di causalità, le suddette passioni possono sorgere, essendo queste relazioni «qualità con cui l’immaginazione viene trasportata da un’idea all’altra»34; altra tipologia di relazioni particolarmente efficaci, in molti casi in misura maggiore rispetto alle altre, è quella dei rapporti di proprietà, ossia la «relazione tra una persona ed un oggetto tale da permettere a lui e a nessun altro di usarlo liberamente e di possederlo, senza violare le leggi di giustizia e di equità morale»35. La proprietà quindi può fungere da scintilla per la nascita della passione dell’orgoglio ad esempio, grazie al suo concetto stesso, in quanto un oggetto avente qualità positive, ci procura piacere e conseguentemente orgoglio, solamente se è di nostra proprietà. La medesima cosa avviene nel caso della ricchezza, che Hume considera come la possibilità di acquistare la proprietà di ciò che più ci aggrada, traendo però in gioco le questioni filosofiche di potere ed esercizio dello stesso. Il filosofo in questo caso, concorda con molti pensatori precedenti sostenendo che non sia corretto pensare che un individuo possieda una data qualità se non la mette in atto, ma è costretto, per poter spiegare l’influenza del concetto di proprietà, ad operare una sorta di eccezione; infatti la situazione risulta differente proprio nel caso della ricchezza, che nonostante possa risultare come una sorta di proprietà in potenza, ha la possibilità di influenzare le nostre passioni. E' quindi evidente che nella questione del potere e del suo esercizio, Hume trovi un ruolo importantissimo da dedicare all’esperienza che, essendo la volontà umana estremamente volubile, finisce con l’essere l’unico metro di giudizio della probabilità che un individuo, avente la possibilità di agire in una determinata maniera, passi all’atto. Così le passioni, finiscono con l’essere assoggettate non solamente agli eventi certi ed infallibili, ma anche alle contingenze e alla possibilità; proprio per questo non risulta assurdo pensare che nei casi in cui, un bene probabile si avvicini senza rischiare di essere frenato da cause esterne, il futuro beneficiario provi un piacere paragonabile a quello presente nel momento dell’esistenza reale del bene. Passo inevitabile della trattazione finisce per essere il concetto di paragone; l’importanza del paragone infatti diviene lampante nei casi di applicazione del potere nei confronti di altri individui: infatti per quanto il potere procuri orgoglio e la schiavitù umiltà, queste saranno accresciute nella loro portata di piacere e dolore dalla considerazione dell’altrui condizione.

Vi è però, a parere di Hume, un’altra causa influente sulle passioni umane, ossia la fama; egli infatti sostiene che nessun’altra causa ha sufficiente influenza se non segue il gradimento dei nostri simili, e così la reputazione, il buon nome, il carattere finiscono per essere punti centrali per la vita in società. Ovviamente la fama stessa non potrebbe esistere senza quella che, probabilmente, Hume considera la qualità più importante del genere umano: la simpatia, ossia la nostra tendenza a ricevere attraverso la comunicazione, i sentimenti e le inclinazioni altrui. Molte passioni infatti, come nel caso dell’odio, del risentimento, dell’amore, della stima, vengono percepite principalmente per comunicazione; la simpatia funziona in maniera diversa rispetto alle altre qualità umane, attraverso la comunicazione infatti, noi percepiamo ciò che il nostro interlocutore ci vuole trasmettere, trasformandolo in idea. L’idea viene quindi istantaneamente trasformata in un’impressione, acquisendo un grado di vivacità e intensità tali da convertirla direttamente nella passione stessa. A coadiuvare questo processo interviene anche la relazione di rassomiglianza tra il nostro Io e quello della persona che ci troviamo di fronte, ed avendo la natura creato gli esseri umani simili l’uno all’altro, ogni passione che ci viene trasmessa risulta a noi facilmente concepibile, essendo della stessa tipologia delle nostre. Interviene anche la relazione di contiguità nel concetto di simpatia e nel nostro rapporto con gli altri, al punto che la nostra considerazione dei sentimenti altrui è fuor di dubbio maggiore, nel caso in cui questi intrattengano con noi rapporti sociali o legami di sangue. E’ in base a questi principi che la soddisfazione ricevuta dall’apprezzamento altrui varia, a tal punto che l’approvazione di chi disprezziamo ci risulta quasi sgradevole, al contrario di quella riservataci da chi stimiamo e viceversa; ciò significa che la mente non riceve impulsi originari riguardo alla fama e all’infamia, altrimenti valuteremmo nella stessa maniera le opinioni di tutti i nostri simili, ossia ci influenzerebbero senza distinzioni. E’ per questo che, seguendo un esempio citato da Hume, non è raro osservare chi è caduto in disgrazia: cercare fortuna tra gli stranieri piuttosto che nel proprio paese natio, infatti il peso del disprezzo dipende dalla simpatia che proviamo per la persona che ce lo riserva, sia esso parente, amico o comunque a noi caro; preferire vivere in povertà tra persone a lui sconosciute piuttosto che dover patire il disprezzo dei parenti; nascondere il proprio nome e le proprie origini, soprattutto se superiori all’attuale tenore di vita. Quindi la simpatia come precedentemente spiegata, e il ragionamento, sono i movimenti principali che ci spingono a considerare i giudizi degli altri, sia riguardo ad oggetti esterni sia riguardo a noi stessi, influenzando le nostre opinioni in entrambi i casi.








4.5 LE PASSIONI DI AMORE E ODIO


L’esame che nel Treatise viene fatto, riguardo alle passioni di amore e odio, si apre con l’ammissione da parte di Hume, che tali concetti sono a noi sufficientemente noti grazie all’esperienza quotidiana; il filosofo nota inoltre le difficoltà che un progetto finalizzato alla definizione di tali passioni comporta, tra cui la stessa semplicità di tali impressioni, non partecipando di alcuna mescolanza o composizione. La trattazione quindi, poste tali premesse, prende la strada dell’analisi dell’oggetto di amore e odio, paragonando la situazione di queste con la stessa delle passioni di orgoglio e umiltà; rispetto a queste ultime infatti, che dirigono la propria attenzione verso il nostro Io, le passioni di amore e odio pongono come oggetto una qualche altra persona, della quale non conosciamo pensieri, azioni e sensazioni. Hume avverte subito però, di non confondere ciò che viene definito amor di sé, con l’amore in senso stretto, perché l’amor proprio se sottoposto ad attenta analisi, risulta ovviamente di natura diversa e non paragonabile alla passione in esame. Fatta tale precisazione l’autore inizia la disamina delle cause delle passioni di amore e odio; se infatti l’oggetto fosse anche causa, essendo amore e odio direttamente contrarie, verrebbero destate contemporaneamente e in egual misura, provocandone l’annullamento. Le cause delle due passioni così, risultano essere di varia natura; virtù, buon senso, conoscenza e altre qualità mentali possono essere terreno fertile per la nascita della passione amorosa e della stima, così come i loro contrari fungono da scaturigine per le passioni di odio e disprezzo; ma anche le qualità fisiche, come la bellezza, la forza, la destrezza e i loro contrari, possono assurgere a cause delle succitate passioni. E’ così di semplice comprensione il fatto che la qualità, causa della passione deve appartenere o essere strettamente legata all’oggetto della stessa; nel momento in cui il legame viene ad essere reciso, anche la passione finisce per essere annullata. Per meglio chiarire la natura delle passioni di amore e odio, e il loro rapporto con orgoglio e umiltà, Hume si impegna in una serie di esperimenti, avendo premesso che il suo intento è, in un certo qual modo, rendere intellegibile la rete di connessioni tra queste passioni; l’amore è infatti legato all’orgoglio attraverso le sensazioni o impressioni suscitate, così come lo è l’odio con l’umiltà; amore e odio sono legati a causa della condivisione del loro oggetto in ugual maniera di orgoglio e umiltà. Gli esperimenti sono otto: il primo ci pone in compagnia di un’altra persona, in presenza di un oggetto privo di relazioni di impressioni o idee; nessuna delle quattro passioni precedentemente presentate si desterà. Il secondo esperimento presenta gli stessi protagonisti, ma l’oggetto in questione possiede una relazione di idee con l’oggetto della passione; anche in questo caso, nessuna passione viene destata, in quanto «nessun oggetto triviale o volgare, che non sia causa di dolore o piacere, indipendente dalla passione, sarà mai in grado, per qualche sua proprietà o altre relazioni sia con noi sia con gli altri, di produrre le affezioni di orgoglio o di umiltà, di amore o d’odio»36. Il terzo vede l’impiego di una relazione di impressioni al posto della precedente; anche in questo caso però, la connessione non è sufficiente a risvegliare una passione, nonostante risulti più efficace della relazione di idee. Portati a termine questi primi tre esperimenti, risulta ovvio alla ragione che per poter far nascere una passione è necessaria una duplice connessione; ponendo così l’oggetto, ossia la virtù in questo caso, in relazione all’Io, la passione sorge istantaneamente. Il quinto, sesto, settimo e ottavo esperimento descrivono il completamento del percorso logico, ponendo in gioco anche le relazioni di amicizia o parentela tra i due soggetti protagonisti, situando le qualità in entrambi gli individui alternativamente, e producendo nel caso in cui la qualità sia nel nostro simile, una passione, ad esempio di orgoglio, successiva a quella dell’amore, mentre nel caso in cui la qualità sia appartenente a noi stessi, solamente la passione di orgoglio o umiltà, senza la corrispettiva, rivolta all’altro soggetto, quinto e sesto esperimento; il settimo esperimento, funge da verifica del sesto; l’ottavo presenta invece un’eccezione al sistema che prevede una maggiore facilità di discesa verso le nostre passioni, così come verso gli altri oggetti, piuttosto che di risalita, e che l’immaginazione passa con difficoltà dal vicino al lontano. Infatti il caso in cui la causa di orgoglio e umiltà viene posta in un’altra persona, diviene evidente che l’approvazione o il biasimo di quest’ultimo provoca in noi amore o odio.

Hume pone però come necessaria, una precisazione all’interno del suo sistema; la tipologia di rapporto che noi intratteniamo con un’altra persona è frutto, e questo risulta evidente per esperienza, delle quantità di piacere e dolore che questi ci procura. Il piacere e il dolore procuratici, per incidere in maniera significativa sul tipo di passione scaturente dalla suddetta relazione, devono comunque essere di natura intenzionale; infatti, a parte i casi in cui ciò che ci procura piacere o dolore è un tratto caratteristico dell’individuo in questione, le nostre passioni di amore e odio necessitano inevitabilmente dell’intenzionalità dell’azione per poter sorgere. Dimostrazione lampante di questa teoria è che la rabbia, scaturita da un’azione compiuta senza premeditazione, svanisce velocemente; oppure nel caso in cui, chi ci danneggia, lo fa senza intenzioni malvagie, ma per giustizia o equità, non ottiene la nostra ira, se la ragione ci sostiene. Gli esempi citati, finiscono con l’essere la conferma che amore e odio in queste situazioni, devono nascere con l’aiuto di una relazione di idee, perché come nel caso del dolore non premeditato, una relazione di impressioni risulta essere troppo debole per poter reggere da sola la nascita di una passione, come quella dell’odio.

Una tipologia di relazione che in alcuni casi accompagna le relazioni di idee e impressioni, è quella esistente tra due individui che condividono un legame di sangue; il legame di parentela è definibile come una relazione stretta, tra noi e l’oggetto della nostra passione, e garantisce la condivisione della passione a prescindere dalle qualità appartenenti all’oggetto della stessa. Un legame molto simile a questo, è quello della familiarità, che si sviluppa tra individui che non condividono un rapporto di parentela, ma uno di intimità, e garantisce la preferenza di un soggetto ad un altro, straniero, nonostante questo sia razionalmente superiore. Questo rapporto trova terreno fertile tra individui simili tra loro, che quindi condividono aspetti del proprio carattere, del proprio temperamento o delle proprie disposizioni; la somiglianza quindi, attraverso la simpatia, produce una connessione di idee. Il motivo principale di questo stato di cose, è che:


«la mente trova soddisfazione e sollievo nel riconoscere gli oggetti a cui è abituata, e le è naturale preferirli agli altri, i quali, sebbene abbiano forse in sé maggior valore, le sono meno noti»37.




Particolare non trascurabile di queste due relazioni è che non solo l’immaginazione debba passare facilmente da un oggetto all’altro tramite rassomiglianza, contiguità o causalità, ma anche che torni indietro facilmente dal secondo al primo; questa caratteristica però non sempre viene rispettata, infatti in alcuni casi il passaggio di ritorno, finisce per essere estremamente difficoltoso; questo avviene in particolar modo in presenza di un terzo oggetto, posto in relazione con il secondo. L’immaginazione si muove facilmente verso quest’ultimo oggetto, perdendo così il contatto con il primo e indebolendo la relazione che lo lega con il secondo.

Tornando sul discorso precedentemente accennato, riguardante la stima che proviamo per i ricchi e potenti, Hume sostiene che ricchezza e povertà, sono accompagnate da una relativa stima e disprezzo; stima e disprezzo come è intuibile sono per il filosofo una sorta di amore e odio ed egli sostiene che queste passioni, siano suscitate in noi da tre cause principali: dagli oggetti posseduti dall’individuo stimato, che suscitano piacere in chiunque li osservi; dalle aspettative di condivisione del beneficio dei beni posseduti dai ricchi e potenti; dalla simpatia, che ci permette di condividere la soddisfazione di chi ci si avvicini. Detto questo Hume provvede ad esaminare nel particolare, quale di queste cause sia la maggiore responsabile della passione in questione; la prima considerazione risulta essere che la causa relativa all’idea gradevole degli oggetti di cui la ricchezza permette di godere, finisce col dissolversi all’interno della terza, ossia quella inerente al concetto di simpatia. Infatti il piacere causato dalla visione delle ricchezze di un individuo, ben si sposa con il piacere che la simpatia fa sorgere in noi rendendoci partecipi del suo godimento, anche se solo osservato; questa motivazione, al termine della disquisizione risulterà a Hume la più completa, a causa del coinvolgimento della simpatia. Per quanto riguarda infine la seconda causa, il filosofo sostiene che per poter sperare di partecipare attivamente al godimento prodotto da ricchezze altrui, è necessario che il proprietario delle suddette, sia a noi legato da una qualche disposizione favorevole, sia essa amicizia, benevolenza o altro; in caso contrario risulta decisamente complicato comprendere da dove possa sorgere la speranza di condividere i suoi possedimenti, e la nostra stima nei suoi confronti termina anche in questo caso, con l’essere frutto della simpatia.








4.6 BENEVOLENZA, RABBIA, COMPASSIONE, MALIZIA E INVIDIA


Per introdurre il tema dei concetti di benevolenza e rabbia, David Hume utilizza una similitudine, allo scopo di chiarire la natura di queste passioni, la loro struttura e la loro posizione all’interno del proprio sistema. Il filosofo paragona così le idee, all’estensione e alla solidità della materia, sostenendo che queste siano provviste di una qual sorta di impermeabilità che, facendo sì che si escludano reciprocamente, non permette loro un’unione totale, ma solamente una congiunzione priva di mescolanza; le impressioni invece, soprattutto quelle di riflessione, paragonabili ai colori, ai gusti, agli odori e alle altre qualità sensibili, possono unirsi tra loro in maniera completa e mescolarsi perfettamente perdendo anche la propria identità a vantaggio di una variazione dell’insieme. Fatta tale precisazione, lo scozzese entra nel merito delle passioni di benevolenza e rabbia, spiegando che queste seguono, o meglio si congiungono immancabilmente con l’amore e l’odio, ad ogni loro manifestarsi; questo significa che l’amore e l’odio, a differenza dell’orgoglio e dell’umiltà che sono ritorti in loro stessi, invogliano la mente ad effettuare un ulteriore passaggio. La benevolenza e la rabbia sono così definibili come il desiderio di felicità della persona amata e un’avversione per la sua miseria, nel caso della prima; e un desiderio di miseria e un’avversione alla felicità della persona odiata per quanto riguarda la seconda. La conclusione di Hume è che:



«possiamo…inferire che la benevolenza e la rabbia sono passioni differenti dall’amore e dall’odio, e che sono a questi congiunte solo per originaria costituzione della mente…Secondo che siamo posseduti dall’amore o dall’odio, il corrispondente desiderio di felicità o miseria della persona che è oggetto di queste passioni sorge nella mente, e varia col variare di queste opposte passioni»38.



La compassione viene definita all’interno del Treatise, come un interessamento all’altrui miseria che può avere anche una variante negativa, degradata nella malizia, nel caso in cui l’interessamento sia di stampo negativo, ossia che ci faccia provare gioia il constatare la sofferenza altrui; caratteristica costituente di queste due passioni è il fatto che in questo caso il loro oggetto non è connesso a noi tramite rapporti di amicizia o inimicizia. Esse nascono grazie all’influsso dell’immaginazione, il che è intuibile anche dalla dipendenza, ad esempio della pietà, dalla vicinanza dell’oggetto della passione, dalla sua contiguità, o comunque dalla possibilità di osservarlo. Un’ultima precisazione è necessaria secondo il filosofo scozzese; queste passioni, comunicateci tramite la simpatia, a volte traggono forza dalla debolezza della corrispondente passione originaria; infatti spesso capita che la nostra pietà sia rinvigorita dalla vista di chi, in situazione di difficoltà, non si rattrista o addirittura riesce ad eliminare ogni senso di disagio. In alcuni casi inoltre, il venire a conoscenza di una disgrazia avvenuta ad un individuo meritevole, ci porta a concepire una nuova passione di pietà dentro di noi, direttamente proporzionale alla grandezza del presunto disagio provato dal suddetto individuo, disinteressandoci però se la passione dolorosa sia effettivamente provata da questo. In altri termini questa è la dimostrazione che l’immaginazione si muove in base alle regole generali, e spesso indipendentemente dalle situazioni attuali.

Le passioni di malizia e invidia sorgono a parere del filosofo scozzese conseguentemente al confronto che gli individui umani tendono a mettere in atto nell’ambito delle proprie valutazioni; noi reputiamo i nostri stati, la nostra condizione e anche gli oggetti, molto di rado in base al loro valore intrinseco, mentre siamo ben più disposti a considerarli in paragone con altri oggetti, stati o condizioni. Solitamente la soddisfazione o il disagio, aumentano o diminuiscono conseguentemente alla valutazione fatta considerando gli oggetti altrui, al nostro usuale tenore di vita e così dicendo; così la malizia e l’invidia non nascono da altro, se non dall’idea della nostra miseria paragonata con l’altrui felicità. Lo stesso ragionamento, invertito nei soggetti e nelle passioni produce una sensazione di piacere, quando ad esempio la miseria di un nostro simile rende più vivida l’idea della nostra felicità. Si può presentare un percorso mentale simile, quando ad esempio ricordiamo i nostri dolori passati, e paragonandoli alla nostra migliore situazione attuale proviamo piacere; ovviamente ribaltando la situazione, la memoria del nostro passato può procurarci dolore. La differenza più importante tra la passione di malizia e quella di invidia, risiede però nel fatto che la prima è un «desiderio spontaneo e ingiustificato di arrecare danno agli altri, affinchè possiamo trarne piacere per contrasto»39, mentre la seconda viene risvegliata da un qualche divertimento altrui che sminuisce l’idea che abbiamo della nostra condizione. Unico metodo per poter eliminare queste passioni è la rescissione dei legami; se infatti vengono a mancare le relazioni di rassomiglianza e prossimità, le due idee non possono più influenzarsi reciprocamente e le sensazioni di malizia ed invidia finiscono per sparire.

Hume a conclusione di questo tema, nota un’incongruenza nel suo sistema; infatti egli pone nella pietà una specie di mescolanza di amore e tenerezza, mentre nella malizia individua la presenza di odio e rabbia. Essendo la pietà una sorta di dolore e la malizia una sorta di gioia, esse dovrebbero essere invertite nelle loro posizioni, e la pietà dovrebbe essere legata all’odio mentre la malizia all’amore. Per spiegare questa situazione, il filosofo esplica nuovamente il concetto di benevolenza e di rabbia, osservando che, essendo il desiderio per la felicità altrui e l’avversione per la sua miseria, ossia la pietà, simile alla benevolenza e viceversa il desiderio per la sua miseria e l’avversione per la sua felicità, ossia la malizia, simile alla rabbia; essi sono correttamente collegati.










4.7 IL RISPETTO, IL DISPREZZO E LA PASSIONE AMOROSA


Il rispetto e il disprezzo nella concezione di Hume sorgono dalla mescolanza di due passioni, ovvero amore e umiltà nel primo caso, e odio e orgoglio nel secondo. Questo avviene perché nella considerazione delle qualità altrui, noi possiamo agire in tre modi diversi: valutandole per ciò che sono realmente in sé, confrontandole con le nostre qualità, oppure combinando queste prime due metodologie; ed è proprio da quest’ultimo sistema che nasce il rispetto o il disprezzo, mentre con il primo metodo si ottiene amore e con il secondo umiltà. Ovviamente il caso tracciato è inerente a qualità positive; nel caso in cui queste fossero negative, le passioni sorgenti dai primi due metodi sarebbero odio e orgoglio. Il filosofo sottolinea però che essendo l’essere umano più incline all’orgoglio, la quantità di questa passione all’interno del disprezzo è sicuramente superiore a quella di umiltà presente nel rispetto; dimostrazione di ciò è il fatto che ogni individuo prova più piacere sentendo che un simile è suo sottoposto, piuttosto che dolore sapendo di essere sottoposto egli stesso. E per quanto inoltre, amore e orgoglio suscitano parimenti piacere e le passioni di odio e umiltà dolore, «è evidente che gli oggetti producono sempre per confronto una sensazione direttamente contraria alla loro originaria»40.

Per concludere la sezione relativa alle passioni frutto di mescolanza, Hume descrive la passione amorosa, o amore tra i sessi, delineandola come concomitanza della piacevole sensazione della bellezza, del desiderio corporeo per la generazione e di tenerezza o benevolenza. Il filosofo scozzese sostiene però che la tenerezza, o stima, e il desiderio di generare si trovano in posizioni diametralmente opposte l’una rispetto all’altra, e così stando le cose la loro possibilità di unirsi sia minima. E’ qui che interviene l’amore per la bellezza, che grazie alla sua partecipazione ad entrambe le passioni opposte, si pone in posizione intermedia fungendo da trait d’union tra le due. Le tre passioni sono quindi indispensabili le une alle altre, e per quanto distinte e provviste di un proprio oggetto, se separate non possono suscitare la passione amorosa; la relazione tra queste è quindi necessaria, ma inevitabilmente non sufficiente, in quanto senza un’ulteriore associazione di idee tutto il sistema verrebbe a crollare.


4.8 LIBERTÀ E NECESSITÀ


Per poter introdurre l’argomento delle passioni dirette, ossia quelle impressioni che sorgono immediatamente dal bene o dal male, dal piacere o dal dolore, come il desiderio, l’avversione, l’angoscia, la gioia, la speranza e il terrore, Hume trova necessaria l’esposizione dei concetti di libertà e di necessità e dell’esplicazione del significato della volontà, ossia «l’impressione interna che proviamo, e di cui siamo consapevoli, quando deliberatamente produciamo un nuovo movimento del nostro corpo, o una nuova percezione della nostra mente»41. Essendo libertà e necessità indissolubilmente connessi con il tema della volontà, il filosofo li illustra nella prima parte della stesura dell’argomento. Partendo dall’osservazione della necessità attribuibile alle operazioni dei corpi esterni, Hume mette in luce una serie di dimostrazioni, atte a cancellare la libertà come considerata fino ai suoi tempi; la necessità a parere del filosofo sorge dalla connessione costante tra i vari oggetti, e dalla capacità della mente umana, di passare da un oggetto all’altro, inferendo grazie all’esistenza di uno, quella dell’altro. Viene così sottolineata dallo scozzese, l’esistenza di un corso generale delle azioni umane, del tutto simile a quello del sole o del clima, evidenziabile attraverso l’osservazione dell’uniformità nelle azioni stesse; e quest’uniformità altro non è che necessità. Lo scopo di questa conclusione è quindi quello di dimostrare l’infondatezza della libertà, intesa come assenza di necessità, e la connessione tra moventi e azioni risulta essere l’arma vincente; gli uomini sono da sempre interessati allo studio delle azioni proprie e altrui, il filosofo scozzese sostiene che formulando dei giudizi sulle suddette azioni, ossia cercando di comprendere i moventi, noi non facciamo altro che portarne alla luce la necessità, ed è solamente grazie all’intervento dell’esperienza che riusciamo a inferire l’esistenza di un oggetto, ossia l’effetto, da quella di un altro, la causa. Quindi, essendo la necessità, una parte indispensabile della causalità, l’esistenza della libertà, se concepita come rimozione della necessità, comporterebbe anche l’eliminazione delle cause, finendo per coincidere con il caso. Per spiegare le nostre sensazioni riguardo alla libertà, e la sua particolare supremazia, Hume presenta tre ragioni: nel primo caso l’autore del Treatise sottolinea la difficoltà di ogni individuo, ad accettare la necessità come propria guida incontestabile. Infatti pur essendo disposti ad ammettere di agire in una determinata maniera perché influenzati da particolari motivi, noi non riusciamo a sottometterci all’idea di non poter agire in un modo differente rispetto a quello seguito in una data situazione; questo avviene perché la necessità, porta con sé un alone di violenza, di costrizione, che ci priva in un certo senso della possibilità di scelta. Per il filosofo scozzese però non è così, infatti egli coglie un’importante differenza tra la libertà di spontaneità, che si oppone alla violenza della necessità e la libertà di indifferenza, che nega completamente la necessità e la causalità; la forma di libertà da salvaguardare risulta essere ovviamente la prima, in quanto la seconda condurrebbe alla fine tutto il presente sistema. La seconda ragione evidenziata da Hume porta in causa proprio quella libertà di indifferenza, che sembrava dover essere eliminata a favore della tutela della necessità; questa tipologia di libertà infatti, secondo lo scozzese, è sottoposta ad una falsa sensazione o esperienza che viene spesso sfruttata come argomento a favore della sua esistenza. La nostra sensibilità infatti ci spinge a credere di poter disporre liberamente delle nostre capacità, e di essere quindi causa esclusiva delle nostre azioni tramite la volontà, concepita a sua volta come un qualcosa di libero e a nulla assoggettato; ma l’esperienza ci dimostra facilmente che così non è. Basta infatti pensare di porsi dalla parte di uno spettatore delle nostre azioni: attraverso l’esame del nostro carattere e delle nostre motivazioni, un estraneo, potrebbe facilmente inferire il nostro comportamento e modo d’agire, ovviamente se e solo se, messo al corrente dei particolari della situazione e fornito dei dati necessari. La terza e ultima ragione del successo della dottrina della libertà è da attribuirsi secondo l’edimburghese, all’influenza della religione; il concetto di necessità infatti, se connesso alle azioni umane, le libererebbe dall’influsso della volontà, conducendo così all’eliminazione della colpa; Hume sostiene invece che la sua dottrina della necessità sia indispensabile per l’attribuzione di meriti e demeriti alle azioni umane, perché il timore della pena e la glorificazione della virtù, fungono da linea guida, influenzando la vita delle persone. Essendo questa influenza una motivazione, produttrice di un’azione, quindi causa, essa non può essere concepita senza il concetto di necessità che le è indispensabile. L’azione dunque, secondo Hume, deve nascere all’interno di qualcosa di più durevole rispetto ad un singolo atto di volontà per poter essere ascritta ad un individuo e quindi punita o lodata in base alla sua natura; se infatti l’azione malvagia nasce tramite la necessità, con il supporto delle motivazioni e del carattere, l’individuo può essere ritenuto colpevole, e il carattere stesso, sorgente in un certo qual modo dell’atto vizioso, corrompersi.

Il quesito che si pone a questo punto non può riguardare altro, se non l’origine della volontà; secondo Hume la volizione non può sorgere dalla ragione e conseguentemente, quest’ultima, non è in grado di opporsi alle passioni nel dirigere la volontà. Il filosofo per spiegare queste due affermazioni, premette che a suo parere, l’intelletto si muove in due maniere, considerando le relazioni astratte delle idee, quindi eseguendo delle dimostrazioni, oppure osservando le relazioni degli oggetti sottoposti all’esperienza, ossia valutando le probabilità. Hume valuta in questo caso, volizione e dimostrazione, come perfettamente estranee, essendo la dimostrazione unicamente inerente al mondo delle idee e la volizione figlia del mondo reale; la ragione quindi ci permette di conoscere le relazioni con gli oggetti e la probabilità che tali relazioni ci procurino dolore o piacere, ma non sarà mai essa, la fonte della volontà. E così come non ne è la fonte, la ragione, non può nemmeno essere l’oppositrice della volontà; infatti l’unico modo che avrebbe essa, di opporsi al movimento della volizione, sarebbe quello di scatenare un impulso contrario alla passione provata, ma questo impulso, se possibile in direzione contraria, sarebbe dovuto essere possibile anche nell’altra, facendo sorgere così una volizione. Quindi la ragione, non essendo in grado né di opporsi, né di creare, un atto di volizione, non può essere il principio opposto alle passioni, e non può quindi controllarle. E’ quindi scorretto sostenere che la ragione debba fare da giudice alle passioni; essendo queste delle esistenze originarie, non possono essere contraddette dalla ragione o da altri principi, perché ciò significherebbe assistere ad un disaccordo tra idee e oggetti rappresentati dalle stesse. Quando sosteniamo che una passione è contraria alla ragione, noi sbagliamo in un certo senso, i termini del discorso; non è infatti la passione in sé ad essere contraria alla ragione, ma lo è la supposizione sulla quale si fonda, come accade per il terrore o l’angoscia basati su qualcosa di inesistente, oppure i mezzi usati per esprimere la passione stessa adoperati in maniera scorretta. Una passione quindi, non può essere considerata irragionevole, se non quando si accompagna ad un giudizio falso, e sarà quindi questo, da considerarsi irragionevole, non la passione in sé; proprio per questo la ragione, è sì schiava della passioni e ad esse sottomessa, ma è pur vero che nel momento in cui, l’individuo percepisce la falsità delle sue supposizioni o l’inadeguatezza dei mezzi usati, la passione si arrende alla ragione. Un’ultima precisazione è necessaria alla comprensione dei meccanismi della volontà; molte volte, sostiene il filosofo edimburghese, capita di confondere una passione calma con un atto della ragione, ed è proprio questo l’errore compiuto dai predecessori, e che li ha spinti a sostenere la superiorità della ragione sulle passioni; invece questo prevalere delle passioni calme sulle violente è ciò che si chiama forza della mente, agente sulla volontà ma non figlia della ragione.









4.9 L’ABITUDINE, LA CONTIGUITÀ E LA DISTANZA NELLO SPAZIO E NEL TEMPO


L’abitudine esercita un’influenza enorme sulla mente umana e sulle passioni; essa può agevolare il compimento di un’azione o il concepimento di un oggetto, suscitare una tendenza o inclinazione verso di esso e può aumentare o diminuire le nostre passioni, convertire il dolore in piacere e viceversa. Hume spiega che se l’anima non è abituata a compiere un’azione o a concepire un particolare oggetto, il suo modo di agire risulta particolarmente rigido; la novità però eccitando gli spiriti animali, origina la meraviglia e il piacere ed il dolore derivanti da essa che essendo inesplorati, scuotono lo spirito con maggiore forza. Attraverso la ripetizione, la mente si abitua alla novità, provando piacere nella facilità, a condizione che questa non superi un determinato grado che condurrebbe la sensazione di piacere a trasformarsi in dolore se in presenza di un’affezione vulnerabile alla ripetizione stessa.

Evidenziando l’importanza dell’immaginazione David Hume racconta un avvenimento storico greco avente come protagonisti Temistocle, Aristide e gli Ateniesi, utilizzandolo come esempio per le sue teorie. Una volta illustrato il racconto, la cui conclusione elogia la correttezza morale degli Ateniesi, che posti d’innanzi ad un’azione vantaggiosa ma iniqua la rifiutano, il filosofo scozzese si dice poco sorpreso dal modo d’agire del popolo, in quanto essendo stato presentato il piano come vantaggioso, ma non avendo potuto la comunità, conoscerlo nei particolari, la sua influenza è sicuramente risultata poco considerevole per la loro immaginazione.

L’immaginazione ovviamente, è anche implicata nella nostra capacità di figurarci oggetti lontani, nello spazio e nel tempo; un oggetto a noi contiguo non necessita uno sforzo immaginativo ampio per essere concepito con forza e vitalità, mentre più l’oggetto è da noi distante, più sarà difficoltoso ottenerne una percezione chiara. Questo avviene perché nel pensare gli oggetti, noi non passiamo da un oggetto ad un altro enormemente distante, ma per quanto in maniera sommaria li esaminiamo tutti e nell’esame di ogni singolo oggetto interposto a quello che infiamma il nostro interesse, il nostro Io torna a se stesso, riconsiderando sé e la propria condizione precedente. Così facendo però, il passaggio diventa impervio, l’idea ne risulta indebolita e il concetto non brilla della stessa luce attribuibile a quello di un oggetto vicino. E’ inoltre molto importante ricordare che esiste una differenza tra la distanza nello spazio e quella nel tempo; infatti le conseguenze e l’influenza sull’immaginazione, la volontà e le passioni, della prima non sono minimamente paragonabili a quelle della seconda, a causa delle differenti proprietà delle due. Essendo lo spazio «un certo numero di parti coesistenti, disposte in un certo ordine, e capaci di essere contemporaneamente presenti alla vista e al tatto»42, mentre il tempo un simile numero di parti, le quali però non possono mai presentarsi contemporaneamente le une con le altre, ne consegue che il passaggio dell’immaginazione sia più agevole nel primo caso, potendo il pensiero trasferirsi facilmente tra le parti contigue e simultanee, mantenendo una grande vivacità. L’idea così, maggiormente indebolita dal passaggio attraverso il tempo, per sua stessa natura indebolisce anche l’intensità delle passioni ed è per questo che una distanza temporale influenza maggiormente la nostra immaginazione di una distanza spaziale. Ancor di più, all’interno delle distanze temporali, è necessario ammettere che una distanza nel passato, è più condizionante di una nel futuro; in quanto alla volontà, questa alterazione tra passato e futuro è facilmente spiegabile dall’impossibilità da parte della volizione di alterare il passato. Per quanto riguarda invece le passioni, l’influenza di passato e presente è una conseguenza del normale procedere nel tempo; l’immaginazione si muove più facilmente seguendo il naturale corso temporale, mentre le si chiede uno sforzo maggiore per spostarsi nel passato. Per via di questa difficoltà incontrata nel retrocedere a livello temporale sarà facile immaginare che il passaggio nel futuro, agevolato dall’abitudine e dalla facilità, renderà le passioni più vivide e forti. Bisogna notare però che le passioni, suscitate da oggetti distanti da noi, vengono aumentate nel loro grado di vivacità proprio dalla distanza stessa. Se esaminiamo ad esempio, un oggetto per noi irraggiungibile, l’immaginazione ci permette di ottenere una soddisfazione di maggiore entità, dovuta alla somma dei piaceri causati dall’oggetto stesso e dalla grande distanza che ci separa da questo; la lontananza non deve necessariamente essere fisica, o meglio, l’oggetto non deve propriamente trovarsi lontano da noi, è sufficiente che per associazione di idee, la nostra mente venga trasportata ad una notevole distanza. Inoltre come le distanze temporali risultano maggiormente difficoltose se paragonate a quelle spaziali, così il piacere procurato dalle prime sarà superiore a quello ottenuto grazie alle seconde. Il piacere sorto dalla distanza, sia essa temporale o spaziale, è frutto dell’opposizione, infatti l’opposizione se non è in grado di fiaccarci completamente ottiene l’effetto contrario, ossia rinvigorisce le nostre passioni, portandole ad uno stadio superiore di vivacità; la facilità al contrario, come precedentemente ricordato, se superiore a determinati limiti, “addormenta” le nostre forze abbassando il grado delle passioni. Il motivo del maggior piacere procurato dall’opposizione delle distanze nel tempo è dovuto al fatto che le porzioni di spazio, si presentano alla mente in maniera unitaria, mentre quelle di tempo no; questa situazione provocando maggiore difficoltà di passaggio, comporta un livello più alto di piacere. Questo però, non è completamente vero se la distanza temporale è posta nel futuro; infatti la precedente esposizione ci dà la dimostrazione del perché noi siamo ben disposti a venerare l’antichità, ma ci pone anche di fronte alla nostra scarsa predisposizione a credere che gli individui futuri possano esserci superiori. Ciò avviene per via della nostra abitudine a pensarci posti in una sorta di medietà temporale tra passato e futuro, considerando il percorso in discesa e ponendo così gli antichi all’apice e le generazioni future al punto più basso.











4.10 LE PASSIONI DIRETTE


Le passioni dirette così come quelle indirette sorgono conseguentemente al presentarsi di un dato piacere o dolore; senza la presenza di queste sensazioni, anche le passioni stesse non potrebbero esistere. Se la passione nasce con naturalezza e in modo semplice dal bene o dal male viene definita diretta, di questo tipo sono ad esempio il desiderio, l’avversione, l’angoscia, la gioia, la speranza, il terrore e la volizione. La gioia e il dolore nascono da un bene o da un male, certo o probabile; la paura e la speranza da beni o mali incerti; il desiderio e l’avversione dalla considerazione di determinati beni o mali; la volontà sorge invece quando bene o male vengono ottenuti, nel primo caso, o fuggiti, nel secondo, attraverso un’azione frutto della mente o del corpo. Ma esistono altre cause scatenanti le passioni dirette; può capitare infatti che un impulso o un istinto, naturali e inspiegabili, generino ad esempio il desiderio di punire i nemici o la speranza che gli amici siano felici. In questi ultimi casi, la passione non nasce direttamente dalla sensazione di piacere o dolore, dal bene o dal male, ma più propriamente ne è la causa. Vi è però un caso, alquanto particolare, tra le passioni dirette, cioè quello delle impressioni di speranza e paura; queste sono soggiogate dalla probabilità in quanto, non essendo il bene o il male certi, la mente viene portata da una parte all’altra senza potersi soffermare su una delle due. All’interno di queste passioni, dolore e gioia sono come mescolati, a causa proprio dell’attività incessante dell’immaginazione, che essendo più rapida delle passioni, salta da un punto all’altro, non permettendo a queste di sperimentare con precisione la sensazione di piacere o dolore; in questi casi può avvenire che le due passioni, mescolandosi, ma non unendosi perfettamente, diano vita ad una terza impressione o affezione, oppure può capitare che le due sensazioni si susseguano l’un l’altra, nel caso in cui le passioni sorgano da oggetti diversi, o addirittura che si annullino.

La passione più grande però, a parer di Hume, è quella che spinge gli esseri umani verso la conoscenza e la ricerca della verità, ossia la curiosità. La verità , fine della ricerca consistente in questa passione, è di due generi secondo il filosofo scozzese: o consta nella «scoperta delle proporzioni tra le idee in quanto tali o nella conformità delle nostre idee degli oggetti alla loro esistenza reale»43; la prima si posa sulla certezza di prove dimostrative, mentre la seconda su quelle sensibili. Però, perché la scoperta della verità risulti piacevole agli esseri umani, essa deve rispettare e possedere determinate proprietà; infatti conoscere la verità senza aver dovuto applicare il proprio ingegno e la propria abilità garantisce ben poco piacere; ciò che risulta essere troppo semplice, ma anche difficile in sé, finisce col risultarci doloroso, o comunque poco piacevole se conosciuto senza sforzo. Un’altra caratteristica ineliminabile, garante del piacere nella scoperta della verità, è che questa sia di una qualche importanza; senza questa particolarità il sapere sarebbe fine a sé stesso, un mero esercizio stilistico privo di ogni utilità. E’ inoltre evidente, che per quanto il desiderio di ricercare il sapere e la verità, sia genuino, esso non può essere il punto d’arrivo di sé stesso; il successo quindi della ricerca stessa ricopre un ruolo di una certa importanza nel raggiungimento del piacere ottenibile tramite questa passione; ovviamente ogni ricerca deve essere supportata da un certo livello di interesse, che animi la nostra attenzione e ci permetta così di proseguire sulla strada del sapere; così la curiosità, insita inevitabilmente in ognuno di noi, ci spinge inesorabilmente ad interessarci di infiniti oggetti.















5 CONCLUSIONI


Il Treatise of Human Nature di David Hume sembra essere interamente realizzato con un’impronta di stampo sociologico; in particolar modo, nel secondo libro dell’opera, destinato all’analisi delle passioni umane, l’autore fa spesso ricorso all’enunciazione di esperimenti svolti in ambito sociale, col fine di spiegare le varie tipologie di impressioni, le loro cause, gli oggetti che coinvolgono e il loro presentarsi all’interno dell’esistenza reale. Così viene fatto per l’orgoglio e l’umiltà, per l’amore e l’odio, ma anche per l’esposizione delle relazioni necessarie alla nascita delle suddette passioni, per il tema della volontà, della libertà e via dicendo; addirittura si può affermare che la grande maggioranza delle definizioni fornite dal filosofo scozzese consistano, non in formule fisse e cementate, come accade per molti suoi predecessori e successori, ma in dimostrazioni empiriche, reali e ben documentate, ottenute grazie all’osservazione e in un certo qual modo alla catalogazione quotidiana dei fatti umani. E’ questa la vera impostazione scientifica, la nuova spinta metodologica, che l’edimburghese intendeva dare alla sua opera e che sin dal principio di questa la pervade, trasportando il lettore attraverso gli occhi dell’autore, in un’indagine vera e propria della natura umana, dedita allo studio delle emozioni, dei comportamenti, in un certo senso anche dei caratteri, delle relazioni interne ed esterne che costituiscono l’universo infinito delle possibilità della specie umana. Ma Hume, questo universo infinito, probabilmente grazie e a causa della sua nuova impostazione metodologica di stampo empirico, sa di non poterlo esplorare completamente e in profondità. Come infatti accade nella prima sezione della seconda parte del libro dedicato alle passioni, parlando e tentando di dare una definizione di amore e odio, il filosofo scozzese si vede costretto, suo malgrado, ad affermare che, proprio in apertura dell’argomento:


«è assolutamente impossibile formulare una definizione delle passioni di amore e odio…queste passioni sono di per se stesse sufficientemente note dai nostri sentimenti comuni e dalla nostra esperienza»44.



L’evidenza empirica e sociale attribuita a queste passioni da Hume, sembra quindi pregiudicare, come precedentemente sottolineato, ogni definizione “accademica” delle stesse. Proprio il suo desiderio di realizzare una scienza empirica della natura umana, gli precluse inoltre la possibilità di effettuare un’indagine metafisica della stessa, costringendolo in alcuni casi a dare l’impressione di un guerriero battuto, che depone le armi davanti al vincitore; Hume invece, poneva fieramente le basi di tutto il suo sapere nel conoscibile e non spingeva oltre questo la sua brama di sapienza, convinto dell’inutilità delle “diatribe” metafisiche dei suoi avversari e detrattori.








5.1 LA REGOLARITÀ DELLE PASSIONI UMANE


Il filosofo ritrova nei movimenti delle passioni, il medesimo meccanismo regolare che guida le leggi fisiche e proprio grazie a questo ritiene di poter indagare tale argomento con accuratezza tale da conferirgli carattere scientifico. L’esame delle impressioni eseguito da Hume, mette in evidenza la possibilità di risalire, per ognuna di queste, attraverso l’osservazione di vari fenomeni, alle cause, agli oggetti delle stesse e persino alle qualità ad esse appartenenti; il percorso usato ad esempio nel caso della disamina delle passioni di odio e amore ha un’evidente impronta sperimentale. L’autore raggiunge spesso, attraverso vari tentativi, l’oggetto della sua ricerca, notando ad esempio che la causa di una passione non può trovarsi in ciò a cui essa è diretta, perché questo comporterebbe l’annullamento della passione stessa, l’alternanza di due passioni differenti o la mescolanza delle stesse. Ponendo queste basi diventa poi semplice, secondo l’autore dell’opera ottenere uno schema rappresentativo di buona parte delle affezioni umane e realizzare una spiegazione abbastanza dettagliata delle stesse, senza però dimenticare l’impossibilità di guadagnare una conoscenza completa delle differenti caratteristiche costitutive presenti nelle singole passioni. In egual maniera anche le relazioni che legano idee e impressioni vengono dipinte in modo abbastanza netto, fornendo ulteriore scientificità all’intero sistema; un accenno particolare a conferma di ciò, è la situazione descritta da Hume riguardo alla relazione di causa effetto. Non tradendo l’impostazione empirica dell’opera, il filosofo scozzese spiega questo principio grazie all’intervento dell’esperienza; in un tratto rappresentativo dell’esposizione, l’autorità del principio di causa ed effetto viene spodestata dall’imponente attacco sferrato dalla credenza coadiuvata dall’immaginazione, che la trasforma in conseguenza empirica dell’osservazione dei fatti e della loro trasposizione mentale in un futuro ipotetico. In altre parole questo principio dalla storia secolare, diventa il frutto della mera osservazione di eventi riguardanti fatti fisici, o intellettuali e della loro probabile riproposizione successiva nel tempo, svuotato della finalità necessaria che fino a quel momento lo aveva accompagnato. Le passioni di Hume recidono quindi il legame ancestrale che attraverso i secoli le aveva connesse all’anima umana come sosteneva Descartes e diventano o tornano ad essere padrone indiscusse dell’essere umano; secondo l’edimburghese gli individui non devono tentare di soffocare le proprie affezioni perché è grazie a queste che essi possiedono una coscienza personale. Il salto più ampio avviene però nell’ambito del rapporto tra ragione e passioni; opponendosi drasticamente alla tradizione precedente e alle concezioni religiose del periodo, David Hume sottomette la ragione, fino a quel momento regina incontrastata dell’organismo umano nella sua interezza, all’azione delle passioni. Essa non è in grado, a parere del filosofo scozzese, di governare le affezioni, ma solamente di compiere e stabilire relazioni tra le varie idee senza poter mai dettare legge nell’ambito dell’agire umano. Ancor di più, in un tratto dell’opera che porta con sé evidenti retaggi di stampo illuminista, secondo Hume e contrariamente a ciò che aveva sempre sostenuto il suo illustre predecessore Hobbes in evidente accordo con la concezione cristiana, l’uomo dovrebbe lasciarsi guidare dalle passioni e permettere loro di condurlo verso i piaceri essenziali della vita, attraverso una strada che porta inevitabilmente alla vita in società, garantita dall’intervento della simpatia nei rapporti umani.







5.2 I RAPPORTI TRA INDIVIDUI


Le relazioni di rassomiglianza, contiguità e causa effetto non sono l’unica scaturigine delle passioni secondo Hume; i rapporti tra individui vengono esaminati con estrema attenzione all’interno dell’opera dello scozzese. I legami di parentela, quelli amorosi e affettivi, ma anche la contiguità e la rassomiglianza tra popolazioni appartenenti ad una stessa cultura o nazione, svolgono un ruolo cruciale nel sorgere delle affezioni umane. Gli esempi portati da Hume come prova delle sue affermazioni sono molteplici; l’esame dei legami parentali è raffinato e suffragato da simulazioni finalizzate alla dimostrazione delle variazioni alle quali sono sottoposte le passioni nei differenti casi: dalla semplicità con cui nasce la passione amorosa quando l’oggetto della stessa è un nostro familiare, all’orgoglio riflesso che nasce in noi per le sue buone qualità e viceversa; dal particolareggiato ritratto che l’autore esegue della difficoltà che ognuno di noi incontra nel sottoporsi all’esame dei nostri cari; dalle altre varie passioni e modificazioni delle stesse che lo scozzese propone; si evince la complessità della natura umana nella sua coniugazione sociale. Ma il vero centro di tutta la fitta ragnatela di relazioni intessute tra i singoli individui, è per Hume la simpatia; questa qualità della natura umana è ciò che ci garantisce la comprensione e la comunicazione delle nostre e altrui inclinazioni e sentimenti. La sua esistenza guida gli uomini, nei propri modi d’agire, nelle proprie scelte, nei propri processi mentali e persino nei propri errori; è infatti a causa della simpatia che spesso, posti d’innanzi ad una decisione, propendiamo per l’irrazionale solo perché questo ci viene presentato da un amico, un parente o comunque una persona a noi affine. La forza della simpatia risulta quindi essere immensa e a volte di tipo coercitivo, tanto da spingerci verso un piacere minore o una scelta errata; è proprio qui che risiede la differenza principale tra la teoria di Hume e l’originale socievolezza dell’uomo, tanto sostenuta in quel periodo. Il filosofo scozzese accetta la condizione sociale dell’essere umano, ma proprio per seguire la sua concezione di simpatia, sembra voler ammettere una preferenza individuale finalizzata ai soggetti adiacenti, senza però rendersi conto che tale posizione lo porta ad accettare la situazione immaginata da Hobbes, di guerra degli uomini contro gli uomini, quantomeno nei confronti degli individui a noi distanti, che inizialmente aveva ripudiato. I rapporti tra singoli assumono grande importanza anche nell’ambito della valutazione che gli individui fanno delle ricchezze e della fama altrui; senza la simpatia, Hume sostiene infatti che la nostra stima per il potere e i possedimenti altrui non avrebbe valore, il che sembra togliere incisività alla ricchezza fine a sé stessa. Se infatti è vero che stimiamo i grandi personaggi storici per le loro gesta o i regnanti per il loro potere, è pur evidente che la possibilità di trarre vantaggio da questi è praticamente nulla; la vera stima provata per le persone abbienti poste in una posizione sociale da noi raggiungibile nasce solamente dal percorso dell’immaginazione che ci pone nella condizione di credere di poter ottenere una qualche sorta di vantaggio dalla conoscenza di questi individui e dalla possibilità di condividere le loro ricchezze o il loro potere. Quindi lo scenario che si prospetta, pare mettere in risalto un certo egoismo mascherato da stima, presente in tutti noi, che ci spinge a intrecciare rapporti con i nostri simili, col solo fine di trarre il maggior piacere possibile, o direttamente da loro stessi come esseri senzienti o attraverso lo sfruttamento delle loro possibilità; per quanto da un certo punto di vista il filosofo scozzese cerchi di celare dietro al suo sistema dal raffinato impianto scientifico, la propensione naturale dell’uomo ad approfittare dei propri simili, essa si manifesta prepotentemente ad un esame scrupoloso del progetto del Trattato. E’ inevitabile ricordare infine, che nel progetto di Hume, la simpatia risulta essere la scaturigine anche della moralità. Il filosofo scozzese sostiene che è grazie alla simpatia che gli uomini superano l’egoismo che li contraddistingue e che li costringe all’isolamento; ed è sempre conseguentemente all’intervento di questa, modellata a compassione, che ci preoccupiamo della situazione dei nostri simili e ci rendiamo partecipi delle loro sofferenze, attraverso il meccanismo di trasformazione di un’idea in impressione. Qui nasce la morale nell’ottica di Hume, che non è quindi un insieme di regole che affermano a priori ciò che è giusto o sbagliato, ma una sincera condivisione di passioni tra individui interconnessi.





5.3 LA FINE DELLA LIBERTÀ


Le azioni umane, così come tutta la natura che ci circonda sono, all’interno dell’universo di Hume, rette dalla necessità. Le difficoltà che il filosofo scozzese dovette affrontare nell’intento di dare una spiegazione valida e difenderla dalle ingerenze esterne, furono senza dubbio immani. Tramite la necessità inscindibilmente connessa alle azioni umane, il filosofo può sostenere che le decisioni prese da ogni singolo individuo siano semplicemente frutto delle circostanza, delle sue sensazioni, del suo carattere e delle sue inclinazioni; in questo modo chiunque, come precedentemente esposto, è in grado di inferire, grazie alla mera osservazione, le motivazioni che hanno spinto un suo simile a comportarsi in una determinata maniera. La necessità, nonostante sembri ridurre la libertà, la scelta e le possibilità umane, non intacca la libertà di spontaneità, come la definisce Hume; solamente la libertà di indifferenza può spingersi a tanto, ma questa non entra in gioco nello schema realizzato da Hume, e quindi risulta ininfluente. Le critiche più rigorose che colpirono queste tesi, furono quelle scagliate dagli ambienti ecclesiastici; la necessità infatti, come fino a quel momento concepita, produrrebbe un inevitabile distaccamento tra l’uomo e la colpa. Se un individuo non può agire diversamente da come la necessità gli impone, nulla, conseguente alle sue azioni, gli può essere imputato; tutto ciò significherebbe il crollo delle costruzioni morali di stampo retributivo, tipiche del cattolicesimo. Senza colpa infatti, non esisterebbe neanche il suo contrario, ossia il merito, e finirebbero per sparire molti sacramenti indispensabili al culto religioso cristiano stesso, come ad esempio il rito della confessione. Le conseguenze di un tale sistema però, non si abbatterebbero esclusivamente sull’ambiente religioso, ma avrebbero enormi ripercussioni anche in ambito sociale; privati del sistema bipolare pena-punizione, atteggiamento virtuoso-premio, le società incontrerebbero enormi difficoltà nel mantenere il proprio assetto, sia politico che morale. Le critiche mosse, ed esposte fino a questo momento, risultano però fini a sé stesse, se l’opera dell’edimburghese viene esaminata con attenzione; Hume infatti si prodiga istantaneamente, non appena esposta la sua premessa a favore della necessità, a specificare in ogni particolare le condizioni di questa “sua” necessità. Questa infatti viene subito annessa alla volontà e distinta in maniera decisiva, dall’inintelligibile necessità che spetta, secondo la tradizione, alla materia; anzi è proprio la materia a partecipare di quell’intelligibile necessità che «l’ortodosso più rigoroso ammette o deve ammettere appartenere alla volontà»45. Questa concezione delle azioni umane come conseguenza inevitabile della necessità, si incontra perfettamente con l’impostazione scientifica utilizzata da Hume all’interno di tutta la sua opera: dai meccanismi attribuiti all’intelletto, allo sviluppo delle passioni, all’istituzione della morale e così dicendo. Una volontà che può essere studiata grazie all’osservazione sistematica ed empirica delle azioni umane è la logica conseguenza di tutto questo sistema; e un plausibile metodo di realizzazione di uno schema filosofico-scientifico atto a figurare il complesso di tutti i processi umani siano essi interni, quindi frutto dell’azione del singolo, o esterni, ossia derivanti dalla relazione di più individui tra di loro.








5.4 LE PASSIONI NEGLI ANIMALI


Tema secondario ma alquanto insolito per l’epoca e per la tradizione precedente, è la trattazione delle passioni negli animali. Al termine della prima e seconda parte del libro inerente le passioni umane, David Hume pone due sezioni trattando dell’orgoglio e dell’umiltà negli animali nella prima, e di amore e odio nella seconda. Per poter introdurre l’argomento, lo scozzese utilizza lo stratagemma, già conosciuto e sfruttato precedentemente, del parallelismo tra struttura fisica di un sistema, come ad esempio la circolazione sanguigna o il sistema nervoso, e la funzione dello stesso; realizzando poi una similitudine, figlia della metodologia d’azione scientifica, in particolar modo destinata allo studio dell’anatomia, che pone su uno stesso piano le strutture fisiche animali e umane, Hume cerca di ampliare il suo sistema delle passioni fino ad includere anche il mondo animale. La tendenza del filosofo edimburghese è quella di dimostrare, anche qui a livello empirico, attraverso un alto numero di esempi, la presenza delle affezioni descritte per gli esseri umani, anche nel mondo degli esseri fino a quel momento definiti irrazionali; questa era stata infatti la sorte toccata al mondo animale per mano di eccellenti pensatori come ad esempio Descartes, che lo aveva ridotto ad un impianto puramente meccanicistico, a causa probabilmente del rapporto che il francese aveva osservato tra le passioni e l’anima. Inquadrando infatti le specie animali, nel raggruppamento di quegli esseri privi di spirito eterno, autocoscienza e via dicendo, egli non poteva certamente osservare nelle bestie la presenza di passioni, che si sarebbero mostrate contraddittorie. Contraddittorietà questa, che per la stessa formulazione della definizione di passione, non può essere riscontrata nel sistema filosofico-scientifico architettato da David Hume. Il filosofo scozzese nota nelle bestie, non solo le stesse passioni, ma anche il medesimo modo di sorgere delle stesse; la familiarità, i modi d’approvazione, le relazioni di rassomiglianza, contiguità e causa effetto, le cause delle passioni animali sembrano essere a Hume, le medesime presenti nella specie umana. Infine per concludere questa trattazione inerente le passioni animali, è importante sottolineare che David Hume sembra lasciar intendere che, le mancanze presenti nelle bestie a livello del pensiero, dovute alla loro limitatezza intellettiva, vengono in un certo qual modo controbilanciate dalla presenza in esse, della simpatia; questa anche nei casi in cui, debbano manifestarsi passioni richiedenti un grande sforzo immaginativo e intellettivo, riescono a reggere l’affezione, come nel caso della pietà, per quanto essa, a parere del filosofo, sia raramente osservabile nel regno animale.











5.5 HUME: PRECURSORE DELLA SOCIOLOGIA?


Pochi anni dopo la morte di David Hume, August Comte (Montpellier, 19 gennaio 1798 – Parigi, 5 settembre 1857), coniò il termine “sociologia”, all’interno del suo percorso filosofico. Sicuramente il filosofo scozzese non può essere definito sociologo nel senso pieno del termine, ma è certamente indubbio che il suo modo di muoversi tra le numerose domande e gli altrettanti dubbi, che il suo modus operandi di matrice scettico-empirica gli imponeva, ricorda molto alcune definizioni del termine “sociologia” stesso, come ad esempio “sociologia come studio scientifico della società”. Hume però non limita il suo studio scientifico alla società nel suo districarsi di rapporti tra individui, ma si spinge fino nell’intimo dei singoli esseri umani, per poter cogliere al meglio la scintilla che funge da innesco per l’esistenza del mondo e della conoscenza che di esso possiamo ottenere. Il risultato che l’edimburghese ottiene, ha certamente uno spiccato carattere di sistematicità e riesce indubbiamente a cogliere tutti gli aspetti più “terreni” che la filosofia aveva sino a quel momento incontrato; molto probabilmente, proprio questa sua necessità scientifica, di rimanere ancorato al mondo sensibile, al mondo intelligibile esclusivamente grazie alle nostre fallibili percezioni umane, l’ha condannato ad ottenere un’ammirazione maggiore dalla critica postuma piuttosto che contemporanea. Rimane comunque fuori da ogni dubbio, che l’apporto garantito dal filosofo David Hume all’interno del panorama intellettuale del 1700 e successivo, è stato di enorme importanza, venga esso assoggettato a qualsivoglia filtro interpretativo, critica o riproposizione.


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1 A. Santucci, Introduzione a Hume, Editori Laterza, Italia, 2010, p.159.

2 Ivi, p. 161.

3 Ivi, p. 14.

4 D. Hume, Storia Naturale della Religione, Edizioni Laterza, Italia, 2007, p. 56.

5 R. Cartesio, Passioni dell’anima, Bompiani, Italia 2003. p.3

6 Ivi, p. 4

7 Ivi, p. 11.

8 A. A. Cooper, Ricerca sulla virtù e il merito, p. 43.

9 D. Hume, My Own Life, Appendix A of Ernest Campbell Mossner, University of Texas Press, 1954, p. 612.

10 D. Hume, Trattato sulla Natura Umana, Bompiani, Italia, 2010. p. 33.

11 Ivi, p. 37.

12 Ivi, p. 57.

13 Ivi, p. 501.

14 Ivi, p. 525.

15 A. Santucci, Introduzione a Hume, cit., p.73.

16 Ibidem.

17 Ibidem.

18 D. Hume, Trattato sulla Natura Umana, cit., p. 903.

19 Ivi, p. 909.

20 Ivi, p. 941.

21 Ivi, p. 1041.

22 Ivi, p. 1049.

23 Ivi, p. 1141.

24 Ivi, p. 1179.

25 Ivi, p. 551.

26 Ibidem.

27 Ivi, p. 555.

28 Ivi, p. 563.

29 Ivi, p. 565.

30 Ivi, p. 571.

31 Ivi, p. 581.

32 Ivi, p. 585.

33 Ivi, p. 597.

34 Ivi, p. 609.

35 Ivi, p. 617.

36 Ivi, p. 665.

37 Ivi, p. 705.

38 Ivi, p. 731.

39 Ivi, p. 749.

40 Ivi, p. 777.

41Ivi, p. 791.

42 Ivi, p. 849.

43 Ivi, p. 885.

44 Ivi, p. 655.

45 Ivi, p. 813.




Aggiunto il 18/09/2017 19:31 da Davide Orlandi

Argomento: Filosofia moderna

Autore: Davide Orlandi



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