Don Ferrante e il crepuscolo dell’aristotelismo
Nel vasto affresco de "I Promessi Sposi" di Alessandro Manzoni, Don Ferrante si staglia come una figura emblematica, un erudito secentesco che incarna il tramonto di un’epoca filosofica: quella dell’aristotelismo scolastico. La sua biblioteca, descritta con ironia tagliente da Manzoni, è un microcosmo di sapere enciclopedico, dominato dalla venerazione per Aristotele, “il filosofo” per antonomasia, e da autori come Gerolamo Cardano, mentre figure come Machiavelli sono sprezzantemente liquidate come “marioli”. La morte di Don Ferrante, vittima della peste che egli nega in nome di teorie astrologiche di matrice aristotelica, non è solo un episodio narrativo, ma un atto d’accusa contro un sistema di pensiero che, pur aspirando a spiegare l’universo, si rivela impotente di fronte alla realtà. Con tale articolo, attraverso un dialogo con la tradizione aristotelica, la scolastica medievale e la critica moderna, si intende dimostrare come Don Ferrante rappresenti una crisi della ragione deduttiva, incapace di confrontarsi con l’esperienza empirica e con le sfide della modernità. L’analisi si snoda tra la fedeltà di Don Ferrante ad Aristotele e la sua incapacità di adattare quel pensiero al reale, offrendo una riflessione profonda sulla natura del sapere e sul rapporto tra teoria e prassi.
L’aristotelismo di Don Ferrante: radici e deriva Scolastica
Per comprendere il fallimento di Don Ferrante, è necessario risalire alle radici dell’aristotelismo che egli incarna. Aristotele, come sottolinea Giovanni Reale, concepiva la filosofia come un’indagine sistematica della realtà, fondata su un metodo che combinava osservazione empirica e deduzione logica (Reale, 1986, p. 45). La sua dottrina delle quattro cause (materiale, formale, efficiente, finale), la distinzione tra potenza e atto, e la teoria della sostanza come sintesi di materia e forma offrivano un quadro dinamico per spiegare il divenire naturale e l’ordine cosmico. Nel De anima, Aristotele descrive l’anima come “l’atto primo di un corpo naturale organico” (Aristotele, 2011, 412b), un principio vitale che integra il fisico e il metafisico. Questo approccio, flessibile e aperto all’indagine, era però lontano dall’aristotelismo di Don Ferrante, che si radica nella scolastica medievale e rinascimentale. La scolastica, da Tommaso d’Aquino in poi, aveva trasformato il pensiero aristotelico in un sistema dogmatico, in cui i principi dello Stagirita erano considerati verità assolute, spesso al servizio della teologia cristiana. Come osserva Enrico Berti, l’aristotelismo scolastico “non era più un metodo di ricerca, ma un corpus di auctoritates” (Berti, 1991, p. 23). Nel Seicento, questo sistema era ormai sclerotizzato, incapace di rispondere alle scoperte di Copernico, Galileo e Keplero. Don Ferrante, con la sua fiducia nelle teorie astrologiche e nella cosmologia aristotelica-tolemaica, incarna questa deriva. La sua negazione della peste, attribuita a influenze astrali piuttosto che a cause biologiche, riflette un’interpretazione distorta di Aristotele, in cui il cosmo è un sistema immutabile governato da principi metafisici, non da leggi empiriche. Don Ferrante si chiude in una logica formale che, pur “concatenata” come sottolinea Manzoni, è scollegata dalla realtà.
La negazione della peste: un fallimento epistemologico aristotelico
La negazione della peste da parte di Don Ferrante è il fulcro del suo fallimento filosofico e il punto in cui l’aristotelismo scolastico rivela la sua inadeguatezza. Manzoni descrive Don Ferrante come un uomo che, “al primo parlar che si fece di peste, fu uno de’ più risoluti a negarla, e che sostenne costantemente fino all’ultimo, quell’opinione; non già con ischiamazzi, come il popolo; ma con ragionamenti, ai quali nessuno potrà dire almeno che mancasse la concatenazione” (Manzoni, 1840, p. 567). Questo passaggio è cruciale: la “concatenazione” dei ragionamenti di Don Ferrante è il prodotto di un metodo sillogistico aristotelico, che parte da premesse astratte (l’influenza degli astri) e rifiuta l’evidenza empirica della peste come fenomeno biologico. Aristotele, nella Metafisica, sottolineava l’importanza dell’induzione per derivare principi universali dall’osservazione (Aristotele, 1997, 1003a), ma Don Ferrante ignora questa componente, affidandosi a una deduzione che privilegia la coerenza interna rispetto alla verifica fattuale. Come osserva Karl Popper, un sistema scientifico deve essere falsificabile, cioè aperto alla confutazione attraverso l’esperienza (Popper, 1959, p. 33). L’aristotelismo di Don Ferrante, invece, si basa su premesse dogmatiche, come la teoria degli elementi e l’influenza celeste, che non ammettono contraddizioni. La peste, con la sua concretezza biologica e sociale, sfida queste categorie, richiedendo un approccio scientifico, come quello di Galileo o Bacone, che Manzoni, influenzato dall’Illuminismo, implicitamente esalta. Questo fallimento epistemologico può essere analizzato attraverso la distinzione aristotelica tra episteme (conoscenza scientifica) e doxa (opinione). Don Ferrante crede di possedere un’episteme, ma la sua conoscenza è in realtà una doxa mascherata da scienza, un insieme di credenze non verificate. Un aspetto centrale dell’aristotelismo di Don Ferrante è la sua adesione alla cosmologia aristotelica-tolemaica, che concepisce l’universo come un sistema gerarchico di sfere celesti, con la Terra al centro e i corpi celesti mossi da intelligenze divine. Nel De caelo, Aristotele descrive un cosmo eterno e immutabile, in cui i moti celesti sono circolari e perfetti, in contrasto con il mondo sublunare, soggetto a generazione e corruzione (Aristotele, 2005, 268a). Questa visione, adattata dalla scolastica, era ancora dominante nel Seicento, nonostante le scoperte di Copernico e Galileo. Don Ferrante, con la sua fede nell’influenza astrale, si inserisce in questa tradizione. La peste, per lui, non è un fenomeno biologico, ma il risultato di configurazioni celesti, un’idea che deriva dalla teoria aristotelica della causalità finale, in cui ogni evento è diretto verso un fine cosmico. Questa interpretazione, come nota Paolo Rossi, riflette l’incapacità della scolastica di abbandonare un modello cosmologico che, pur elegante, era ormai superato (Rossi, 1983, p. 112). La fiducia di Don Ferrante nella cosmologia aristotelica lo rende cieco di fronte alla realtà empirica, trasformandolo in un simbolo della resistenza al progresso scientifico.
L’aristotelismo e la biblioteca di Don Ferrante: un sapere inutile
La biblioteca di Don Ferrante, descritta da Manzoni con un misto di ironia e compassione, è il tempio del suo aristotelismo. Vi troviamo “autori di gran nome” come Cardano, ma anche trattati di cavalleria e astrologia, mentre Machiavelli è escluso come autore pericoloso. Questa selezione riflette l’approccio secentesco all’aristotelismo, che privilegiava l’erudizione enciclopedica rispetto alla critica. Come scrive Umberto Eco, la biblioteca di Don Ferrante è “un labirinto di conoscenze inutili, un monumento alla sterilità del sapere” (Eco, 1985, p. 67). Aristotele stesso, nella Poetica, sottolineava l’importanza della conoscenza come mezzo per comprendere l’universale attraverso il particolare (Aristotele, 1995, 1451b). Don Ferrante, però, si perde in un accumulo di nozioni che non dialogano con il reale. La sua passione per la cavalleria e l’astrologia, come nota Macrì, è “l’emblema di un pensiero che si compiace di sé stesso, senza mai confrontarsi con l’essere” (Macrì, 2020, p. 112). La biblioteca, dunque, non è un luogo di sapere vivo, ma una prigione di dogmi, che impedisce a Don Ferrante di vedere la verità della peste. Don Ferrante non è solo un personaggio, ma un’allegoria della crisi culturale del Seicento, un’epoca in cui l’aristotelismo scolastico entrava in conflitto con la rivoluzione scientifica. Come nota Thomas Kuhn, il passaggio da un paradigma scientifico all’altro è spesso traumatico, poiché richiede l’abbandono di certezze consolidate (Kuhn, 1962, p. 77). Nel caso di Don Ferrante, la sua biblioteca, con i suoi tomi polverosi e le sue autorità dimenticate, rappresenta un sapere fossilizzato, incapace di rispondere alle sfide del reale. Manzoni, con la sua sensibilità romantica e illuministica, usa Don Ferrante per criticare non solo l’aristotelismo, ma l’intera mentalità secentesca, che preferisce l’erudizione alla verità. Don Ferrante si perde in un’enciclopedia di conoscenze inutili, come la cavalleria e l’astrologia, che non hanno alcuna presa sulla realtà. La sua morte, ironica e tragica, è il prezzo della sua fedeltà a un sistema filosofico che ha smesso di dialogare con il mondo.
L’Ironia manzoniana e la critica alla ragione astratta
L’ironia di Manzoni è lo strumento con cui egli smaschera il fallimento di Don Ferrante. Descrivendo la sua biblioteca e le sue passioni, Manzoni non si limita a ridicolizzarlo, ma ne fa un simbolo della vanità del sapere disancorato dall’esperienza. Come osserva Umberto Eco, l’ironia manzoniana non è mai fine a sé stessa, ma serve a rivelare le contraddizioni interne di un sistema di pensiero (Eco, 1985, p. 67). Nel caso di Don Ferrante, l’ironia si concentra sulla sua presunta autorità: egli è “l’eroe e il martire della dottrina inutile”, un uomo che muore per la sua incapacità di abbandonare un’aristotelica visione del mondo. Questa critica si inserisce nel più ampio progetto manzoniano di superare le regole aristoteliche, come quelle delle tre unità nel teatro, a favore di una rappresentazione del “vero” e della “verosimiglianza storica”. Manzoni, influenzato dal Romanticismo italiano, rifiuta l’astrattezza della ragione scolastica e abbraccia un approccio più empirico e umanistico, che trova nella storia e nei sentimenti il vero motore della realtà. Il fallimento di Don Ferrante non è solo un episodio letterario, ma una lezione filosofica sulla natura del sapere. L’aristotelismo, nella sua forma originaria, aveva il merito di offrire un quadro sistematico della realtà, ma la sua sclerotizzazione scolastica lo rese vulnerabile alle critiche della modernità. Come sottolinea Hans-Georg Gadamer, ogni tradizione filosofica deve essere reinterpretata alla luce del presente per rimanere viva (Gadamer, 1960, p. 305). Don Ferrante, invece, rappresenta una tradizione che si è chiusa in sé stessa, diventando un ostacolo al progresso. La sua figura invita a riflettere sul rapporto tra teoria ed esperienza, un tema centrale nella filosofia contemporanea. La peste, con la sua brutalità, smaschera l’inadeguatezza di un sapere che si limita a concatenare sillogismi senza confrontarsi con la realtà. In questo senso, Don Ferrante è un monito per ogni filosofo: la conoscenza non è un fine in sé, ma un mezzo per comprendere e trasformare il mondo. La figura di Don Ferrante spinge a una riflessione più ampia sull’eredità dell’aristotelismo. Se la sua versione dell’aristotelismo è una caricatura, è importante notare che il pensiero di Aristotele rimane influente nella filosofia moderna. Ad esempio, la sua etica, centrata sul concetto di eudaimonia (felicità come realizzazione) e sulla dottrina del giusto mezzo, continua a ispirare l’etica delle virtù contemporanea, come si vede negli scritti di Alasdair MacIntyre (MacIntyre, 1981, p. 201). Allo stesso modo, la logica e la metafisica aristoteliche hanno lasciato un’impronta duratura sul pensiero occidentale, come dimostrato dalla loro influenza su pensatori come Heidegger, che ha reinterpretato concetti aristotelici come ousia (sostanza) nella sua ontologia (Heidegger, 1927, p. 63). La lezione di Don Ferrante è che anche il più robusto sistema di pensiero, come l’aristotelismo, deve evolversi per rimanere rilevante. La sua morte è un promemoria che la filosofia non riguarda la difesa di una tradizione, ma la ricerca della verità, anche quando questa sfida le nostre convinzioni più profonde.
Conclusione: la tragedia della ragione scolastica
Don Ferrante, con il suo aristotelismo fallito, è una figura tragica e ironica, un uomo che muore vittima della propria fedeltà a un sistema di pensiero obsoleto. La sua negazione della peste, la sua fiducia nelle teorie astrologiche e la sua venerazione per Aristotele rivelano i limiti di una ragione che si chiude all’esperienza. L’ironia di Manzoni trasforma Don Ferrante in un simbolo della crisi secentesca, ma anche in un monito senza tempo: la filosofia deve confrontarsi con la realtà, o rischia di diventare un esercizio sterile di erudizione. La tragedia di Don Ferrante è la tragedia di una ragione che, nella sua ricerca di certezze, perde di vista la verità.
Bibliografia
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Aggiunto il 27/04/2025 14:01 da Maria Pia Beatrice Vinciguerra
Argomento: Filosofia medioevale
Autore: Maria Pia Beatrice Vinciguerra
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